sábado, 31 de agosto de 2013

Sogno n.61 L'Isola che non c'è anno 2011


Mi trovavo a partecipare ad una regata che era partita dal porto di New York con 27 barche a vela, dopo aver fatto vari scali, ci dirigemmo nelle isole Bermude e attraccammo al porto di Hamilton capitale della Grande Bermuda.
Dopo esserci fermati quattro giorni, anche per riparare danni ad alcune barche, lasciammo il porto e facemmo rotta verso Miami in Florida, tappa finale della regata.
Avevamo appena lesciati la Grande Bermuda, quando si cominciò ad alzare la nebbia.
Tutte le barche oltre ad essere moderne, erano dotate di apparecchi sofisticati che ci permettevano di evitare eventuali scogli e di urtarci gli uni agli altri, evitando di speronarci a vicenda.
Anche se non vedevo nulla seguivo la rotta prefissata prima della partenza da Hamilton.
Non c’era vento, così ero costretto ad usare il motore.
Non sò quanto navigai alla cieca; per di più avevo perso il contatto con i miei compagni date le interferenze che si erano verificate da un pò di tempo.
D’improvviso la nebbia scomparve e mi trovai in vista di un isola.
L’isola era abitata, vedevo delle capanne lungo la spiaggia.
Ad un dato punto due piròghe di staccarono dalla spiaggia e vennero verso di me.
In un primo momento pensai a dei pirati e avevo preso il fucile da caccia che mi ero portato appresso .
Ma poi quando si avvicinarono, vidi che non erano armati e lasciai il fucile nel ripostiglio.
Una volta accostati alla barca, dalla scaletta che pendeva fuoribordo, salì un ragazzo e una ragazza.
Erano a dorso nudo, il ragazzo portava un gonnellino di tessuto colorato, la ragazza portava un gonnellino fatto di foglie di non capii bene di che pianta.
Avevano al collo delle collane di fiori e quando la ragazza fu vicino a me, si tolse la sua collana e me la mise al collo.
Pensai di essermi fermato in un isola delle Havaii.
Non erano di carnagione scura, ma neanche chiara, forse erano mulatti.
Parlavano una lingua da me incomprensibile.
Cercai di domandare se conoscevano: tutte le lingue europee che conoscevo, ma loro scuotevano la testa.
Indicando una piroga, mi invitarono a seguirli.
Forte della mia fortuna di non trovarmi mai nei guai, scesi dalla barca e salii sulla piroga.
Il ragazzo e la ragazza si misero ai remi e poco dopo, le piroghe avevano attraccato nella spiaggia e tirate in secca da altri indigeni.
Mentre lasciavamo la barca e ci dirigevamo verso la riva, fui colpito da una cosa strana; dei bambini nuotavano in acqua e sembrava, giocassero con degli squali.
Una volta sbarcati mi fecero cenno di seguirli.
Dopo essere entrati in una selva di palme e altre piante, arrivammo dove c’erano raggruppati vari cavalli, che dalle righe che avevano sul dorso, sembravano più delle zebre.
Non erano munite di selle, ne di briglie.
Loro salirono in groppa e io li imitai reggendomi alla criniera di quella che cavalcavo sperando di non cadere.
Il ragazzo disse qualcosa e loro partirono, prima al trotto, poi al galoppo.
Entrammo in una savana, costeggiammo, leoni e tigri che ci guardarono e poi tornarono a mangiare quello che avevano tra le zampe.
Dopo un certo tempo avvistai delle costruzioni.
Erano case, non molto alte.
Erano di pietra, la copertura era di un materiale che brillava alla luce del sole.
Come entrammo in una strada, notai che era ricoperta da pietre livellata; e anche queste, brillavano con i raggi solari.
L’architettura delle costruzioni era lavorata, non posso dire quale era lo stile, comunque era piacevole da vedere.
La gente che camminava lungo il bordo delle case, al nostro passaggio si fermavano a guardarci, poi proseguivano per il loro cammino.
In una sopraelevazione c’era una grande costruzione.
I miei accompagnanti si fermarono vicino ad una scalinata dove s’era riunita della gente.
Mi fecero scendere dalla cavalcatura e dopo aver parlato con un uomo, si voltarono e andarono via.
Tutti mi guardavano, toccavano i miei vestiti, che erano solo un paio di pantaloni bianchi, una maglietta dello stesso colore, solo che aveva stampato al centro una barca a vela e il nome:Sallyb 36 - Royal Navy Club – Atlantic Meeting 2011, e un paio di scarpe bianche, da tennis.
Loro, gli uomini; predominavano quelli di carnaggione chiara, avevano i capelli biondi, intrecciati da formare due trecce. Indossavano delle strane scarpe a forma di stivaletti di pelle, pantaloni attillati e una casacca che arrivava al ginocchio, di vari colori.
Le donne oltre alle scarpe più piccole, avevano un vestito (sembrava fatto di pelle), alcune lo portavano lungo fino alle scarpe, altre (più giovani) fino al ginocchio.
Tutti avevano collane e bracciali.
Le giovani donne erano sbracciate e portavano, oltre a varie collane multicolori, vari bracciali, alcuni arrivavano fino al gomito e orecchini di vetro: rossi, verdi e trasparenti.
Fui accompagnato da varie persone, alla presenza di un uomo anziano (non vecchio) anche se aveva la barba bianca.
Prima di arrivarci, percorremmo varie sale e corridoi.
Ero ammirato dagli affresci alle pareti, dalle statue su piedistalli, da pelli di animali come: leoni, tigri e zanne enormi di elefanti, alcune ricurve da farmi pensare ai mammut.
I capelli oltre che chiari, erano lunghi e annodati da formare due lunghe trecce.
Mi invitò ad avvicinarmi, chiedendomi qualcosa che, non capii.
Vedendo che non avevo capito quello che aveva detto, tornò a ripeterlo in vaie lingue, fino ad arrivare all’italiano.
Mi chiese come ero capitato nella sua isola (mi disse un nome che però non fissai bene nella mente).
Dissi della regata oceanica e quello che era successo dopo aver lasciato la Grande Bermuda.
Non sapeva niente di quello che c’era al di là della barriera corallina.
Dicendo Barriera Corallina, capii di essere capitato in un Atòllo.
Mi invitò a mangiare con lui e altri invitati e mentre mangiavamo volle che gli parlassi del mondo da cui venivo.
Gli parlai della mia terra l’Italia, di essere un appassionato di barche a vela e di ogni anno partecipare alle varie Regate.
Volle sapere cosa erano le Regate.
Gli dissi, di un insieme di barchi grandi e piccole che si riunivano in varie parti del mondo e poi si sfidavano in corsa sul mare.
Quella di quell’anno si svolgeva tra New York e Miami.
Volle che gli parlassi di queste due città.
Dissi che New York era una metropoli molto grande, mentre Miami era più piccola, località più per i ricchi, che di quelli come me.
Gli dissi di quello che avevo visto prima di arrivare al suo palazzo.
Lui non sapeva bene come era la situazione attuale, da che si ricordava, era stata sempre così da quando era nato.
Gli parlai del Paradiso Terrestre (L’Eden), lui non ne aveva sentito parlare.
Gli domandai se aveva mai lasciato l’isola, lui mi disse di no.
Mi disse di giovani che ogni anno lasciavano l’isola, ma poi non tornavano più indietro per raccontare quello che avevano visto.
Gli parlai del Triangolo delle Bermude o Triangolo maledetto, di navi ed aerei scomparsi.
Rimasi qualche giorno nell’isola ospite del re Goring (il nome, mi sembrava vichingo), documentandolo di tutto quello che avevo visto e fatto, prima di arrivare all’isola e girando l’isola, in lungo e in largo.
Ad ogni occasione, ero invitato a dei banchetti ed a assistere e partecipare alle danze locali, che mi facevano ricordare le danze avaiane.
Il re Goring mi disse del minerale che si estraeva dalle montagne, era tanto, da poterlo utilizzare per coprire le case e pavimentare le strade.
Conoscevo quel minerale; era Oro e se lo usavano in quel modo, si vede che ne avevano tanto.
Gli occhi delle statue erano di Rubini o Smeraldi.
Quelli che adornavano i colli o le braccia delle donne, oltre ad altre pietre prezione, erano diamanti.
Domandai, come mai c’erano tante ricchezze in quell’isola, non mi seppe rispondere; non conosceva il significato della parola Ricchezza.
Mi chiese se lo potevo aiutare a cercare i giovani che avevano lasciato l’isola in vari anni.
Gli promisi di aiutarlo, se riuscivo a lasciare il Triangolo.
Lui mi parlò delle perturbazioni atmosferiche, non sempre frequenti durante l’anno.
Poi mi fece sentire un canto locale (un pò come l’inno nazionale), provai a cantarlo, ma mi riuscì male, allora il re mi chiese di fischiarlo.
Fischiandolo, mi riuscì più facile.
Mi disse di fischiettarlo dovunque andassi, se incontravo qualcuno dell’isola, avrebbe riconosciuto l’inno e si sarebbe messo in contatto con me.
Quando mi disse che potevo ripartire, ci salutammo abbracciandoci alla presenza di tutti.
Carico di regali, lasciai l’isola e dopo essere entrato nella nebbia, ne uscii in vista della costa della Florida e un’ora dopo entravo nel porto di: Miami Beach.
Quando chiesi di attraccare facendo presente che facevo parte della Regata Atlantic Meeting, mi  indicarono il posto di attracco, vicino alle altre barche della competizione.
Appena sbarcato, fui circondato dai vari componenti la regata, che volevano sapere (tutti insieme, nelle loro lingue), dove ero stato.
Mi avevano dato per disperso, come altre quattro barche.
Quando dissi dell’isola (non parlando, ne dell’oro, ne delle pietre preziose) volevano sapere dove si trovava.
Purtroppo non lo sapevo, dissi; pressappoco nel triangolo delle Bermude, in qualsiasi latitudine.
Diedi a chi avevo più confidenza, i regali che mi avevano dato prima di partire, meno il sacchetto di diamanti che avevo appeso al collo e sotto l’ascella sinistra.
All’entrare in Hotel, cominciai a fischiettare, vidi un inserviente fermarsi da quello
che stava facendo, rimanendo in ascolto.
Dopo aver dato il passaporto, ritirai la scheda e presi l’ascensore per il quarto piano.
Sempre fischiettando raggiunsi la stanza 424, aprii la porta e dopo aver posato la borsa, cominciai a sistemare gli indumenti nei vari posti, quando sentii bussare alla porta.
Andai ad aprire e vidi l’inserviente che stava facendo le pulizie.
« Mi scusi signore, vorrei sapere dove ha imparato quel motivo che stava fischiettando? »
Lo feci entrare e dopo aver chiuso la porta, gli dissi: « Dallo stesso posto dove stavi tu. »
« Allora hai visto il re Goring; come l’hai conosciuto, mi puoi parlare di lui? »
Gli raccontai come ero arrivato all’isola e di quello che mi aveva chiesto il re.
Lui rimase un pó triste: « Dopo aver lasciato l’isola, siamo stati presi a bordo da una grande nave, dopo averci tolto tutto quello che avevamo ci hanno chiusi in una stanza. Le donne le hanno violentate. Una volta a terra, ci hanno venduti come schiavi ad altra gente. Ho sempre pensato di fuggire, come tanti altri lo hanno pensato. Ma qui non ci danno i soldi, non abbiamo documenti, dobbiamo solo lavorare per poter mangiare. »
« Ora sono qui con i mezzi (facendogli vedere il sacchetto con i diamanti), devo raccogliere più gente possibile, prima di noleggiare una barca per riportarvi all’isola. Ti puoi mettere in comunicazione con gli altri? »
Lui disse che lo avrebbe fatto.
Gli diedi il numero del mio telefonino.
Quando scesi al ristorante per mangiare, sempre fischiettando, vidi altra gente dell’isola, Hanuk si sarebbe messo in contatto con loro.
Andai a Miami città a fare il turista.
Sempre fischiettando, attirai l’attenzione di altre persone, che una volta fermate, dicevo di mettersi in contatto con Hanuk.
Da Miami andai dove mi dicevano di andare.
Mi spostavo per varie città della Florida e sempre che incontravo gente dell’isola dicevo loro: Se volevano andare via da lì, si dovevano mettere in contatto con Hanuk all’Hotel Royal di Miami Beach.
Alcune persone si erano sposate e non vollero lasciare la Florida.
Nel giro di una settimana, avevo raccolto più di cinquecento persone. Alcune donne avevano figli avuti lì, ma erano decise a portarli con loro.
Girando per vari porti, cercai una barca che avesse la capacità di trasportare cinquecento o più persone.
Ad alcune domande indiscrete, non davo spiegazioni.
Alla fine trovai un traghetto.
Il capitano e l’equipaggio non erano di confidenza; sembrava più una giurma di pirati.
Dopo aver contattato il prezzo (molto alto), feci valutare (da un orefice) il valore dei diamanti.
Una volta saputolo, era ancora bassa per la somma richiestami dal capitano.
Tornato al porto dissi al capitano quello che mi volevano dare per i diamanti; se lui accettava, all’arrivo, ne avrebbe avuti altrettanto.
Il capitano accettò i diamanti e dopo aver combinati, il giorno e l’ora della partenza, tornai in albergo.
Due giorni dopo, tramite un ragazzo, venni a sapere che quella sera, alle ore 21, una volta completato il carico saremmo salpati.
Dopo averlo detto ad Anuk, preparai le mie cose e all’ora stabilita andai al porto.
Le persone che avevamo convinti a tornare all’isola, cominciavano a salire a bordo.
Ci vollero piì di due ore per salire tutti.
Alle 21 e 30 il traghetto lasciò il molo e piano piano si diresse verso l’uscita del  porto.
Prima di scendere sottocoperta, vidi una ventina di barche lasciare gli ormeggi e seguirci.
Lo feci presente al capitano; lui mi rassicurò dicendo che erano pescatori.
Eravamo entrati in un banco di nebbia.
Il traghetto rallentò.
Ogni tanto si sentiva il fischio della sirena a cui rispondevano altri fischi.
Ero un pó preoccupato.
Ci stavo pensando sopra, quando sentii le palpebre farsi sempre più pesanti fino a quando mi addormentai.
Mi svegliò la luce del sole.
Stavo nel letto di una gabina.
Quando dopo essermi alzato, uscii dalla scaletta, vidi che stavo sulla mia barca.
Vedevo le altre barche della regata prepararsi ad uscire dal porto per fare ritorno a New York.
Mi preparai a seguirle.
Mentre facevo le manovre d’occorrenza, sentii qualcosa sul mio petto.
Guardai cosa era.
Era un sacchetto come quello che mi aveva dato il re Goring e che avevo dato al capitano del traghetto.
Come lo aprii, vidi, oltre ai diamanti, un biglietto.
Lo tirai fuori e lo lessi: « Ne avrai altrettanto ad ogni viaggio che farai verso la nostra isola. »
Capii che l’impegno preso con il re, non era finito.
Avrei dovuto cercare altra gente dell’isola.
Poi mi sono svegliato: era stato solo un sogno.

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