Qualche giorno prima, una voce anonima, mi aveva
telefonato, annunciandomi la mia morte.
Stavo lavorando nel campo, quando sentii qualcosa
urtare la mia schiena e come se qualcuno mi spingesse in avanti.
Poco dopo; non posso dire quanto, stavo guardando
una persona sdraiata in terra, in mezzo alla terra che quella persona stava
lavorando; lo deducevo dalla zappa che gli stava accanto.
Sulla schiena aveva un foro da cui usciva del sangue.
Lo chiamai, non mi rispose, volevo toccarlo ma, non ci riuscivo.
Le mie mani lo trapassavano.
Gli girai attorno e quando vidi il suo viso...era
come devermi allo specchio, sembravo io, quella persona assomigliava a me.
Non sapendo cosa fare, mi diressi verso casa.
Ma quando volli aprire la porta dello studio, la mano attraversava la
maniglia.
Che stava succedendo?
Ci pensai un pò e poi volli fare una prova, mi
diressi verso la porta cercando di attraversarla; di certo ci avrei sbattuto
contro, invece, l’attraversai come se non ci fosse.
In quel momento capii cosa era successo.
Ero morto.
Quella persona stesa sulla terra ero io e qualcuno mi aveva sparato.
E ora, come potevo dirlo a mia moglie?
La vedevo, stava dipingendo ascoltando della musica.
Non volevo spaventarla; ma in ogni caso dovevo pur dirglielo cosa
mi era successo.
Pensai, la chiamerò al telefono.
Ma come posso fare, se, non posso toccare il mio telefonino?
Pronunciando con la mente il numero del suo telefonino, la chiamai.
Il telefonino squillò a lungo prima che se ne accorgesse.
Quando rispose « Stò », risposi, « Sono io amore. »
« Perché mi stai chiamando, non puoi venire di
persona, ti è successo qualcosa, ti sei fatto male? »
« Purtroppo mi è successo qualcosa; nò non ti
agitare, stai calma, pensa al tuo cuore. Sei calma? Non fare come le donne
italiane che si mettono a strillare, che le sentono tutti nel vicinato.
Qualcuno mi a sparato alla schiena; di certo sarà stato un incidente di caccia;
comunque...stai calma, sono morto...ferma, non ti agitare, io sono qui vicino a
te, anche se non mi vedi, mi senti parlare, vedo i tuoi occhi che cominciano a
riversare lacrime a catinelle. Non uscire, telefona alla signora Michelina,
cerca qualcuno che ti stia vicina. »
Poi la vedo riattaccare e chiamare la signora
Michelina (nostra vicina di casa), dicendole se poteva venire, che a Italo gli
era successo qualcosa al campo.
Potendomi spostare senza problemi, mi diressi con
lei alla porta d’ingresso e quando apparve la signora Michelina, aprì la porta
e la signora Michelina vedendola in lacrime la abbracciò come se fosse una sua
figlia, chiedendole cosa era successo.
Insieme si dirigirono al campo dove stava il mio corpo.
Le mosche; quelle maledette, attratte dal sangue,
erano sul mio corpo, entravano e uscivano dal naso e dalla bocca.
Stavano sul foro di entrata del proiettile dove
ancora fuoriusciva il sangue.
Maria si gettò accanto a me, sollevandomi la testa e chiamandomi.
La signora Michelina disse che avrebbe chiamato la GNR (Guardia Nazionale
Repubblicana) e un’autombulanza.
Dopo una buona mezz’ora, il campo era invaso da
poliziotti, fotografi e giornalisti.
C’era pure il medico legale che mi esaminò,
costatando la mia morte.
Il proiettile colpendomi alle spalle, mi aveva trapassato il cuore.
Un tiro da vero professionista.
Il fotografo dalla polizia tirò varie foto: del
luogo e del probabile sitio da dove potevano aver sparato.
Si parlò di un cacciatore, di un incidente di caccia.
Non potendo fare altro, quelli dell’autombulanza
mi misero in un sacco di plastica; di quelli che usano per trasportare
cadaveri, mi adagiarono su una barella e mi portarono nell’autombulanza che
stava fuori dal cancello.
La notizia si era spagliata per il paese e c’era
tanta gente fuori ad assistere allo spettacolo e parlavano di: un pò di tutto.
Mia moglie seguendo i miei consigli, non mi seguì sull’autombulan-za ma,
rimase a casa in attesa di notizie.
Se avrebbe seguito il mio corpo, avrebbe lasciato
la casa incustodita e di certo, qualcuno ne avrebbe approfittato, se non fosse
che: l’occasione fa il ladro.
Come era da immaginare, dopo aver estratto il proiettile ed esaminatolo, la
colpa non fu di un cacciatore ma della Mafia.
Facendo il conto che un italiano non può venire ucciso, se non dalla Mafia.
In poche parole; ero un mafioso fuggito
dall’Italia per paura di una vendetta della Mafia e rifuggiato in Portogallo
dove, anche se dopo otto anni, ero stato raggiunto e ucciso.
Per la polizia portoghese era tutto chiaro, per loro il caso era chiuso.
Se si voleva trovare l’assassino, ci doveva pensare la polizia italiana.
Misero il mio corpo in una cassa frigorifera e mi spedirono in Italia.
Maria aveva chiamato il figlio Miguel, che era
venuto con tutta la famiglia per consolare Maria e parlare del mio passato,
facendole domande a cui lei non poteva rispondere, perché non sapeva niente.
Quando diedero la colpa alla Mafia, io le dissi
che non era vero, non avevo fatto farte della Mafia e se qualcuno avrebbe
voluto la mia morte, non era alla Mafia che la polizia doveva pensare, ma alla mia
ex moglie.
Mia moglie, questo lo aveva detto alla polizia ma, dato che la polizia ha
la testa quadrata, per loro il colpevole era solo la Mafia italiana.
Maria non si dava pace, anche perché, la mia
mancanza, gravava sulla sua situazione finanziaria.
Con la sua pensione non poteva vivere e tantomeno pagare i debiti.
La dovevo aiutare.
Come spirito, riuscivo a vedere quello che sarebbe
avvenuto nel futuro, come pure i numeri che sarebbero usciti dal gioco.
Le suggerii di giocare dei numeri.
Non volevo che vincesse tanti soldi da dare all’occhio, ma tanti da poter
vivere tranquilla senza problemi finanziari.
Maria sulle prime non mi volle credere, ma quando
il venerdì sera ci fu l’estrazione dei numeri dell’Euromilioni, uscirono i
numeri che le avevo detto, in anticipo, che sarebbero usciti.
Uscirono tutti e cinque più i due delle stelline.
Se avrebbe giocato, avrebbe vinto 26 milioni di euro.
La settimana seguente, giocò e vinse, non milioni ma, abbastanza da
liquidare i debiti e tenere un deposito in banca.
Le promisi, che le sarei stato vicino e l’avrei aiutata nel bisogno.
Non potevo perdere tempo, dovevo
trovare il mio assassino e consegnarlo alla giustizia.
Come spirito, non avevo bisogno di prendere
l’aereo per andare in Italia.
Pensando alla mia ex moglie, mi trasferii nella nostra ex casa.
La trovai insieme a suo figlio Mario e un altro
signore; di certo il compagno.
Stavano a tavola e mangiavano, bevevano, ridevano
e parlavano della mia morte.
La mia morte, aveva dato a Mario la possibilità di
accedere al 20% dell’eredità futura alla morte di mio padre.
Non era molto, ma meglio che niente.
Mi inserii nella loro mente e li costrinsi a parlare della mia morte.
Era stato Mario, aiutato da Massimo: l’amico di
sua madre ad andare in Portogallo a studiare il posto e l’ora adatta ad
esecutare la mia dipartita.
Ne parlarono, come se fosse stata una cosa semplice.
Erano andati in Portogallo loro insieme alla mia
ex moglie, in macchina, che avevano lasciato in Spagna, dove ne avevano
noleggiata un’altra che avevano lasciato in Portogallo e noleggiata un’altra.
Tutto questo per non farsi notare con una macchina
con la targa italiana.
Mario da più di un anno, praticava il policono di tiro e si era esercitato,
tanto, da riuscire a centrare il bersaglio da più di cento metri.
Avevo l’assassino e i suoi complici, dovevo
trovare il modo di farli prendere dalla polizia.
Il fucile era di Massimo.
Era tutto regolare, essendo un cacciatore a cui
piaceva la caccia grossa, aveva la possibilità di comprare le cartucce adatte a
qualsiasi tipo di caccia.
Il fucile era munito di cannochiale.
Con quello, Mario aveva potuto prendere bene la
mira e colpirmi in modo da uccidermi sul colpo.
Andai a trovare mio padre.
Stava a letto, non si sentiva bene.
Quando aveva saputo della mia morte, aveva dato la
colpa a mia moglie e dopo aver pianto a lungo si era messo a letto e non s’era
più alzato, se non per fare i suoi bisogni corporali.
Come dissi, stava a letto e dormiva.
Entrai nella sua mente e come se fosse in un sogno, gli parlai.
Gli raccontai di come erano andate le cose e gli chiesi di aiutarmi.
Come si svegliò, quello che gli avevo detto, gli
era rimasto impresso nella mente, telefonò ai miei fratelli dicendo loro di
volerli al più presto nella sua casa.
Come si sà, quando chiede qualcosa, non lo chiede,
per cortesia, ma, ordina.
Chi prima, chi dopo, tutti furono a casa sua.
Parlò loro del sogno, chiedendo consiglio.
Si discusse un pò, parlarono di quello che avevano riportato i giornali,
della Mafia.
Ma mio padre, da buon sardo (con la testa dura),
disse: « Ma che Mafia e Mafia, sono stati loro e devono pagare. »
Lui voleva la loro morte, per compensare, la mia.
Gli altri, rispondevano che, non ci si poteva fare
giustizia senza le prove.
L’unica cosa da fare era di chiedere l’intervento della polizia.
Polizia...una brutta bestia.
Se si dovesse apettare l’esito della polizia
sarebbero passati dei secoli.
Lui voleva fare da se.
Sofia disse che; tramite il marito di Anna, avrebbero parlato con un
poliziotto in gamba; almeno da come ne parlavano tutti.
Era un poliziotto che era riuscito a risolvere tanti casi insoliti, tanto
che, era molto richiesto.
Sofia avrebbe parlato con il marito di Anna che
conosceva bene questo poliziotto e gli avrebbe chiesto di venire qui (a casa di
mio padre).
Come spirito ero presente e seguii mia sorella Sofia a casa di Anna.
Quel giorno Romolo non lavorava ed era in casa.
Sofia gli parlò di quello che avevano concordato
con mio padre, chiedendo a Romolo di mettersi in contatto con il suo amico
poliziotto e fargli sapere che mio padre gli voleva parlare.
Romolo disse di sì, ma con la mente pensò: « Ma
chi me lo fa fare, di andare a scocciare Paolo, non tutto quello che ha da
fare...»
Sofia tornò a casa sua, da dove telefonò a mio
padre dicendogli che, aveva parlato con Romolo e che, quando si sarebbe messo
in contatto con Paolo, glielo avrebbe fatto sapere.
La notte Romolo non riuscì a dormire.
Ero nella sua mente e lo martellavo: « Domani devi
andare dal Com-missario Paolo Vinci, domani devi andare dal Commissario Paolo
Vinci » e così via, ripetendo sempre la stessa litania.
Si agitava nel letto, non lasciando dormire la moglie, che gli chiede-va: «
Che hai? »
« Niente, » rispondeva lui.
Ogni tanto si alzava, andava in cucina a bere dell’acqua.
Ma anche lì non lo lasciavo in pace.
Alla fine Romolo disse ad alta voce: « Va bene, ho
capito, domani vado dal Commissario Paolo Vinci, ma ora basta, lasciami dormire.»
Aveva svegliato tutti.
Il figlio Valerio si era messo a piangere e Anna lo rimproverava:
« Se non riesci a dormire, che hai da strillare, avrai svegliato tutto il
palazzo ».
« Scusami », gli rispose Romolo. « È passato, torna a dormire. »
Si rimise a letto e lo lasciai dormire.
La mattina dopo, invece di andare dal Commissario, andò al lavoro.
« E bravo, così non hai mantenuto la promessa di andare da Paolo, ora só
cavoli tuoi. »
Come lo chiamò il suo capo, agendo sui meccanismi del suo cervello, gli
feci alzare la mano, facendo le corna.
Ettore, il suo capo, vedendo che invece di andare
da lui, gli aveva fatto le corna, s’infuriò e andandogli vicino, lo prese per
la collottola e lo strapazzò per bene.
Romolo nonostante la strapazzata, gli disse in faccia: « Ma và affanculo. »
Sbam! Uno sganascione, che fece volare di almeno
due metri il povero Romolo.
« E ora và via e non rompere più i coglioni, stronzo. »
Romolo cercava di giustificarsi dicendo che non
era stato lui a dire quella frase, ma tutti lo avevano sentito.
Dovette abbandonare l’ufficio e tornare a casa.
Prendendo la macchina, stava facendo lo stesso
percorso che aveva fatto per andare al lavoro.
Così non sarebbe andato dal Commissario.
Sempre agendo sui comandi del cervello, gli feci
fare tante manovre sbagliate
che, con l’auto fece un sacco di danni e quasi
investì varie persone, quando salì sul marciapiede e come se fosse in strada lo
percorse tutto, tra lo spavento delle persone.
Fu fermato da un poliziotto, che lo minacciò con la pistola.
Alle domande del poliziotto, Romolo ripeteva sempre: « Devo andare dal Commissario
Paolo Vinci. »
« Ah! Vuoi andare dal Commissario Paolo Vinci, ti
ci porto io, » e lo ammanettò, facendolo salire sulla sua macchina.
Pochi minuti dopo, era presente davanti al Commissario
Paolo Vinci.
Il Commissario dopo aver sentito le accusazioni del poliziotto, volle
sentire il suo amico Romolo.
Romolo, sotto la mia guida, raccontò quello che gli aveva detto mia sorella
Sofia e di quello che aveva passato durante la notte e la mattina al lavoro.
Disse, era come se una cosa gli fosse entrata nel cervello e gli faceva
fare quello che, non avrebbe mai fatto.
Paolo non credeva a quelle cose e lo rimandò a casa a riposare.
Ora che stavo al Commissariato di Polizia, non
avevo bisogno di Romolo.
Agendo sul suo cervello, mandai a prendere la mia pratica.
L’aprì e lesse quello che c’era scritto e, cioè,
un povero diavolo era stato ucciso da un Killer della Mafia per sbaglio, dalle
indagini fatte non era uscito nulla che mi legasse al mondo della malavita.
Il caso era stato archiviato.
Ma quello che gli aveva raccontato Romolo, era un’altra cosa.
Disse, che era stato il figlio Mario con la complicità della madre e del
compagno di lei.
Romolo diceva, che avrebbe dovuto andare a parlare
con il padre dell’ucciso.
Ma aveva tante cose più importanti da fare.
Dovevo costringerlo a fare quello che volevo io, e
non quello che voleva lui.
Per tutto il giorno lo tormentai, facendogli dire
nò, quando doveva dire sì. E sì, quando avrebbe dovuto dire nò.
Anche quando lasciò il lavoro, non lo lasciai in pace.
Quella sera doveva andare insieme alla moglie ad un ricevimento.
Durante il ricevimento, si comportò in una maniera
insolita al suo modo di fare; come: versare il bicchiere nella scollatura delle
donne o palpargli il sedere.
Alla fine, tra la costernazione della moglie, fu
costretto ad abbandonare il ricevimento.
Una volta tornato a casa, la moglie gli chiese,
cosa gli era accaduto per comportarsi in quella maniera.
Senza il mio disturbo, si versò un bicchiere di
Cognac con del ghiaccio e si abbandonò in una poltrona.
Cominciò a raccontare quello che gli aveva detto Romolo.
La moglie Elvira era Psicanalista e si occupava
anche di Spiritismo, disse: « Sò che stai qui, fatti conoscere. »
Come spirito, non mi poteva vedere, mi poteva solo sentire.
« Mi chiamo, Gino Pino e sono stato ucciso in
Portogallo, il 25 maggio 2002 ecc.ecc. Ho saputo che vostro marito è un
poliziotto in gamba e che ha risolto molti casi che erano stati archiviati per
mancanza di prove, seguendo la pista lasciata dai tre, dovrebbe raccogliere
quelle prove che mancano e arrestare i colpevoli e darmi la pace. »
Il Commissario chiese un mese per seguire la pista
lasciata dai tre; trascorso questo tempo, mandò ad arrestare: Mario, la mia ex
moglie e Massimo l’amico.
Sulle prime, senza il mio stimolo, si rifiutarono
di parlare, anche dopo che il
Commissario disse loro che aveva le prove del loro
crimine.
Non potendo ottenere una confessione spontanea,
chiesi al Commissario di chiamare dei giornalisti, i quali stando in un’altra
stanza, attraverso il vetro potevano vedere e da un altoparlante ascoltare
quello che i tre (separatamente) avrebbero detto.
Così fu; per di più, la mia ex moglie raccontò sul mio conto, cose inimmaginabili e
il tutto tra una risata di scherno e l’altra.
Con quella confessione, nemmeno il migliore
avvocato di Roma, li poteva salvare.
Furono condannati: Mario a venticinque anni, la mia ex moglie a ventidue
anni e a Massi-mo a venti anni di prigione.
Dato che, per legge, la mia parte dell’eredità,
alla morte di mio padre, non poteva andare per intera a mia moglie, ma solo, la
quinta parte, il giudice ordinò il sequestro dei beni dei tre e il ricavato
della vendita all’asta, fu dato a mia moglie, come risarcimento dei danni
subiti per la mia morte.
A questo punto, soddisfatto di come erano andate
le cose, lasciai che il mio spirito seguisse la strada segnata dal Signore.
E poi, mi sono svegliato...vivo.
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