quarta-feira, 17 de novembro de 2010

Sogno n.9 La lettera del notaio anno 2006

Una mattina nella cassetta della posta trovai una lettera indirizzata a me.
La guardai un pó; non era la solita lettera di vendita per corrispondenza.
La busta era bianca, il mio nome, scritto a macchina e in alto a sinistra, il mittente: Studio Legale Ferrarin, Avenida da Liberdade 123 – Lisboa.
La mostrai a mia moglie Maria.
Che voleva lo Studio Legale Ferrarin, da me?
Per saperlo bastava aprire la busta e vedere cosa voleva da me lo Studio Legale Ferrarin.
La lettera non diceva nulla di particolare, salvo un’invito a presentarmi al più presto possibile nello Studio Legale sopra indicato, per una comunicazione che mi riguar-
dava.
Le domande nella testa erano tante, le risposte..........era solo, andare a Lisbona.
Ci andammo il giorno seguente.
Il Notaio Luis Ferrarin era un signore di giovane età, come mi presentai, volle che
gli morstrassi un documento d’identità; assicurandosi della mia identità.
Volli sapere cosa voleva da me (se voleva soldi, cascava male).
Mi disse che, per trovarmi, la ricerca era stata lunga; volle sapere se conoscevo un
certo Italo Di Nardo.
Dissi: « Dal cognome dovrebbe essere un mio parente da parte di mia madre; però,
non mi pare di conoscerlo ».
Disse viveva in America e che morendo, mi aveva lasciato una eredità.
A sentire la parola “ Eredità “, mi ricordò di un certo film che avevo visto in Italia
e se non erro, si intitolava “ I magliari “ o qualcosa del genere.
Presi da parte mia moglie e gli dissi del film e delle truffe che facevano, con delle
eredità fasulle.
Tornai dal notaio e chiesi, cosa dovevo fare per accedere all’eredità.
Mi disse, di firmare il foglio che mi presentava, per l’accettazione dell’eredità e
 pagare 5.000 Euro per le spese.
Rivolgendomi a Maria le dissi: « Che t’avevo detto? ».
E al notaio: « Chi mi assicura, che non è una fregatura? ».
Il notaio fece l’offeso, disse: « Per chi mi prendete? ».
Proprio come nel film.
Disse « Se volete accedere all’eredità, dovete firmare e pagare, se nò, firmate di rinunciare all’eredità ».
Che dovevo fare?
E se fosse vero?
Sinceramente, perdere 5.000 Euro non mi andava; ma non mi andava neanche
perdere l’erdità.
E poi a chissà quanto ammontava.
E se era un’eredità di solo debiti?
Dissi non avere i soldi che mi chiedeva e nessuno a cui chiederli; alla banca, nean-
che a pensarci, già li avevo chiesti e per dieci anni, dovevo solo pagare.
Il notaio vedendomi angosciato, mi venne incontro facendomi una proposta.
Al momento non avrei pagato niente, avrei firmato “ un pagherò “ e se l’eredità fos-
se superiore a 5.000 Euro, avrei pagato 10.000 Euro; se fosse inferiore, avrei pagato solo il 10%.
Concluso l’accordo, firmai l’accettazione dell’eredità e il notaio mi consegnò una bu-
sta che veniva dall’Ambasciata d’Italia in New York.
Nell’interno c’era la copia del testamento redatto dal signor Italo Di Nardo.
Italo Di Nardo lasciava tutti i suoi beni a tutti i nipoti che si chiamavano Italo.
Per avere la mia parte, dovevo andare in America presso lo Studio Notarile....... di
New York ....................................... non più tardi del ......................................
Con i soldi che avevamo, decidemmo che in America, ci andassi da solo.
Mi restavano solo dieci giorni alla scadenza del termine fissato; mi dovevo dare da
fare, non potevo perdere tempo.
Dovevo chiedere il Visto d’entrata, comprare il biglietto di viaggio.
Conseguii il tutto in sette giorni.
Meno male che c’erano gli aerei; se ci dovevo andare con la nave.........te saluto
eredità.
Andò tutto bene, con il mio cattivo inglese mischiato con lo spagnolo, il portoghese
e italiano, riuscii a farmi capire.
In America scoprii che allo studio notarile, alla lettura del testamento eravamo in die-
ci a chiamarci Italo; così l’eredità fu divisa per dieci.
Lo zio d’America era immensamento ricco, più di un marajà.
La mia parte fu di 18.748.230.421.684.870 dollari; una somma che mi diete il giramen-
to di testa.
Era tutta mia, perché era al saldo di tutte le spese.
Non potendola portare in Portogallo, aprii un conto presso: la Banca d’America e del Portogallo.
Portai con me solo mille dollari per le mie piccole spese.
Tornando a casa lasciai indovinare a Maria, di quanto ammontava l’eredità.
Cominciò con mille dollari.
« Le prime due cifre cominciano per 18 ».
Lei disse: « 18.000 dollari ».
« Di più, di più ».
Più di 18.000.000 di dollari non poteva crederci.
Le mostrai il libretto di deposito e lei non riuscì a leggere l’intera somma.
E mò! Che ci faccio con tutti quei soldi?
Pensa, che te ripensa; mi venne un’idea: Avrei creato “ Il mio impero “.
Ho sempre desiderato aiutare i lavoratori delle imprese fallite.
Le avrei ricomprate e riassunti alle mie dipendenze.
Ma per prima cosa mi occorreva una Sede e precisamente un palazzo.
Cercai una Agenzia Immobiliaria, la più grande e la più costosa; dove feci sapere
quello che mi serviva.
Poi, per gestire l’Impero avevo bisogno di Avvocati, Consulenti Finanziari e una
o più di una, impresa di pubblicità.
Con i soldi si ottiene tutto o quasi.
Comunque data la fretta di cominciare e non badando a spese, in un mese, avevo
il mio palazzone; nuovo di zecca.
L’ultimo piano era destnato alla Presidenza e salone riunioni.
Essendo molto pignolo su certe cose, assunsi tutta gente referenziata; le cui referen-
ze, facevo controllare dai miei investigatori.
Quando tutti gli uffici erano al completo; diedi il via ai Ricercatori di Fabbriche in fallimento e dei prodotti commerciali.
Così riaprii le fabbriche di cemento e derivati, di mattoni e derivati, tessili e lavora-
zione di pellami.
Dove non c’erano, le creavo.
Con i soldi che avevo, e come in Italia, ungendo gli ingranaggi certi, comprai nel-l’Alentejo un territorio agricolo, dove mandai a costruire una piccola città che chia-
mai Roma.
La feci costruire con tutto quello che producevano le mie fabbriche, dando lavoro
a tanta gente: portoghese o straniera, purché avesse voglia di lavorare.
Feci costruire case che vendetti a un prezzo accessibile a tutti, scuole, case di cure
e case di riposo per anziani; tutto senza l’aiuto dello Stato, che facevo usare gradui-tamente a tutti i redidenti.
C’era un’ospedale e il personale era tutto pagato da me e le cure venivano pagate a seconda del reddito di ognuno.
C’erano, fabbriche alimentari e non; il cui nome era: Bianchi o Ital Portugal se era
in Portogallo. Ital Spagna o Ital di altri Stati europei.
Una catena di Centri Commerciali dove: gli affitti erano bassi e si vendevano tra l’al-
tro, i miei prodotti a prezzi competitivi (meno di quelli spagnoli o cinesi).
Gli impiegati o lavoratori salariati, avevano dei contratti annuali, che venivano rinnova-
ti secondo la loro produttività.
A gestire tutto questo, c’erano i miei amici o conoscenti, di cui mi potevo fidare come me stesso, come Direttori Generali.
Sapendo di non poter vivere in eterno; ai dipendenti delle varie fabbriche, avevo fatto
un accordo scritto: alla mia morte, gli stessi diventavano proprietari del loro posto di lavoro, così scaricavo il mio futuro sulle loro spalle.
Sinceramente, la Lettera del Notaio mi aveva dato la possibilità di aiutare tanta gente disoccupata che grazie a me, tornava a produrre e stare meglio di come stavano prima.
Se da una parte ero felice, dall’altra non avevo tregua; avevo alle spalle tante persone,
le quali dipendevano da me e dai miei soldi.
Pensandoci bene, stavo più tranquillo prima di ricevere, la lettera del notaio.
Meno male che...era solo un sogno.

Sogno n.8 Il paese Storico anno 2006

Ce ne andavamo in giro, io e mia moglie, alla ricerca di “chiese e cappelle, quando incontrammo un Paese; era un paese un pò strano, era costruito con le pietre che avevano appartenuto ad un’epoca passata.
Incontrammo: nelle case, la chiesa e in varie cappelle fatte con, reperti appartenenti all’era romana, visigotica e araba.
Sembrava come se: i romani avevano distrutto quello che avevano trovato; per poi ricostruire alla loro maniera; così poi avevano fatto i visigoti, gli arabi e i portoghesi.
Ne rimanemmo impressionati.
Se prima pensavamo di tirare un pò di foto, pranzare e ripartire verso casa; decidem-
mo di restare un altro giorno.
Non trovando né alberghi, né pensioni, domandammo dove potevamo dormire quella notte; ci dissero di rivolgerci al Presidente del Centro per Anziani.
Ci recammo, fummo accolti calorosamente e ci venne offerta una stanza, per tutto il tempo che saremmo restati e per di più non volle che pagassimo l’alloggio.
Il giorno seguente era Sabato e in programma c’era una festa con musica e danza fol-cloristica.
La festa in onore di una Madonna terminava la domenica sera con i fuochi di artificio.
Decidemmo di restare per la festa.
Era tutto pronto: era stato montato il palco per lo spettacolo.
Solo che.....il mattino seguente cominciò a piovere, passò la giornata e non arrivò nessuno per lo spettacolo; fu una delusione generale.
Noi non potendo girare, restammo nel Centro a fare compagnia ai vecchietti.
La domenica ci secammo in chiesa per assistere alla Messa.
Nonostante che nell’aria c’era un non sò che di strano (come se, riuniti per la funzio-
ne, non c’era solo il popolo del Paese, ma gli spiriti di quelli che erano preceduti).
I fedeli stavano raccolti, alcune donne pregavano silenziosamente.
Nella chiesa c’era un vecchio organo; ma non c’era nessuno a suonarlo.
Non si sà come?
Maria si sedette nello sgabello, guardò gli spartiti e poi cominciò a toccare.
Era una musica dedicata alla Madonna.
Poi cominciò a cantare, la seguii; poco dopo anche i fedeli cominciarono a cantare.
Nel finale della Messa, cantai l’Ave Maria di Schubert con la voce di baritono.
A pranzo nel Centro, il Presidente si congradulò con noi e ci chiese, se potevamo rallegrare la festa con i nostri canti, dato che non erano venuti gli invitati per lo spettacolo, disse, ci avrebbe pagato per il disturbo.
Dicemmo che, lo avremmo fatto volentieri per contracambiare l’ospitalità.
Verso le ore 16.00, sul palco era stato portato l’organo della chiesa e c’erano altre
persone con strumenti vari.
Con gli spartiti che trovammo, poco dopo: si suonò, si cantò; alcune donne e qualche uomo anziano cantò canzoni popolari e si esibirono in danze locali.
Cantai molte canzoni italiane melodiche e operistiche.
Fu un successo, anche perché nel pomeriggio aveva smesso di piovere e s’era radunata molta gente.
Dopo cena, sul finire della festa, ci furono anche i fuochi pirotecnici.
Il giorno seguente essendo bel tempo, andammo in giro per completare le foto da tirare e dove passavamo, la gente si congradulava con noi offrendoci da bere.
Nel nostro giro, passammo d’avanti ad un negozio di antiquariato e nella vetrina, vidi una ocarina; dicendo a Maria di aspettarmi, entrai nel negozio e chiesi al padrone di mostrarmi quell’ocarina.
Dopo averla pulita dalla polvere, la portai alla bocca e.............miracolo, ne uscì una melodia.
Non l’avevo mai suonata, mi bastava soffiare e lei suonava cose che non conoscevo, suonava da sola.
Chiesi il prezzo della ocarina, il padrone non volle nulla, disse di sentirsi pago con quello che avevo suonato.
Uscendo dal negozio Maria mi domandò chi suonò quella bella musica, gli mostrai l’ocarina dicendogli quello che avevo fatto.
Non volle credermi.
Gli dissi di provare a soffiarci dentro, lei lo fece e subito ne uscì una musica.
La guardò, la riguardò poi ridandomela disse: « È stregata ».
Dissi: « È come se immagazzinò tutte le musiche che il suo antico proprietario aveva suonato, poi per qualche motivo a noi sconosciuto, andò a finire in quel negozio, per chissà quanto tempo; in attesa di un nuovo proprietario. Ecco perché, come provai a suonarla, ne uscì quello che tu sentisti ».
Continuammo il nostro giro fotografico; Maria faceva le foto, io soffiando l’ocarina.
Poco dopo Maria mi disse di girarmi; dietro di noi, c’era uno stuolo di ragazzini, tutti presi dalla musica dell’ocarina.
Smisi di suonare e riposi l’ocarina in tasca.
Nel pomeriggio mi capitò un’altra cosa strana.
Ero da solo a passeggiare, quando vidi tre persone; due stavano toccando le chitarre, l’altro aveva un banjo e non lo suonava.
Avvicinandomi al terzetto, chiesi se potevo vedere quel banjo; come lo presi in mano e lo presi a pizzicare, sentii qualcosa di strano.
Le mie mani si cominciarono a muoversi da sole.
Gli altri due facevano fatica a seguirmi con le chitarre.
Cominciammo con blues, poi si unì un’altro con un trombone e poco dopo un altro con un sassòfono e ci mettemmo a suonare del jazz.
Come un segnale; s’era radunata quasi tutta la gente del paese e tra loro, c’era pure mia moglie.                                                                                                            
Maria mi guardava, la guardai facendogli capire; era successo la stessa cosa della tromba e dell’ocarina.
Avremmo suonato tutta la notte e chissà quando avremmo smesso.
Ma poi la musica ci volle dare una pausa e poco dopo tutto finì in tanti applausi a non finire.
Una mattina mentre mi facevo la barba, sentii ad una radio una musica operistica, seguendo la musica, mi misi a cantare; era “ Una furtiva lacrima “ di.....................non mi ero accorto di avere la finestra aperta e come finìi, sentii qualcuno applaudire, mi affacciai e una signora mi chiamò: « Maestro ».
Spiegai che non ero né Maestro, né cantante; se cantavo, lo facevo senza volerlo, così come capitava.
Lei non volle credermi e quando uscii a fare due passi, tutti mi chiamavano Maestro.
Se mi stavano prendendo in giro, non ci feci caso.
Era passata una settimana da quando eravamo arrivati a quel paese era ora di tornare a casa, a Vale de Figueira, così cominciammo a preparare i nostri bagagli.
Stavo caricando la valigia in macchina, quando, si avvicinarono varie persone tra cui il Presidente del Centro e il Sindaco di quello strano paese.
Ci domandarono del perché andavamo via; rispondemmo che, la nostra casa non era là ma un pò lontano da lì.
Il  Sindaco ci fece una proposta.
Ci offriva una casa con tanto di campo.
Rifiutammo, ci chiese, di vederla prima di rifiutare l’offerta.
La casa aveva un primo piano, era vuota, senza mobilia, in pietra e, come entrammo, fummo presi dalla casa, tanto che, anche se volevamo uscire, non ne eravamo capaci, la casa voleva che noi restassimo come nuovi abitanti.
Ci guardammo e..............non fummo noi a decidere.
Fu il Paese a decidere per noi; rispondemmo contemporaneamente: « Accettiamo ».
Poi mi svegliai.






Sogno n.7 La casa nel campo

Mentre facevamo un giro con la macchina verso il Nord, di notte, fummo sorpresi
da un temporale.
Pioveva a dirotto, tanto che i tergicristalli non conseguivano a togliere l’acqua e la visibilità era molto ridotta.
Volevamo fermarci ma, dove ci trovevamo, pareva di stare il un fiume, tanta era l’ac-qua che correva.
Dovevamo trovare un luogo abitato e possibilmente in un altipiano.
Ad un tratto, sulla mia destra vidi una strada leggermente in salita.
Lasciammo la strada Nazionale e ci immettemmo sull’altra.
Andammo, andammo; fino a che la salita finì e dove ci trovevamo, vedemmo una casa.
Era una casa isolata; comunque era sembre una casa.
Ci avvicinammo alla porta d’ingresso e, lasciata mia moglie in macchina, andai a bus-sare alla porta.
Nessuno rispose.
Da sotto la porta si vedeva un chiarore; segno, che era abitata.
Voltai a bussare con più forza e..........la porta si aprì.
La porta si aprì, ma nessuno l’aprì.
Data l’acqua che veniva giù a catinelle, feci cenno a Maria di scendere dalla macchina ed entrare in casa.
Avremmo aspettato, al riparo l’arrivo dei padroni di casa.
Dentro casa c’era un bel camino acceso, dal quale emanava un bel calore, in mezzo
alla stanza, c’era una tavola apparecchiata (semplicemente) per due; perciò supponem-mo che nella casa vivevano due persone.
Nel mezzo della tavola c’era un pentolino da cui usciva un odorino stuzzichevole.
Facendo il maleducato, sollevai il coperchio vidi una zuppa di non sò cosa ma, che sembrava dirmi.........mangiami, mangiami.
Aspettammo ancora un pò l’arrivo dei padroni.
Non arrivò nessuno e decidemmo di mangiare un pó di zuppa.
Mangiammo con un pó di timore per la reazione dei padroni di casa.
Finito di mangiare, decidemmo di ripartire.
Aveva smesso di piovere e il cielo si era schiarito.
Lasciai 10 Euro sulla tavola e risalimmo in macchina.
Girai la chiave di accenzione ma, il motore faceva: vuu, vuu, vuu, ma non si metteva
in moto.
Prova che te riprova, finì che il motore si ingolfò.
E mó!
Faceva un pó freddo e non avevamo niente per coprirci.
L’unica cosa era tornare nella casa.
Rientrammo; la tavola era stata sparecchiata, c’era una tovaglia e nel mezzo...... i miei 10 Euro.
Quando eravamo risaliti in macchina erano tornati i padroni.
Ma dove erano?
Chiamammo, chiamammo; nessuno rispose.
Girammo per la casa, non trovammo nessuno.
Ma dove erano?
In quella casa c’erano due camere.
Aprendone una, vidi un letto matrimoniale; aprendo l'altra, vidi la stessa cosa.
Mbé! Se ne occupavamo una, non avremmo disturbato.
Ci mettemmo al letto e poco dopo ci addormentammo.
Il mattino seguente, c’era un bel sole (si intravedeva dalle persiane).
Ci alzammo, lavammo e ci dirigemmo verso la cucina.
In quella casa, c’era: la cucina, due camere e il bagno.
Nella tavola c’erano due tazze di latte e caffè con del pane appena tostato e una ciot-tola con della marmellata.
Era stata preparata per noi, ma da chi? Se non c’era nessuno.
Maria disse, chi i padroni dovevano essersi alzati prima di noi e dopo averci prepara-
to la colazione, erano andati a lavorare.
Mangiammo di gusto, finito, sparecchiammo, poi Maria lavò le tazze e prima di usci-
re, lasciai 20 Euro.
Usciti fuori……la macchina non c’era.
Eppure ci doveva essere; erro sicuro di averla lasciata d’avanti alla soglia della casa.
Dove era andata a finire?
Maria disse: « Sicuramente l’avrà spostata il padrone di casa e messa al riparo, sotto una tettoia ».
Facemmo il giro della casa, ma……………
Non c’era né tettoia, né la macchina.
Ce l’avevano rubata.
Tornati d’avanti alla casa, feci una scoperta.
Non c’era la strada.
Eppure ci doveva esserci.
Mi ricordavo, anche se era buio, di aver seguito una strada; anche se non era asfaltata, era sempre una strada.
E ora dov’era?
Si vedeva solo l’erba.
Erba a perdita d’occhio.
Ci incamminammo e allontanandoci di almeno 200 metri, pressappoco; tenendo di vi-sta la casa, facemmo un giro.
Non si vedeva altro che erba,…..erba a non finire.
Ma dove eravamo capitati?
Poi mi svegliai. 

Sogno n.6 E.......il tempo passò anno 2006

Tornavo da Roma dove ero stato a far visita a mio padre.
Ci ero andato da solo, perché Maria aveva una mostra e non mi accompagnò.
Come dissi prima, tornavo da Roma.
A Fiumicino salii sull’aereo nell’orario previsto e mi sedetti accanto ad una ragazza.
Non era né italiana, né spagnola, né portoghese o brasiliana (l’avrei capita),
parlava con altre due (forse amiche) in una lingua che non capivo (per me, era arabo); non sapevo se era arabo, ma in Italia, tutto quello che non si capisce, è arabo.
L’aereo partì in orario ed in orario arrivò a Lisbona.
Solo che..............avevamo un ritardo di cinque anni.
Come era possibile?
Quando ci fù annunciato, nessuno ci volle credere.
L’aereo una volta atterrato, fu guidato verso un hangar e una volta scesi, fummo sottoposti a delle visite, ci fecero un sacco di domande, che nessuno poteva rispondere.
Per noi era tutto passato nello stesso tempo di tanti altri viaggi.
Avevamo mangiato, avevamo guardato la televisione, parlato (almeno gli altri), letto i giornali (italiani e stranieri).
Insomma per noi era passato tutto normale.
Solo che di anormale, c’erano di mezzo cinque anni.
Che ci era successo?
Venimmo a sapere che; molte donne avevano partorito, come la ragazza che era vicino a me e le altre due (amiche).
Dove?
E i figli dov’erano?
Ci fu una confusione a non finire.
C’era chi piangeva, chi ci scherzava sopra,e chi era preoccupato degli affari persi.
Pensavo a mia moglie, chissà come stava.
Cinque anni.
Era da non crederci; eppure erano passati cinque anni.
Come passa veloce il tempo fuori dagli aerei
In quei cinque anni mi erano successe varie cose:
La tessera multibanco era scaduta (così con potevo prelevare);
la Carta d’Identità italiana era scaduta;
Tornato a casa, mia moglie mi aveva sostituito con un ucraniano; la pensione era
stata sospesa; mio padre era morto e la parte mia dell’eredità era stata divisa tra
i miei figli.
Per fortuna, a mia moglie, dopo la mia presunta morte, mio padre le aveva deposi-
tato, sul suo conto, 50.000 €.
Mia moglie, si trovava bene con l’ucraniano e non lo avrebbe lasciato per me; così
in quella che una volta era la mia casa, ero un ospite un pò scomodo.
Non è che m’importava molto, quello che avevo sempre voluto, era, la felicità di
mia moglie.
Solo che, per vivere, avevo bisogno della mia pensione.
Andai a Lisbona, all’Ambasciata italiana per dimostrare che non ero morto nel (disa-stro aereo, come ne avevano parlato i giornali e la televisione), ma ero vivo, anzi vivissimo.
L’impiegata dell’ufficio Consolare non era Simonetta ma, una nuova che non mi conosceva e anche se dimostravo con il documento, la mia identità, disse che, per la Legge ero morto e se rivolevo la pensione, dovevo andare a Roma e farmi riconoscere.
Bel pasticcio mi avevano messo quei misteriosi cinque anni.
Tornai a casa e chiesi 1.000 Euro per andare in Italia; Maria disse che mi avrebbe dato quello che restava dei 50.000 Euro datogli da mio padre.
Dissi che a me sarebbero bastati solo 1.000 euro; a Roma sarei stato, a casa: di mio fratello o da mia sorella Lidia.
Andammo a Santarém alla banca dove prelevò 1.000 Euro e me li diede.
Il giorno seguente andai alla stazione e presi il treno per Lisbona e da lì per l’aereoporto.
Mentre stavo facendo la fila al bancone dell’Alitalia, mi si avvicinò uno sconosciuto che, in perfetto italiano mi disse: «Vorresti sapere cosa successe durante i cinque anni?»
Risposi che, anche se lo avessi saputo, non sarebbe cambiato nulla.
Il tempo..............non torna indietro.
Poi mi svegliai.  

Sogno n.5 Il volo sull'aquila

Stavammo tornando da Roma con l’aereo quando, un passeggero ponendosi in mezzo al corridoio dell’aereo disse; quello era un dirottamento e con una scatola in mano disse che in quella scatola c’era del esplosivo e se non si eseguivano i suoi ordini, l’avrebbe fatta esplodere e saremmo morti tutti.
Come già era accaduto in America l’undici settembre del 2001, pensai, poteva accadere di nuovo; ci avrebbero fatti andare a sbattere in chissà quale edificio.
Dissi tra me e me: « Non mi è mai piaciuto morire come una pecora. Morto per morto, avrei lottato ».
In un attimo di disattenzione del dirottatore, lasciai il mio posto accanto a mia moglie e saltai addosso a quell’uomo cercando di togliergli la scatola dalle mani.
Lottando, lottando, non sò come; finimmo fuori dall’aereo.
Probabilmente, o noi, o il pilota, avremmo aperto lo sportello.
Precipitammo nel vuoto.
Separatamente per fortuna.
Lui più veloce di me, perché doveva essere più pesante.
Anche se con meno velocità, lo seguivo.
Ad un dato punto, caddi su qualcosa.
Mi sembrava strano, essere già arrivato sulla terra o nel mare.
Non si vedeva niente.
C’era molto vento, così mi aggrappai a qualcosa.
Quella cosa era morbida, sembrava fatta di piume.
Cos’era?
Mi strinsi più forte che potevo per non farmi portare via dal vento.
Dopo non sò quanto tempo, quella che credevo nebbia, si dissolse e vidi............ non stavo in terra, bensì sopra una grande aquila.
Che ci facevo sopra l’aquila?
Probabilmente, mentre precipitavo dall’aereo, passava quell’aquila e c’ero finito sopra.
E mò! Come sarei finito?
L’aquila mi avrebbe portato nel suo nido e divorato in compagnia dei suoi aquilotti.
Invece, l’aquila arrivata a breve distanza dalla terra, fece un’impennata e mi scaricò
dalle sue spalle.
Non potei neanche ringraziarla del passaggio perché era volata via per... e fatti suoi.
Mi trovavo su un terreno erboso, dall’aria fredda che sentivo, doveva essere, di montagna.
Mi guardai intorno per fare un punto di riferimento di dove mi trovavo.          
Non ne vedevo nessuno.
Facendo il calcolo del tempo trascorso; da quando eravamo partiti a quello che era successo, mi dovevo trovare in Spagna.
In che parte della Spagna?
L’unica cosa era, cominciare a camminare, fino ad incontrare: una strada, delle case
o qualcuno a cui domandare.
Cammina, che te cammina, non mi ricordo quanto camminai.
Dovevo essere caduto in una Sierra.
Quale Sierra?
In Spagna, mi ricordo di due Sierre. Sierra Nevada e Sierra Morena, ma poi, se ce n’erano altre? Vallo a sapere; in ogni caso, mi trovavo in montagna.
Seguivo un sentiero boscoso, scendevo e salivo; salivo e scendevo........pareva non finire mai.
Invece finì.
Mi trovavo ancora in montagna, in una certa altura, sotto di me, vedevo una di certo, una città.
Vedevo molte case.
Continuai a camminare, scendendo dal luogo dove mi trovavo.
Trovai la strada.
Dal movimento delle macchine, doveva essere, una strada importante.
Per andare in Portogallo, dovevo andare verso destra o verso sinistra?
In ogni caso, mi conveniva, prima arrivare alla città che avevo visto dall’alto.
Arrivato, avrei visto, di quale città si trattava (magari, fosse Madrid), poi cercare un aiuto per tornare a casa, mi sarebbe bastato, un telefono per chiamare Maria e dirle
che, ero vivo, dove mi trovavo e che presto ci saremmo rivisti.
Arrivato nei pressi, vidi un cartello con un nome a grandi lettere, di certo era il nome della città; solo che, non conoscevo quel nome.
Pensavo a Madrid, Toledo, Granada, Siviglia, Burgos eccetera eccetera, a tutti i nomi che conoscevo e che mi avrebbero fatto capire dove mi trovavo; invece...niente, quel nome non mi diceva nulla.
Bbbo!
Entrai nell’abitato, fino a vedere un negozio.
Era un bar, entrai, mi avvicinai al bancone, chiesi all’impiegato in quale parte della Spagna mi trovavo?
Mi guardò strano, poi disse qualcosa che non capii.
Ma che razza di lingua spagnola stava parlando?
Bbbo!
Era meglio cercare una guardia.
Il più delle volte, sono ignoranti, ma, puoi sempre trovare uno più intelligente.
Quando cerchi una guardia, cascasse il mondo, non la trovi.
Che dovevo fare?
Tra l’altro cominciavo ad avere fame.
Come vidi un ristorante (non stava scritto Ristorante) ma, dai tavoli apparecchiati, doveva essere un ristorante.
Entrai, mi sedetti, poi come venne il cameriere con la lista, indicai: questo e quello.
Mangiai e bevei.
Alla fine chiesi il conto.
Anche se non mi capirono, mi presentarono un foglio con una cifra.
Feci l’atto di mettere la mano nella tasca della giacca, ma...non avevo la giacca.
La giacca, dove era finita?
Guardai sulla sedia, niente, la giacca non c’era.
Dove era finita?
Ad un certo punto, mi ricordai dell’aereo.
Sicuramente me l’ero levata quando stavo seduto accanto a mia moglie.
E mò!
Come facevo per pagare?
Finiva: o mi davano un sacco di botte, o mi mettevano a lavare i piatti, oppure, chiamavano una guardia.
Per fortuna, chiamarono una guardia.
La guardia non era intelligente.
Parlava, parlava una lingua che non comprendevo; lui non capiva, quando dicevo
di essere italiano.
Alla fine, mi prese per un braccio e mi portò (in malo modo) al posto di polizia.
Se speravo di trovare un’Agente, magari un Superiore che parlava più di una lingua
oltre la sua, mi sbagliai.
Di certo mi facevano domande, ma con la loro lingua che non capivo, potevamo an-dare avanti, in eterno; non capivo quello che dicevano, loro non capivano quello che dicevo, dove saremmo arrivati?
Domandai: « Parlez-vous français? Sprechen Sie deutsch? Speak english? Portugue-ses? ». Niente, ma che razza di lingua stavano parlando.
Non riuscendo a capirci, per quella notte rimasi loro ospite: in una cella.
Almeno non la dividevo con nessuno, e poi senza soldi, dove potevo dormire?
La mattina seguente, mi offrirono la colazione (anche i detenuti mangiano), poi ripre-sero l’interrogatorio.
Loro parlavano, non capivo una parola; parlavo io e loro non capivano.
Chiedevo una mappa: era come parlare al vento.
Ad un dato punto, presi una penna e scrissi: « Io (e col dito mi indicai) italiano,
casa (feci il disegno di una casa) Portogallo.
La guardia che stava dietro la scrivania (di certo un Superiore), prese il foglio e mostrandolo agli altri, cominciò a parlare tanto in fretta, che a stento riuscivo a capire
la parola Portogallo.
Quello che comandava mi accompagnò alla porta e, indicando un punto sulla mia de-stra disse: «Portogallo (di certo lo disse in un modo strano), comunque, mi stava ad indicare dove stava il Portogallo.
Stringendomi la mano (a momenti, me la stritolava) e sbatachiandola, sù e giù, mi fece l’atto di andare.
A me sembrò che, mi mandò a quel paese; al che risposi con un gesto: « Ma và a....»,
e mi incamminai nella direzione indicatami.
Ripresi il viaggio (a piedi).
Mi ero stancato di sollevare il braccio per chiedere un passaggio; con la faccia che mi ritrovavo (non avevo fatto la barba), mi prendevano per un delinquente.
Non avevo più l’orologio; me l’avevano preso le guardie (forse per pagare la cena al ristorante o forse per ricordo), così non sapevo neppure che ora era.
Il mio stomaco, diceva che era mezzogiorno o l’una.
Dovevo trovare, chi mi offrisse da mangiare e, lì per strada, non potevo chiedere l’ele-mosina agli automobilisti  (perché, tra l’altro, non si fermavano).
Così abbandonai la strada e me ne andai per la campagna.
Era un pó che camminavo (guarda la iella, neanche un albero da frutta); quando vidi
una casa.
Dissi tra me: «Se c’è una casa, ci sarà qualcuno e di certo non si rifiuterà di darmi
un piatto di minestra».
Però c’era il problema della lingua; se parlavano in modo strano, non avrei capito le loro parole, e loro non avrebbero capito, quello che avrei detto.
Mi venne un’idea; avrei fatto il Sordo-muto.
Battei alla porta e, dato che non sentivo, continuai a battere fino a che, la porta non si aprì.
Sull’uscio c’era un uomo, non posso dire vecchio, ma abbastanza vicino.
Cominciò a strillare; ma dato che non capivo quello che diceva, e poi ero sordo, lo lasciai sfogare senza reagire.
Quando vide che non rispondevo alla sue domande, smise di parlare.
Facendo i movimenti che spesso avevo visto fare dai Sordo-muti, feci capire di avere fame e di non avere soldi; accennando ad un assalto subito.
L’uomo mi fece entrare in casa e accomodare alla sua tavola, mi mise d’avanti un piat-to che riempii con quello che c’era nel mezzo della tavola.
In quella casa c’era anche una donna (di certo, la moglie), anche lei più o meno della stessa età.
Finito di mangiare, volli aiutare a lavare quello che era sporco; me lo impedirono, così rimasi seduto a guardare loro.
Ad un dato punto, mi devo essere addormentato perché quando mi svegliai stavo in
un letto ed era buio.
Continuai a dormire fino al mattino.
Quando mi alzai, loro erano già in piedi; sicuramente mi diedero il buon giorno al che, con un cenno, retribuii.
Mi diedero del latte e caffè con del pane scuro.
Finita la colazione, mostrai la mia faccia; avevo una barba di almeno tre giorni.
L’uomo mi fece un segno di seguirlo al bagno, poi mi accennò alla spuma da barba,
ma quando cercai il rasoio abituale, non lo trovai, al suo posto, c’era il vecchio rasoio di una volta.
Con quello, mi potevo tagliare la gola, non la barba.
Con la faccia insaponata, tornai in cucina e mostrando il rasoio, feci capire di non saperlo usare.
L’uomo mi fece accomodare sulla sedia e postomi un asciugamani sul d’avanti, in un batter d’occhi e con una maestria di un vero barbiere, mi rasò ben bene..
Dovevo ringraziarlo in qualche modo.
Dietro la casa, oltre al campo c’era un orto che aveva bisogno di una zappata, andai a procura di quello che mi serviva, e ripulii le piante da tutte le erbaccie.
Lavorai tutta la mattinata, smisi quando mi chiamarono per il pranzo.
Durante il pranzo, mi dissero qualcosa; che non capii e (non sentii).
A cenni, chiesi una carta e qualcosa per scrivere; poi come avevo fatto al posto di polizia, mi accennai scrivendo: ITALIANO, poi disegnando una casa, scrissi PORTOGALLO.
Si misero a discutere tra loro, poi l’uomo andò a prendere una giacca (non era nuova, ma di sera faceva freddo dato che avevo solo la camicia); mi la mise sopra le spalle facendomi capire che me la dava.
Ero commosso, non sapevo che dire (anche perché facevo il muto), lo ringraziai prendendogli la mano e squotendola sù e giù.
Non volevo andare via, prima di aver finito con l’orto, così lasciai la giacca e con la zappa, ritornai al lavoro.
Ancora una volta dormii da loro e al mattino dopo aver fatto colazione, l’uomo mi accompagnò verso la strada, lì vicino c’era la fermata dell’autobus.
Aspettammo un pò, ma poi giunse un pulman, come si fermò, l’uomo salì, disse qualcosa all’autista, gli diede qualcosa (di certo dei soldi), poi mi fece cenno di salire, gli presi la mano e stringendola, la scossi: in sù e giù come un saluto.
Lo salutai ancora mentre l’autobus si allontanava.
Avevo indosso una camicia pulita e una giacca (che potevo volere di più).
L’autobus andava, guardavo dal finestrino, ma non sapevo dove stavo, non conosce-vo il posto, mi limitavo a guardare.
Qualcuno accennò a parlarmi, ma facendo cenno che: non parlavo e non sentivo, mi lasciarono in pace.
Ad una sosta, scendemmo, ma, mentre gli altri si diressero verso il caffè, rimasi vicino all’autobus fino a quando venne l’autista a prendermi.
Mi accompagnò nel caffè, mi indicò il cibo che era esposto ma, facendo segno che
non avevo soldi, lui mi mise la mano nell’interno della giacca e tirò fuori un portafo-
glio.
Lo guardai, non era mio, scossi la testa e lo allontanai da me.
L’autista lo aprì e mi mostrò la foto dell’uomo e della donna che mi avevano ospitato, c’era scritto pure qualcosa (di certo il loro indirizzo), che però  non capivo, oltre alla foto c’erano quaranta euro.
Dissi tra me, un giorno avrei riportato: la giacca, la camicia e il portafoglio con dieci volte quello che c’era.
Con le lacrime agli occhi, scelsi qualcosa da mangiare che, però non riuscii a mandare giù; avevo un groppo nella gola, mi dovevo aiutare con la birra.
Con l’aiuto dell’autista cambiai due autobus.
Una notte la passai sopra un autobus e dopo il terzo trasbordo, vidi un cartello rotondo azzurro e nel mezzo la scritta: PORTOGALLO.
Al terzo cambio, già capivo dov’ero; ero nella Galizia, vidi Lugo, l’indicazione per San-tiago de Compostella, poi Ourense, Verin.
Entrai in portogallo dal lato di Chaves.
Con il fatto che c’erano le frontiere aperte, non ci fermammo alla frontiera, così nessu-no mi chiesi i documenti (che tra l’altro non avevo).
Da Chaves, con un’altro autobus, scesi a Santarém e avendo finito i soldi, passo dopo passo,  arrivai a Valle de Figueira.
Chi mi vide, mi guardava meravigliato (probabilmente mi credevano morto).
Non volendo far prendere un colpo a mia moglie, feci sosta dalla nostra vicina, pregandola di preannunciarmi a mia moglie con la cautela possibile.
Non potete immagginare quando, dopo tante peripezie, potei riabbracciare mia moglie, la quale non stentava a credere ai suoi occhi; ero in carne e ossa, anche dopo il volo dall’aereo.
Poi mi sono svegliato.

Sogno n.4 Il pellegrinaggio a Santiago di Compostella anno 2006

 Il sogno mi venne, dopo aver letto il libro in portoghese “ O DIÁRIO DE UM MAGO “ de PAULO COELHO.
Parlava di un pellegrinaggio fatto da un personaggio che veniva dal Brasile e iniziava il Cammino di Santiago partendo da Saint-Jean-Pied-dePort (Francia).
Io avrei iniziato il Cammino, partendo da Vale de Figueira (Santarém) Portogallo.
Non sapevo quanti chilometri sarebbero stati, ne quanti giorni avrei camminato e se ce l’avrei fatta ad arrivare a Santiago.
La volontà c’era, il coraggio pure...
Aspettai fino a quando Maria non doveva andare a Lisbona per le prove di canto, poi avuto il consenso di lei, mi preparai per la grande avventura.
Giunto il giorno della partenza, salutai Maria con un bacio e ricordando tutte le sue raccomandazioni (di telefonarle tutte le sere e se ci fosse un imprevisto), mi caricai lo zaino sulle spalle e mi incamminai verso il paese vicino (Pombalinho).
Lo zaino era più pesante di come lo avevo preparato il giorno prima; chissà quante cose ci aveva messo Maria, alla prima sosta, ci avrei dato un’occhiata.
Non seguivo il cammino indicato, me ne andavo per conto mio; quando cominciai a sentire fame, procurai un ristorante dei camionisti, dove avrei speso poco.
Trovatolo, entrai e lasciato lo zaino in un angolo, mi sedetti ad un posto libero.
Avvicinandosi il padrone, mi domandò se ero un turista, risposi che ero un pellegrino, mi chiese, se andavo a Fátima, risposi, che ci sarei passato, ma che la mia meta era Santiago de Compostela.
Rimase sorpreso della mia risposta; guardandomi e vedendo che non ero giovane, mi domandò se ce l’avrei fatta, risposi: « Con l’aiuto del  Signore, di certo ».
Mi chiese cosa volevo mangiare, chiesi solo una zuppa e del pane.
Oltre alla zuppa mi portò della carne con patate.
Cercai di rifiutare la carne per non spendere molto, disse: « È offerta della casa ».
Ringraziai e quando ebbi finito, per ringraziare, gli diedi una Ferratella (dolci da me fatto), dicendogli che era stata fatta da me prima di partire.
L’accettò dicendo, che l’avrebbe data a suo figlio che stava a casa ammalato.
Ripresi il cammino.
La notte mi sorprese in un paese.
Chiesi ospitalità per la notte, dopo aver chiesto a varie case, fui accettato; solo che mi dovevo arrangiare vicino all’ingresso.
Dallo zaino presi il sacco a pelo, mi ci infilai dentro, usando lo zaino per cuscino, mi addormentai subito; si vede che ero stanco.
L’indomani per ringraziare, offrii una Ferratella  e ripresi il cammino.
Ad ogni sosta che facevo, se dovevo pagare quello che chiedevo, non davo nulla; se invece mi era offerta, ringraziavo con una Ferratella.
Non sò quanto camminai, sò che i giorni passavano.                                            1
Ogni sera telefonavo a Maria raccontandogli quello che avevo fatto quel giorno.
Una sera Maria mi disse che stavano succedendo delle cose strane in Portogallo,
C’era gente che diceva essere guarita dopo aver mangiato non sapeva cosa.
Non ne sapevo nulla, non avevo tempo di vedere la televisione ne leggere i giornali, avevo altro da pensare.
Ci salutammo augurandoci la Buona Notte.
La sera seguente al richiamare Maria, lei mi disse: « Una signora era guarita dopo aver mangiato un biscotto offertogli da un pellegrino straniero ».
Risposi che sicuramente era un Santo travestito da pellegrino e andava in giro a fare miracoli.
Il giorno seguente, fui fermato; mi chiesero se ero quello che dava biscotti miracolosi? Risposi di nò! Non avevo biscotti, solo un pò di pane.
Non parlai delle Ferratelle.
Ad ogni chilometro o anche meno che facevo, ero fermato.
Volevano sapere, ed alcuni non credendo alle mie parole, volevano vedere dentro lo zaino.
Che fatica cominciava ad essere quel pellegrinaggio.
Ora non davo più Ferratelle quando mi offrivano da mangiare o da dormire; mi limitavo a ringraziare e prosseguivo il cammino.
La sera telefonando a Maria, chiedevo notizie dei miracolati.
Sembrava che, erano finiti i miracoli.
Cercando di non farmi sentire, gli dissi delle Ferratelle.
Maria che di un miracolo, ne aveva bisogno: guarire il mal di schiena, disse: « Se le Ferratelle fanno miracoli, vedi di conservarne una per me ».
Dissi che il giono dopo avrei offerto una Ferratella ad un bisognoso e poi avremmo visto alla televisione cosa era successo.
Così feci.
Ad un mendicante dissi di non aver soldi, ma potevo dare una Ferratella che mi era stata data da un pellegrino, alto con i capelli biondi; di certo un tedesco.
La sera telefonando a Maria, venni a sapere che, si cercava un pellegrino: alto e biondo  di origine tedesca.
Così scoprimmo; erano le Ferratelle a fare i miracoli.
Cosa era successo?
Ormai il mio pellegrinaggio si poteva dire finito.
C’era troppa gente a fermarmi, come anche ad altri pellegrini; che potevo fare? Lo zaino non lo potevo gettare via, con tutto quello che c’era dentro, come lo potevo nascondere?
La sera, chiesi ospitalità ad un convento.
Fui accolto, non mi fecero domande.
Mi dettero da mangiare e un letto per dormire.
Non sapevo come ringraziare.
Avevo ancora delle Ferratelle, le avrei offerte e poi che sarebbe successo?
La notte non riuscii a dormire, troppi pensieri mi assillavano, mi ero dimenticato di telefonare a Maria; chissà come stava in pensiero.
Il mattino seguente per prima cosa gli telefonai, scusandomi e raccontando degli
ultimi avvenimenti dicendogli dove stavo in quel momento.
Stavo a cento chilometri da Santiago, e non sapevo come uscire dal convento.
S’era sparsa la voce, di aver visto un pellegrino entrare nel convento e si era radunata una grande folla di curiosi e giornalisti.
Mi avvertirono che il Priore mi voleva parlare.
Mi recai dal Priore e lui, guardandomi negli occhi, mi disse: « Sei tu quello che fa miracoli ».
Dissi di non saperne niente; mi limitavo a pregare il Signore per darmi la forza di camminare e ringraziavo con una Ferratella (che mostrai) a chi mi faceva del bene.
Non ero un Santo, di certo da come mi vedevo, non sarei andato in Paradiso; non capivo quello che era successo: di certo dissi: era di certo opera del Signore.
Chiesi come potevo preseguire il viaggio, disse di non pensarci.
Avrei assistito alla messa, avrei fatto colazione e mi sarei rimesso in cammino.
Chiesi cosa facevo con quelli che mi aspettavano fuori del convento?
Disse di non pensarci, di certo mi avrebbe aiutato il Signore.
Assistito alle funzioni religiose, feci colazione insieme agli altri frati e con le gambe che tremavano, mi avviai verso il portone.
Il Priore di persona mi venne ad accompagnare.
Dopo averlo salutato, uscii dal convento e feci come mi si era detto: camminai come se fuori non ci fosse nessuno.
Nonostante ci fosse tanta gente, passai tra loro e proseguii il cammino.
Successe come se loro non mi avessero visto; come se fossi divenuto invisibile.
Poi mi svegliai.