domingo, 18 de agosto de 2013

Sogno n.13 La Piccola Roma anno 2007

 
Non sò da dove arrivarono i soldi; fatto stà che in Banca sul nostro conto, furono depositati 1 milione di Euro.
Dopo vari accertamenti, tutto risultò legale, meno il nome del depo-sitario.
A me e a mia moglie c’era sempre piaciuto aprire un ristorante.
La questione erano sempre i soldi.
Le idee tante, i soldi pochi.
Ora che avevamo i soldi, non ci potevamo tirare indietro.
Dovevamo aprire un ristorante.
Un ristorante sì, ma dove?
Bisognava cercare una zona.
Così cominciammo a girare.
Vicino alla città, troppo caro e troppa concorrenza.
In periferia, poco, ma poca ed economa la futura clientela.
Cerca, che ti cerca; finimmo in Alentejo.
Mentre percorrevamo la strada Nazionale, tra la città di Évora e Beja, vidi un cartello
“ Vendesi Monte “ e il numero telefonico di una Agenzia Immobiliaria..
Il “ Monte “, non è una montagna, ma solo una piccola collina.
Fermai la macchina e guardai il Monte in vendita e subito capii; era lì che avremmo aperto il ristorante.
Contattata l’agenzia immobiliaria e visti i ruderi, combinammo il prezzo.
Quando regolarizzammo l’aquisto, chiedemmo la Licenza per costruire una casa con annesso il ristorante.
Non avevamo fretta di cominciare; ma, un pò d’olio qui, un pò d’olio là, riuscimmo a oliare gli ingranaggi della burograzia e in meno di un anno avemmo il progetto approvato e incaricammo un’Impresa per la costruzione.
I ruderi erano in pietra, così potemmo approfittare le pietre per la nuova costruzione.
La casa era stile romano antico.
Il ristorante, sembrava un tempio, con tanto di colonne che (facem-mo fare).
Era impossibile non vederlo dalla strada.
Con tutto quel verde, non vederlo, era solo per i ciechi.
Prima di cominciare, eravamo assillati di domande dei curiosi che si fermavano per strada e; quando rispondevamo che avremmo aperto un ristorante italiano, avevamo la promessa, che sarebbero tornati.
Era tutto un falso antico.
C’era la luce elettrica ma non si vedeva.
Alle pareti c’erano delle torce; solo che la fiamma era artificiale.
Il pavimento era in cemento ricoperto da mattonelle in cotto rossa-stre.
Le pareti in pietra erano all’interno intonacate in gesso e affrescate con disegni floreali (riprodotti da vecchie stampe di interni romani).
Quelle esterne, erano coperte da pietre vecchie con tanto di muschio.
Visto da fuori, sembrava una costruzione risalente a più di mille anni.
Internamente, specie la cucina era a prova di controllo igienico.
Avevamo assunto due persone per servire e altre due come aiuto in cucina.
Quando fu tutto pronto, mettemmo un’insegna sul frontale “ Come si mangiava a Roma “.
Innaugurammo in estate, tutto all’aperto.
 Data la pubblicità fatta: con i giornali, con la radio e la televisione.
All’innaugurazione, dovemmo contattare altre cento persone sia per cucinare che per servire.
Il personale addetto al servizio, indossavano delle tuniche.
Dato che era Estate, le tuniche erano corte e le ragazze contattate (tutte belle) mostravano le cosce e gli uomini invitati, non facevano, che mangiarle con gli occhi.
Il vino e l’acqua erano servite con le brocche in coccio come pure lo erano i piatti e i bicchieri.
L’innaugurazione ci costò bene; ma poi ci rifacemmo.
Il primo mese, un pranzo o una cena tutto compreso costava 7.50 euro a persona.
Il secondo mese era aumentato a 10.
E a seguire nonostante che il prezzo continuava a salire, avevamo sempre il pieno e la gente che non entrava, faceva la fila di fuori.
Io dicevo: « La gente è matta, anche a 50 euro a testa, continua a prenotare. »
Quando cominciammo ad avere tanti soldi da non sapere come spenderli, feci costruire una muraglia tutta a volta della proprietà.
Nei camminamento che stavano in cima, giravano notte e giorno dei grossi cani, i quali dovevano tenere lontano i maliintenzionati.
Successivamente dato lo spazio, feci costruire un mini Colosseo, un Circo Massimo per le corse dei cavalli o bighe e un anfiteatro per gli spettacoli.
Contrattai un maetro d’armi.
Quando dissi, che avrebbe dovuto addestrare dei gladiatori, cercò di rifiutare; ma udito il compenso, accettò.
Come facemmo per la pubblicità al ristorante, lo facemmo per gli aspiranti gladiatori.
Promettendo lauti compensi senza rischi di perdere la vita, avemmo tanti uomini di tutte le razze.
Il maestro d’armi li selezionava.
Chi non serviva come gladiatore, poteva servire come guardia pretoriana.
Anche quello fu un successo.
Mangiare, esere serviti da belle ragazze in tunichetta o da rudi gladiatori era tutt’uno.
Il pranzo o la cena costava 100 euro e comprendeva lo spettacolo dei combattimenti.
Si poteva scommettere.
All’inizio, ci rifornivamo presso le fabbriche per i vetri, i cocci e i vestiti.
Con i soldi si compra tutto o quasi.
Noi comprammo, tutti i terreni a volta e poco dopo c’erano tante costruzioni (in stile romano antico) che servivano; come alloggio e per laboratori in cui gli artigiani producevano di tutto e tutto sempre con lo stilo romano antico.
Le strade erano lastricate e si potevano percorrere: a piedi, a cavallo o in carrozza o biga.
C’erano delle regole da rispettare: all’interno della muraglia il cui nome demmo come muraglia Aureliana, si poteva circolare solo se vestiti alla moda antica, non erano permessi: orologi, telefonini e occhiali.
All’interno delle abitazioni, potevano fare quello che volevano.
Le macchine e tutti i mezzi di trasporto dovevano restare fuori, sotto la sorveglianza delle guardie.
Da una casa all’inizio, anno dopo anno si erano costruite tante da sembrare una piccola città.
Un giorno mi venne un’idea: perché non dargli un nome.
In fin dei conti, c’era una cittadella che si chiamava Cuba, un paese Pavia, mancava Roma.
E Roma era lì, dove tutto sembrava essere tornato indietro dei tempi, dove tutto era Romano.                                                                                                                          
Le strade con i nomi, i colli, i ponti, le mura e le case; tutte con nomi romani, solo l’insieme non aveva un nome.
Come facemmo all’inizio: un pò d’olio qui, un pò d’olio là, ungemmo gli ingranaggi e dopo meno di un anno anche quel luogo ebbe il suo nome Roma.
Non eravamo autonomi, dipendevamo sia da Évora che da Lisbona ma quando si diceva: « Dove andiamo domenica? Andiamo a Roma. »
Per la lingua fu una faticaccia e ci vollero tanti autentici romanacci per far apprendere ai portoghesi: che a Roma sé parla solo romano.
Così quando arrivavano i pulman delle gite turistiche, ad ogni domanda si sentiva rispondere in italiano-romano e se volava un “vaffan....” non c’era niente da dire, era una parola romana.
Nell’interno della cittadella giravano solo monete romane.
Avevano valore solo nell’interno, non si accettavano gli euro.
Chi voleva spendere, doveva cambiare gli euro con i Sesterzi d’oro, d’argento e di rame.
Tutte avevano un valore.
Da un lato c’era la testa di Cesare Augusto, dall’altra la scritta Roma e il valore.
All’entrare potevano cambiare gli euro con i sesterzi, all’uscita chi voleva ricambiava i sesterzi con gli euro.
Per queste operazioni di cambio c’era la Banca di Roma.
Nonostante ne facevamo coniare tante, ogni anno ne dovevamo far coniare delle altre.
Anche con le monete avevamo un guadagno, costavano meno di quello che valevano.
Come pure con gli abiti a noleggio, la maggior parte della gente che arrivava, voleva vestire alla moda antica: Come senatore, come matrona, come guardia o come gladiatore.
Noleggiava un cavallo, una carrozza, una bica o una lettiga.
Costava meno andare a piedi.
Chi aveva, poteva.
A Roma ci si poteva abitare, solo che le case, ville o villini erano in affitto.
Non vendevamo a nessun prezzo.
Ci era stato consigliato di non farlo, perché chi comprava diventava padrone e poteva cambiare l’usanza.
Un giorno arrivò un pulman carico di italiani e come ero solito fare, andai loro incontro a dare il benvevuto.
Stavo tornando nell’interno quando sentii qualcuno parlare romano.
Era un romano di fuori-porta.
Mi girai e vidi un gruppo di cinque persone.
Un uomo, una donna, due ragazze e un ragazzo.
Una famiglia.
Rimasi ad ascoltare quello che dicevavo.
« Ao! Ma ndó semo capitati, sembra esse tornati ar tempo de ná vorta.»
Dopo aver  comprato, tutti i terreni disabitati che ci stavano intorno, facemmo costruire una seconda muraglia tutta a volta della proprietà.
Mia moglie mi chiese: « Perché: due muraglie? »
« La muraglia esterna è al limite della proprietà, quella interna, protegge la nostra proprietà in particolare.
Tra la muraglia esterna e quella interna, ci si poteva entrare con tutti i mezzi moderni, ma dopo quella interna, solo con mezzi antichi.»
Nei camminamenti che stavano in cima delle muraglie,, giravano notte e giorno dei grossi cani, i quali dovevano tenere lontano i mali-intenzionati.
Alla muraglia esterna demmo il nome di: Muraglia Antonina..
Questa seconda muraglia fu fatta per cercare di impedire il ripetersi di assalti alla nostra banca.
In una sezione tra le due muraglie c’era una centrale elettrica, una antenna parabolica, un bruciatore a gasolio per il riscaldamento e un deposito di gas per cucinare.
Sia nelle strade, che nelle case, c’era l’elettricita, il riscaldamento e il gas; solo che non si vedeva niente, i tubi passavano sottoterra.
Quando avevamo denciato gli assalti subiti, ci fu risposto che: essendoci resi autonomi, ci dovevamo arrangiare da noi.
Ci eravamo resi autonomi legalmente, quando avevamo fatto costruire la muraglia, non lasciando il libero accesso a nessuno.
Le guardie pretoriane oltre ad essere armate di daga e lancia, nascosto sotto il mantello avevano delle mitragliette e con quelle fermarono diversi assaltanti, i quali non potendo superare gli ostacoli che impedivano l’accesso di: moto e auto, arrivavano dall’alto con elicotteri.
Per fermare questi mezzi, avevamo fatto costruire delle catapulte e allenare i serventi e quando arrivava un elicottero, lo si lasciava atterrare e una volta scesi gli assaltanti veniva messo fuori uso con l’arrivo di grosse pietre.
Gli assaltanti una volta presi, venivano processato (non avevano diritto all’avvocato) e condannati ai lavori forzati o...ad essere mangiati dai leoni.
Messi in celle sotterranee a pane ed acqua, per una settimana o un mese, giorno e notte udivano i ruggidi delle belve feroci (era solo una registrazione).
Di giorno i carcerieri passavano d’avanti alle celle scherzando tra loro dicevano: «Chi diamo da mangiare ai leoni; lui o lui » indicando i prigionieri.
Continuavano a camminare, fino ad entrare in una stanza.
Ne uscivano, trascinando dei manichini fatti tanto bene da sembrare veri; dai loro petti o dalla gola gli fuoriusciva del liquido rossastro che dava l’impressione del sangue.
Ripassando d’avanti ai prigionieri, dicevano: « Domani tocca a te! »
Quando venivano graziati e rimessi in libertà; dopo quello che gli avevamo fatto passare, spargevano la voce e non ci disturbarono più.
Questo non valeva per gli invasori.
Gli invasori, arrivavano dall’alto con elicotteri o paracatutati.
Quando venivano presi, venivano riaccompagnati all’uscita dopo il sequestro dei loro beni, avendo invaso una proprietà privata.
Un anno ci accorgemmo che nella piccola città era entrata la droga, sicuramente portata da alcuni (falsi) turisti.
Fu emanato un nuovo regolamento.
I viveri che ricevevamo, venivano scaricati in particolari magazzini e controllati (a pettine fino).
Così pure i turisti, prima di entrare si dovevano spogliare in una stanza e una volta nudi, venivano fatti entrare in un’altra stanza che ricevevano (senza pagare nulla) i vestiti di moda antica, se poi non erano di loro gradimento, li potevano cambiare.
Non potevano portare niente, se non i soldi da cambiare.
Sulle prime ci furono delle lamentazioni, poi si dovettero adeguare.
Dentro la cittadella, nascoste, c’erano delle telecamere e macchine fotografiche
che fimavano tutti e tutti gli avvenimenti.
Una volta usciti dalla muraglia interna, in un apposito ufficio, potevano vedere le riprese e comprare le copie.
Alla regola non c’erano eccezioni; anche i politici (Presidenti o Primi Ministri), si dovevano spogliare.
Poi successe una cosa inspiegabile.
Lo venimmo a sapere tramite la televisione.
Chi voleva entrare dall’alto o dalla terra, era impedito da qualcosa.
Gli elicotteri atterravano in una cosa invisibile e inpenetrabile, così anche quelli che si gettavano dagli aerei.
Dall’interno non si vedeva quello che succedeva fuori.
Si vedeva il sole, la luna e le stelle.
Quando pioveva, pioveva veramente, tanto che; le strade e le persone si bagnavano.
Quando avevano visto che non potevano entrare dall’alto, ci avevano provato da terra.
C’era qualcosa che impediva loro di avvicinarsi alla muraglia esterna; come quelli che con auto-bomba, volevano far saltare le muraglie.
Ci provarono in tutte le maniere, scavando delle gallerie, ma finivano con trovare un ostacolo che non si distrugeva neanche con l’esplosivo.
Quando fummo intervistati da giornalisti, non rivelammo quello che non potevamo rivelare, perché non avevamo niente da rivelare; ma non dicemmo cosa.
La piccola Roma aveva attirato l’interesse di altri paesi, i quali cominciarono ad imitarci, facendo scendere il nostro guadagno.
A noi poco importava, anzi ci faceva piacere.
Avevamo inventato un modo di dare lavoro a tutti.
Poi finì il sogno.



                                     



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