Non sò da dove arrivarono i soldi; fatto stà che
in Banca sul nostro conto, furono depositati 1 milione di Euro.
Dopo vari accertamenti, tutto risultò legale, meno
il nome del depo-sitario.
A me e a mia moglie c’era sempre piaciuto aprire un ristorante.
La questione erano sempre i soldi.
Le idee tante, i soldi pochi.
Ora che avevamo i soldi, non ci potevamo tirare indietro.
Dovevamo aprire un ristorante.
Un ristorante sì, ma dove?
Bisognava cercare una zona.
Così cominciammo a girare.
Vicino alla città, troppo caro e troppa concorrenza.
In periferia, poco, ma poca ed economa la futura clientela.
Cerca, che ti cerca; finimmo in Alentejo.
Mentre percorrevamo la strada Nazionale, tra la
città di Évora e Beja, vidi un cartello
“ Vendesi Monte “ e il numero telefonico di una
Agenzia Immobiliaria..
Il “ Monte “, non è una montagna, ma solo una piccola collina.
Fermai la macchina e guardai il Monte in vendita e
subito capii; era lì che avremmo aperto il ristorante.
Contattata l’agenzia immobiliaria e visti i
ruderi, combinammo il prezzo.
Quando regolarizzammo l’aquisto, chiedemmo la Licenza per costruire una
casa con annesso il ristorante.
Non avevamo fretta di cominciare; ma, un pò d’olio
qui, un pò d’olio là, riuscimmo a oliare gli ingranaggi della burograzia e in
meno di un anno avemmo il progetto approvato e incaricammo un’Impresa per la
costruzione.
I ruderi erano in pietra, così potemmo
approfittare le pietre per la nuova costruzione.
La casa era stile romano antico.
Il ristorante, sembrava un tempio, con tanto di colonne che (facem-mo fare).
Era impossibile non vederlo dalla strada.
Con tutto quel verde, non vederlo, era solo per i ciechi.
Prima di cominciare, eravamo assillati di domande
dei curiosi che si fermavano per strada e; quando rispondevamo che avremmo
aperto un ristorante italiano, avevamo la promessa, che sarebbero tornati.
Era tutto un falso antico.
C’era la luce elettrica ma non si vedeva.
Alle pareti c’erano delle torce; solo che la fiamma era artificiale.
Il pavimento era in cemento ricoperto da
mattonelle in cotto rossa-stre.
Le pareti in pietra erano all’interno intonacate
in gesso e affrescate con disegni floreali (riprodotti da vecchie stampe di
interni romani).
Quelle esterne, erano coperte da pietre vecchie con tanto di muschio.
Visto da fuori, sembrava una costruzione risalente
a più di mille anni.
Internamente, specie la cucina era a prova di controllo igienico.
Avevamo assunto due persone per servire e altre
due come aiuto in cucina.
Quando fu tutto pronto, mettemmo un’insegna sul
frontale “ Come si mangiava a Roma “.
Innaugurammo in estate, tutto all’aperto.
Data la pubblicità fatta: con i
giornali, con la radio e la televisione.
All’innaugurazione, dovemmo contattare altre cento persone sia per cucinare
che per servire.
Il personale addetto al servizio, indossavano delle tuniche.
Dato che era Estate, le tuniche erano corte e le
ragazze contattate (tutte belle) mostravano le cosce e gli uomini invitati, non
facevano, che mangiarle con gli occhi.
Il vino e l’acqua erano servite con le brocche in coccio come pure lo erano
i piatti e i bicchieri.
L’innaugurazione ci costò bene; ma poi ci rifacemmo.
Il primo mese, un pranzo o una cena tutto compreso
costava 7.50 euro a persona.
Il secondo mese era aumentato a 10.
E a seguire nonostante che il prezzo continuava a
salire, avevamo sempre il pieno e la gente che non entrava, faceva la fila di
fuori.
Io dicevo: « La gente è matta, anche a 50 euro a
testa, continua a prenotare. »
Quando cominciammo ad avere tanti soldi da non
sapere come spenderli, feci costruire una muraglia tutta a volta della
proprietà.
Nei camminamento che stavano in cima, giravano
notte e giorno dei grossi cani, i quali dovevano tenere lontano i maliintenzionati.
Successivamente dato lo spazio, feci costruire un
mini Colosseo, un Circo Massimo per le corse dei cavalli o bighe e un
anfiteatro per gli spettacoli.
Contrattai un maetro d’armi.
Quando dissi, che avrebbe dovuto addestrare dei
gladiatori, cercò di rifiutare; ma udito il compenso, accettò.
Come facemmo per la pubblicità al ristorante, lo facemmo per gli aspiranti
gladiatori.
Promettendo lauti compensi senza rischi di perdere
la vita, avemmo tanti uomini di tutte le razze.
Il maestro d’armi li selezionava.
Chi non serviva come gladiatore, poteva servire
come guardia pretoriana.
Anche quello fu un successo.
Mangiare, esere serviti da belle ragazze in
tunichetta o da rudi gladiatori era tutt’uno.
Il pranzo o la cena costava 100 euro e comprendeva lo spettacolo dei
combattimenti.
Si poteva scommettere.
All’inizio, ci rifornivamo presso le fabbriche per
i vetri, i cocci e i vestiti.
Con i soldi si compra tutto o quasi.
Noi comprammo, tutti i terreni a volta e poco dopo
c’erano tante costruzioni (in stile romano antico) che servivano; come alloggio
e per laboratori in cui gli artigiani producevano di tutto e tutto sempre con
lo stilo romano antico.
Le strade erano lastricate e si potevano percorrere: a piedi, a cavallo o
in carrozza o biga.
C’erano delle regole da rispettare: all’interno
della muraglia il cui nome demmo come muraglia Aureliana, si poteva circolare
solo se vestiti alla moda antica, non erano permessi: orologi, telefonini e
occhiali.
All’interno delle abitazioni, potevano fare quello che volevano.
Le macchine e tutti i mezzi di trasporto dovevano
restare fuori, sotto la sorveglianza delle guardie.
Da una casa all’inizio, anno dopo anno si erano
costruite tante da sembrare una piccola città.
Un giorno mi venne un’idea: perché non dargli un nome.
In fin dei conti, c’era una cittadella che si
chiamava Cuba, un paese Pavia, mancava Roma.
E Roma era lì, dove tutto sembrava essere tornato
indietro dei tempi, dove tutto era Romano.
Le strade con i nomi, i colli, i ponti, le mura e
le case; tutte con nomi romani, solo l’insieme non aveva un nome.
Come facemmo all’inizio: un pò d’olio qui, un pò
d’olio là, ungemmo gli ingranaggi e dopo meno di un anno anche quel luogo ebbe
il suo nome Roma.
Non eravamo autonomi, dipendevamo sia da Évora che
da Lisbona ma quando si diceva: « Dove andiamo domenica? Andiamo a Roma. »
Per la lingua fu una faticaccia e ci vollero tanti
autentici romanacci per far apprendere ai portoghesi: che a Roma sé parla solo
romano.
Così quando arrivavano i pulman delle gite
turistiche, ad ogni domanda si sentiva rispondere in italiano-romano e se
volava un “vaffan....” non c’era niente da dire, era una parola romana.
Nell’interno della cittadella giravano solo monete romane.
Avevano valore solo nell’interno, non si accettavano gli euro.
Chi voleva spendere, doveva cambiare gli euro con
i Sesterzi d’oro, d’argento e di rame.
Tutte avevano un valore.
Da un lato c’era la testa di Cesare Augusto, dall’altra la scritta Roma e
il valore.
All’entrare potevano cambiare gli euro con i
sesterzi, all’uscita chi voleva ricambiava i sesterzi con gli euro.
Per queste operazioni di cambio c’era la Banca di Roma.
Nonostante ne facevamo coniare tante, ogni anno ne
dovevamo far coniare delle altre.
Anche con le monete avevamo un guadagno, costavano
meno di quello che valevano.
Come pure con gli abiti a noleggio, la maggior
parte della gente che arrivava, voleva vestire alla moda antica: Come senatore,
come matrona, come guardia o come gladiatore.
Noleggiava un cavallo, una carrozza, una bica o una lettiga.
Costava meno andare a piedi.
Chi aveva, poteva.
A Roma ci si poteva abitare, solo che le case,
ville o villini erano in affitto.
Non vendevamo a nessun prezzo.
Ci era stato consigliato di non farlo, perché chi
comprava diventava padrone e poteva cambiare l’usanza.
Un giorno arrivò un pulman carico di italiani e
come ero solito fare, andai loro incontro a dare il benvevuto.
Stavo tornando nell’interno quando sentii qualcuno parlare romano.
Era un romano di fuori-porta.
Mi girai e vidi un gruppo di cinque persone.
Un uomo, una donna, due ragazze e un ragazzo.
Una famiglia.
Rimasi ad ascoltare quello che dicevavo.
« Ao!
Ma ndó semo capitati, sembra esse tornati ar tempo de ná vorta.»
Dopo aver
comprato, tutti i terreni disabitati che ci stavano intorno, facemmo
costruire una seconda muraglia tutta a volta della proprietà.
Mia moglie mi chiese: « Perché: due muraglie? »
« La muraglia esterna è al limite della proprietà,
quella interna, protegge la nostra proprietà in particolare.
Tra la muraglia esterna e quella interna, ci si
poteva entrare con tutti i mezzi moderni, ma dopo quella interna, solo con
mezzi antichi.»
Nei camminamenti che stavano in cima delle
muraglie,, giravano notte e giorno dei grossi cani, i quali dovevano tenere lontano
i mali-intenzionati.
Alla muraglia esterna demmo il nome di: Muraglia Antonina..
Questa seconda muraglia fu fatta per cercare di
impedire il ripetersi di assalti alla nostra banca.
In una sezione tra le due muraglie c’era una
centrale elettrica, una antenna parabolica, un bruciatore a gasolio per il
riscaldamento e un deposito di gas per cucinare.
Sia nelle strade, che nelle case, c’era
l’elettricita, il riscaldamento e il gas; solo che non si vedeva niente, i tubi
passavano sottoterra.
Quando avevamo denciato gli assalti subiti, ci fu
risposto che: essendoci resi autonomi, ci dovevamo arrangiare da noi.
Ci eravamo resi autonomi legalmente, quando
avevamo fatto costruire la muraglia, non lasciando il libero accesso a nessuno.
Le guardie pretoriane oltre ad essere armate di
daga e lancia, nascosto sotto il mantello avevano delle mitragliette e con
quelle fermarono diversi assaltanti, i quali non potendo superare gli ostacoli
che impedivano l’accesso di: moto e auto, arrivavano dall’alto con elicotteri.
Per fermare questi mezzi, avevamo fatto costruire
delle catapulte e allenare i serventi e quando arrivava un elicottero, lo si
lasciava atterrare e una volta scesi gli assaltanti veniva messo fuori uso con
l’arrivo di grosse pietre.
Gli assaltanti una volta presi, venivano
processato (non avevano diritto all’avvocato) e condannati ai lavori forzati
o...ad essere mangiati dai leoni.
Messi in celle sotterranee a pane ed acqua, per
una settimana o un mese, giorno e notte udivano i ruggidi delle belve feroci (era
solo una registrazione).
Di giorno i carcerieri passavano d’avanti alle
celle scherzando tra loro dicevano: «Chi diamo da mangiare ai leoni; lui o lui
» indicando i prigionieri.
Continuavano a camminare, fino ad entrare in una stanza.
Ne uscivano, trascinando dei manichini fatti tanto
bene da sembrare veri; dai loro petti o dalla gola gli fuoriusciva del liquido
rossastro che dava l’impressione del sangue.
Ripassando d’avanti ai prigionieri, dicevano: « Domani tocca a te! »
Quando venivano graziati e rimessi in libertà; dopo
quello che gli avevamo fatto passare, spargevano la voce e non ci disturbarono
più.
Questo non valeva per gli invasori.
Gli invasori, arrivavano dall’alto con elicotteri o paracatutati.
Quando venivano presi, venivano riaccompagnati all’uscita
dopo il sequestro dei loro beni, avendo invaso una proprietà privata.
Un anno ci accorgemmo che nella piccola città era entrata la droga,
sicuramente portata da alcuni (falsi) turisti.
Fu emanato un nuovo regolamento.
I viveri che ricevevamo, venivano scaricati in
particolari magazzini e controllati (a pettine fino).
Così pure i turisti, prima di entrare si dovevano
spogliare in una stanza e una volta nudi, venivano fatti entrare in un’altra
stanza che ricevevano (senza pagare nulla) i vestiti di moda antica, se poi non
erano di loro gradimento, li potevano cambiare.
Non potevano portare niente, se non i soldi da cambiare.
Sulle prime ci furono delle lamentazioni, poi si dovettero adeguare.
Dentro la cittadella, nascoste, c’erano delle telecamere e macchine
fotografiche
che fimavano tutti e tutti gli avvenimenti.
Una volta usciti dalla muraglia interna, in un
apposito ufficio, potevano vedere le riprese e comprare le copie.
Alla regola non c’erano eccezioni; anche i
politici (Presidenti o Primi Ministri), si dovevano spogliare.
Poi successe una cosa inspiegabile.
Lo venimmo a sapere tramite la televisione.
Chi voleva entrare dall’alto o dalla terra, era impedito da qualcosa.
Gli elicotteri atterravano in una cosa invisibile e inpenetrabile, così
anche quelli che si gettavano dagli aerei.
Dall’interno non si vedeva quello che succedeva fuori.
Si vedeva il sole, la luna e le stelle.
Quando pioveva, pioveva veramente, tanto che; le
strade e le persone si bagnavano.
Quando avevano visto che non potevano entrare
dall’alto, ci avevano provato da terra.
C’era qualcosa che impediva loro di avvicinarsi
alla muraglia esterna; come quelli che con auto-bomba, volevano far saltare le
muraglie.
Ci provarono in tutte le maniere, scavando delle
gallerie, ma finivano con trovare un ostacolo che non si distrugeva neanche con
l’esplosivo.
Quando fummo intervistati da giornalisti, non
rivelammo quello che non potevamo rivelare, perché non avevamo niente da rivelare;
ma non dicemmo cosa.
La piccola Roma aveva attirato l’interesse di
altri paesi, i quali cominciarono ad imitarci, facendo scendere il nostro
guadagno.
A noi poco importava, anzi ci faceva piacere.
Avevamo inventato un modo di dare lavoro a tutti.
Poi finì il sogno.
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