sábado, 24 de agosto de 2013

Sogno n.39 Un Mondo sottoterra anno 2009


Avevo sempre desiderato farmi una camminata per la montagna e lì vicino dove abitavamo, ce ne era una a portata di mano.
Era una piccola montagna.
Un pomeriggio mi decisi.
Portai con me il telefonino e mi incamminai per la strada nazionale che collega il mio paese a quello vicino.
Pochi chilometri e lasciando la nazionale, cominciai a salire per la montagnola.
Ogni tanto telefonavo a mia moglie per dirle dove stavo e camminando, tiravo foto a tutto quello che mi sembrava interessante.
Dalla nostra casa, si vedeva una croce sulla montagna.
Volevo andarci vicino a dargli un’occhiata.
Dal punto dove avevo cominciato a salire, la croce non si vedeva; anche perché c’erano gli alberi che la nascondevano.
Arrivato in cima, vidi la croce.
La croce era fatta di cemento e sotto c’era una targa che però non riuscii a leggere quello che ci stava scritto.
Tirai delle fotografie sia alla croce che alla targa; a casa Maria l’avrebbe letta.
Il paesaggio era bellissimo.
Dall’alto si vedeva la nostra casa e quelle dei vicino.
Tirai altre foto.
Da ogni lato che mi giravo, c’era sempre qualcosa da fotografare.
Avevo telefonato a mia moglie dicendo quello che avevo visto e mi accingevo a tornare indietro, quando un fruscio attrasse la mia attenzione.
Che poteva essere?
Per fortuna avevo con me il bastone del camminatore che aveva la punta d’acciaio e mi poteva servire come arma.
Stetti sul “chi va là”, aspettando chissà quale incontro.
Il fruscio si ripeté, ma non si mostrava nessuno.
Il fruscio era lì vicino.
Portando il bastone in avanti, mi avvicinai al cespuglio dove proveniva il fruscio.
Scostai i rami e vidi una cinghiale steso a terra.
Era steso a terra e aveva una ferita al fianco da cui usciva del sangue.
Sembrava morto, non si muoveva.
Lo toccai con il bastone, pronto ad una sua reazione.
Niente, nessuna reazione.
Doveva essere morto da poco.
Era un grosso cinghiale.
Non ce l’avrei fatta a caricarlo sulle spalle.
Pensai di trascinarlo vicino alla strada e poi andare a prendere la macchina e con l’aiuto di mia moglie lo avremmo caricato sopra e portato a casa.
Telefonai a mia moglie e le dissi del cinghiale e di quello che stavo per fare.
Mi tolsi la cinta dei pantaloni e gliela stavo passando tra le gambe posteriori, quando, il cinghiale si cominciò ad agitare.
Mi sollevai e prendendo il bastne che avevo con me, mi preparai ad infilzarlo
con le punta d’acciaio.
Stavo per colpirlo quando quello si rialzò e prese a fuggire.
Perdeva sangue e io seguendo le tracce che lasciava, lo seguii.
Le tracce portarono in una grotta.
Più che grotta era un grottino, ci si poteva entrare solo caminando carponi.
Non volendo sorprese da parte del cinghiale, avanzavo tenendo il bastone puntato in avanti.
La luce si andava mano mano affievolendosi.
Il grottino fece una svolta e la luce scomparve.
Non vedevo più nulla.
Mi fermai e decisi di tornare indietro.
Il bastone aveva toccato qualcosa di morbido.
Allungai l’altra mano e sentii il pelo del cinghiale.
Cercai a tantoni una gamba e trovatala, cominciai ad indietregiare.
Il cinghiale tornò ad agitarsi e a fuggire.
Lo tenevo ben stretto con la mano sinistra e con la destra colpivo il cinghiale con il bastone.
Lo colpivo, lo colpivo, ma lui non voleva morire e tirava, tirava.
Mi sentivo trascinare in avanti.
Ad un certo punto la terra mi mancò e precipitai.
Non sò quanto precipitai.
Ricordo che tenevo il cinghiale con la mano.
Poi sentii una botta alla testa e persi i sensi.
Mi svegliò un calore alla schiena.
Dove ero? Intorno a me c’era una chiarezza.Doveva essere sera.
C’erano delle luci. Non erano lampioni ma fuochi.
Tornai a sentire calore. Più che calore, era bruciore.
Voltai la testa di lato e vidi accanto a ne del fuoco.
Feci un salto, alzandomi. Mi ero svegliato sopra un bracere.
Sentii più che vedere, la presenza di persone.
Ero nudo. Mi avevano tolto i vestiti che avevo indosso.
Lo sguardo mi tornò verso il bracere e vidi il cinghiale ad arrostire.
Qualcuno avanzò verso di me.
Entrato alla luce del fouco, vidi di trattarsi di uno scimione.
Era uno scimione bianco. Aveva il pelo tutto bianco.
Avanzò verso di me, dicendo, non sò cosa e indicando il bracere.
Che voleva dire; che dovevo tornare a sdraiarmi accanto al cinghiale.
« Ao! Ma che sei matto? »
Feci per allontanarmi, ma lui mi afferro.
Mi voltai e tenendo le dita della mano destra a V, lo colpii agli occhi.
Con un urlo mi afferrò per la vita sollevandomi dal suolo.
Tornai a colpirlo anche con i pugni in faccia.
Sembrava che i colpi non li sentiva, mentre io sentivo la sua stretta sempre più forte.
Tra non molto, mi avrebbe rotto la schiena.
Alzai ambedue le mani per colpirlo più forte, quando sentii qualcosa.
Era di pietra ed era appuntita.
Vedeva trattarsi di una stalatite.
L’afferrai con le due mani e cercai di staccarla.
Non si staccava.
Fu lo scimione ad aiutarmi, muovendosi.
Con uno scricchiolio si staccò precipitando sulla testa dello scimione.
Il quale largò le braccia lasciandomi andare e traballando cadde sopra il braciere.
Un urlo e una massa di gente si precipitò verso di me.
Quando mi ero rialzato, avevo raccolto la stallatite che mi aveva salvato.
Vidi che era lunga come un braccio e da una parte era grossa come un pallone.
Era pesante, la raccolsi con due mani e me la misi su una spalla.
Come vidi quella massa di gente venire verso di me, mi misi pronto a vendere cara la mia pelle; con quella clava avrei rotto diverse teste.
Invece di attaccarmi, quella gente si gettò a terra e strusciando mi si accostò.
Stavo sempre pronto a colpire, quello che arrivò al mio contatto mi prese un piede e se lo mise in testa e poi mi sorrise e sempre strisciando si allontanò.
Così fecero anche gli altri.
Mi stavo rilassando.
La clava mi pesava sulla spalla.
Pensavo di metterla in terra, quando arrivò urlando, una donna.
Che era una donna lo si vedeva dai seni.
Aveva le mani tese, come se mi volesse graffiare.
Doveva essere la donna dello scimione che mi aveva attaccato.
Come mi arrivò vicino, sollevai la clava e gliela feci cadere sulla testa.
Come una marionetta in cui erano stati tagliati i fili che la sorreggevano, lei cadde a terra, inerte..
« Ooh! » o qualcosa di simile si udì.
Poi arrivarono altre giovani donne e dopo essersi stese in terra e posto il mio piede sulla loro testa, mi presero per mano e mi trascinarono con loro.
« Un momento! La mia clava. »
Due donne la tenevano e ci seguivano.
Mi condussero in una grande grotta.
La grotta era illuminata, non sò da cosa, ma era illuminata.
Sembrava, ci fossero cento candele.
Mi fecero sedere su un sedile fatto di pelliccia bianca.
Bianca come il pelo che ricopriva il loro corpo.
Una volta seduto, mi fu offerto da bere (non sò cosa).
Pensando che fosse acqua, ne avevo bevuto una grande sorsata.
Mi sentii bruciare lo stomaco.
Doveva avere più di cento gradi.
Le donne vedendo che avevo vuotato la tazza in un baleno, proruppero il un:
« Ooh! »
Di certo, quella bevanda, veniva bevuta in piccoli sorsi.
Il brusciore allo stomaco, mi fece capire che...chissà da quanto tempo non mangiavo.
Portando la mano alla bocca, feci capire che volevo mangiare.
Subito alcune donne corsero fuori e tornarono con della carne arrosto.
Volevo prenderla e mangiarla, ma mi accorsi di non avere la dentiera.
Mi si doveva essere staccata cadendo e chissà dove era finita.
Quando mostrai la bocca senza denti, ci fu un’altra asclamazione di stupore.
Per mangiare la carne, l’unica maniera era pestarla e farne una poltiglia, volevo farlo da solo, ma non me lo lasciarono fare.
C’era chi ne staccava un pezzo e dopo a verlo pestato tra due pietre, me lo metteva in bocca.
Chi mi portava la tazza del liquore, che bevevo a piccoli sorsi.
Fuori all’aperto, vicino ai fuochi, si sentivano delle grida e delle urla.
Doveva essere in corso una festa.
Non sò come finì, perché mi addormentai.
Di cerdo dovuto all’alcool bevuto.
Mi svegliai dalla voglia di urinare.
Come mi alzai, si svegliarono le donne che avevano dormito con me.
Una di loro mi prese per una mano tirandomi verso il letto.
Riuscii a svincolarmi e mi precipitai fuori della grotta e presi ad urinare.
Fuori era giorno.
Si vedeva che era giorno perché la luce che inondava il tutto era diverso de quella che c’era quando mi svegliai sulla graticola.
D’avanti a me ad una distanza di circa duecento metri, vedevo dei fuochi posti in fila e delle persone a cuocere non capii cosa.
Volevo andare a vedere ma, ero nudo e non avevo come loro, il pelo che mi ricopriva.
Mentre urinavo, alcune donne mi avevano seguito e vedendo cosa stavo facendo si misero a ridere e d’avanti a me si accosciarono e presero ad urinare anche loro.
Finito di urinare tornai nell’interno per prendermi una pelle per coprirmi, quando vidi ad un angolo, i miei vestiti.
C’era tutto quello che avevo quando avevo lasciato la mia casa.
Mancavano solo gli occhiali, mi erano di certo caduti mentre precipitavo.
C’era però un problema...
Quello che mi aveva trovato, non si era limitato a sbottonarmi: il gibbino, la camicia e i pantaloni, come una persona civile; aveva usato la lama di un coltello, tagliando tutto, come pure i lacci delle scarpe.
Alla meno peggio, mi rivestii sotto gli occhi curiosi delle donne.
Una volta rivestito, tastai nelle tasche del giubetto, sentendo il gonfiore della macchina fotografica.
Chissà se funzionava ancora.
La  tirai  fuori  dalla  tasca  e  dalla  custodia,  la  misi  a  fuoco  e  guardando le donne
accostate tra loro, premetti il pulsante dello scatto.
Ci fu un lampo.
Le donne caddero le une sulle altre, come morte.
Controllai se le avevo riprese; tutto bene, l’immagine era perfetta, la macchina fotografica funzionava ancora.
La rimisi nella custodia.
Stavo per uscire dalla grotta, quando entrarono altre due donne che portavano una lastra con carne e un cotenitore con del liquido.
Pensando al liquore che avevo bevuto la notte prima, scossi la testa.
« Vorrei del latte, possibilmente con il caffè. »
Era da pretendere troppo.
In quel momento passò una donna che teneva in braccio un neonato e lo stava allattando.
La indicai, dicendo: « Latte ».
Una di loro uscì e poco dopo tornò con la donna.
Una volta giunto vicino a me, prese un seno e me lo indicò.
« Non avete capito niente, vorrei del latte: di mucca, di pecora o di capra; non di lei. »
La donna mi mise una mano dietro la nuca e premendola mi accostò il grosso capezzolo alla bocca, schizzandomi del latte in bocca.
Il latte aveva un sapore dolciastro.
Non potei compararlo con il latte che avevo preso da mia madre; ero troppo piccolo per ricordarmene.
Comunque lo bevvi e continuai a berne finché ne uscì.
Quando il latte finì, la donna mi lasciò andare, tirandomi il capezzolo dalla bocca e dopo aver detto, chissà cosa, se ne andò..
Una volta fatta la colazione (mancava solo: il pane, il burro e la marmellata), uscii dalla grotta e mi avviai verso i fuochi.
Arrivato, mi accorsi che i fuochi non erano alimentati da legna.
In quel momento non sapevo cosa alimentava quelle fiamme.
Più tardi scoprii che, si trattava di un fiume di liquido.
Questo fiume, scorreva come fosse d’acqua, ma, bruciava..
Sul fiume erano state gettate delle lastre di pietra e su queste cuoceva della carne.
La carne era composta da donne ancora in vita da cui era stata asportata la pelle.
Vomitai tutto quello che aveva mangiato la sera prima e il latte bevuto.
Tornai nella grotta.
Ma dove ero capitato?
Quel giorno non toccai cibo.Sapendo di che carne si trattava, non mangiai niente.
Avevo fame, ma non avrei mangiato della carne umana.
In quel momento sentii la puzza. Era puzza di feci e urina.
Mi guardai attorno cercando la provenienza di quella puzza.
Veniva da un lato della grotta.
Mi diressi verso quella parte e arrivato scoprii un’altra grotta.
L’ingresso della grotta era stato chiuso da un lastrone di pietra.
Il lastrone non copriva completamente l’ingresso, ma arrivava ad una certa altezza.
Fui a procura di una luce.
Era una pietra scavata in cui era stato posto del liquido che bruciava.
Con quella luce, sbirciai al di là del lastrone.
Quella che pensavo fosse una grotta, risultò un grottino in cui c’erano cinque donne.
Che ci facevano quelle donne in quel grottino? Con un grande sforzo, spostai il lastrone.
Una volta spostato, invitai le donne ad uscire.Era come se avessi parlato da solo.
Non uscì nessuno.
Nonostante la puzza, entrai e prendendo una donna per mano la costrinsi ad uscire.
Le altre donne che stavano nella grotta dissero qualcosa (che non capii) come un:
« Nooo! Nooo! » scuotendo la testa.
Ma perché nò?
Una volta uscite tutte cinque, si avventarono sul cibo, divorandolo in un baleno.
Una volta finito di mangiare, rimasero ferme, come in trance.
Erano sporche. Il pelo bianco era tutto sporco di escrementi. Puzzavano, oh se puzzavano. Precisavano di un bagno.
Un bagno, dove potevano fare il bagno?
Nella grotta non avevo visto acqua.
Mi rivolsi alle altre: « Dove si possono lavare? »
Non risposero, di certo non avevano capito quello che avevo detto.
Con i gesti mi feci capire meglio.
Una di loro mi fece segno di seguirla e dopo essere entrati in un’altra grotta, vidi la cascata.
Sotto la cascata facevano il bagno sia gli uomini che le donne.
Gli uomini si distinguevano dalle donne, oltre all’attributo maschile, che dai peli
che ricopriva pure il viso. Si vedevano solo: gli occhi e la bocca.
Le donne oltre agli attributi femminili, non avevano il viso coperto di peli.
Con l’aiuto delle atre, ci portai le cinque donne e sotto lo getto dell’acqua si ripulirono del sudiciume.
Una volta pulite, le riportammo nella grotta; non dove le avevo trovate.
Bisognava pulire il grottino.
Neanche a parlarne, le altre donne invece di aiutarmi, mi lasciarono solo.
Non essendoci, né secchi, né stracci, mi aiutai con le pelli del letto e facendo vari viaggi, ripulii il grottino.
Una  volta  ripulito e  asciutto, vi  feci  tornare  le  cinque  donne senza però richiudere
l’entrata con il lastrone; così se ad una donna gli fosse venuta la necessità, non avrebbe fatto altro che uscire e liberarsi di fuori.
Dopo aver sistemate le cinque donne, mi ricordai del cellulare.
Lo presi e lo accesi.Volevo chiamare mia moglie.Lì nella grotta non avevo linea.
Uscii e cominciai a caminare sempre tenendo d’occhio il visore.
Niente, dovunque andavo, non avevo linea.
Cercai nella voce messaggi.
La trovai e le mandai un messaggio, spiegandole cosa mi era accaduto e del posto dove mi trovavo.
Terminai dicendole: « Ti amo. Se ricevi il messaggio, rispondimi nella stessa maniera perché dove mi trovo non ho linea per telefonare. » poi tornai alla grotta che trovai vuota.
Le donne erano andate via.
Ad un dato punto vidi uscire da un foro una bestia.
Sembrava un topo. Era grosso come un coniglio.
L’animale non si preoccupò di me e prese ad annusare qua e là.
Chissà se era buono da mangiare.
Senza pensarci due volte, presi la clava e lo colpii, poi prendendolo per una zampa, lo portai vicino ai fuochi e senza guardare gli altri fuochi, misi l’animale sulla griglia a cuocere.
Una volta cotto, lo mangiai.Era buono o era la fame a farmelo sembrare buono.
Avevo fatto tutto sotto gli occhi delle donne che erano intente a cuocere le altre donne.
Per tutti ero una curiosità.Era curioso come vestivo e quello che portavo addosso.
L’orologio, il telefonino, la macchina fotografica, il portafoglio con la foto di mia madre e mia moglie, la penna e tutti gli altri oggetti che avevo nelle tasche.
Così feci gli altri giorni.
La colazione era data dalla donna che allattava, il pranzo o la cena me la procuravo da solo.
Le donne che abitavano con me, non mangiavano quello che mangiavo io.
Un giorno ero sulla soglia della grotta quando udii un suono.
Mi sembrava fosse un suono di un corno.
Il suono veniva da lontano, ma si stava avvicinando.
Ad un dato momento vidi uscire dalle grotte, degli uomini, che conducevano delle ragazze.
Le ragazze non meno di dieci ogni uomo, seguivano gli uomini spontaneamente, si muovevano come se fossero addormentate.
Misero queste donne in un recinto.
Riconobbi tra loro, due donne che erano nella grotta dove abitavo.
Presi una donna per un braccio e scutendola le chiesi, cosa stava succedendo.
Quella indico le donne nel recinto e poi quelle sulle graticole, poi portandola mano in bocca, si mise a masticare.
Capii che quelle donne sarebbero finite sulla graticola.
Nò! Non avrei permesso una cosa simile.
Presi la clava e corsi verso il recinto.
Con una botta feci saltare il lastrone che ne bloccava l’ingresso.
« Fuori! Uscite tutte fuori. » Le donne non si mossero.
Mi guardavano, ma, non si muovevano.
Erano arrivati una decina di uomini.
Erano come quelli che vivevano dove vivevo io, solo che erano arrivati da lontano.
Come mi videro, si fermarono. Parlavano tra loro e mi indicavano.
Uno di loro invece di venire verso di me, andò a parlare con gli uomini che avevano condotto lì le donne.
Quelli vennero verso di me cominciando a parlare tutti insieme.
Non capivo quello che dicevano.
Mostrando la clava feci capire che, il primo che si fosse avvicinato, lo avrei colpito con la clava.
Invece di avvicinarsi, cominciarono a raccogliere delle pietre.
« Un momento! Un conto, uno scontro a tu per tu, un altro, con i sassi. »
Se avessero cominciato a lanciarli, io con la clava non avrei fatto granché.
Lasciai la clava e presi tre sassi.
Due li tenevo con una mano, l’altro con la mano destra pronto ad essere lanciato.
Ci avrei senzaltro rimesso io, ma non mi andava di cedere senza combattere.
Nessuno fece la prima mossa.
Ci guardavamo in cagnesco, ma nessuno cominciò il lancio.
Chissà quanto sarebbe durata quell’attesa.
Ad un certo punto uscì da una grotta un uomo e mostrandomi le mani, venne verso di me.
Cominciò a parlare. A parlare con calma.
Anche se non capivo quello che diceva, mi sembrava di capire, quello che intendeva dire.
Lasciai cadere i sassi e lo seguii.
Andammo nella sua grotta e bevemmo una tazza di quel liquore tanto forte che, bisognava berlo a piccoli sorsi.
Non guardai verso il recinto.
Quando lo feci, lo vidi vuoto e gli uomini venuti da lontano erano spariti.
Finito di bere, mi accompagnò a fare un giro.
Visitammo trenta grotte abitate. In alcune c’erano solo donne.
Più che donne, mi sembravano bambine.
C’era solo un uomo, in ogni tre grotte.
Bambini, pochi, ne potei contare non più di cinque.
Alla fine tornammo nella sua grotta, dove bevemmo un’altra tazza di liquore.
Jò ( nome che diedi all’anziano ) mi raccontò; più con gesti che con parole o per lo meno pensai di aver capito, che: da quando si ricordava, c’erano state sempre più femmine che maschi e data la scarsità di animali, avevano preso a mangiare le donne delle altre tribù.
Le tribù erano quattro, poste ai quattro lati.
Mi diede i nomi delle tribù (che non capii) ma da come indicava, poteva essere: la tribù del Nord, la tribù dell’Ovest, la tribù dell’Est e la tribù dove eravamo, del Sud.
Era un popolo pacifico, vivevano da sempre in pace; scambiandosi le donne per
mangiarle.
Non c’erano nomi tra loro, i maschi erano Uomini (anche i bambini), le femmine, Donne e le donne delle altre tribù, erano chiamate Loro.
« Ma perché cuocerle vive? »  aprendo le mani, non mi seppe rispondere.
Era sempre stato così.
Non esistevano legami tra uomini e donne, come marito e moglie.
Le donne erano feconde, ogni sei mesi.
Il mese prima di entrare in calore (come le bestie), insieme agli uomini cominciavano a mangiare,
mangiavano, mangiavano, per tutto il mese.
Passato il mese, cominciavano a strillare e ogni uomo le  prendeva, passando da una donna all’altra, senza smettere per mangiare o dormire.
Una volta terminato il calore e cominciata la gestazione non si potevano prendere.
La gestazione durava sei mesi e l’allattamento altri sei.
Partorivano solo una volta, finito il periodo dell’allattamento, venivano date alle altre tribù.
Ogni nascita di un figlio maschio era festeggiato.
L’uomo era cacciatore e procreatore, la donna doveva sottostare all’uomo, fargli i figli, allevarli e preparare da mangiare.
Era la donna che si occupava di preparare il cibo..
I nemici delle tribù erano gli animali.
Gli animali attaccavano e mangiavano i loro piccoli e loro uccidevano gli animali che poi davano a mangiare alle donne delle altre tribù.
Domandai del comportamento delle Loro.
Alle donne che venivano date alle altre tribù, veniva dato da bere a loro insaputa, una bevanda che le rendeva in quello stato, facevano tutto quello che gli si chiedeva e non reagivano neanche quando venivano spellate e cotte.
Le femmine che nascevano dall’unione degli uomini, una volta cresciute e in calore, venivano prese da qualunque uomo, si fosse trattato anche del padre.
Quando avevo ucciso l’uomo che mi aveva catturato, non venni ucciso per scarsità di maschi; presi il posto dell’uomo ucciso con tutti gli effetti.
Gli chiesi se sapeva dove ero stato catturato?
Lo sapeva e me lo indicò.
Quando ci andammo, vidi che si trattava di una enorme caverna il cui tetto non si
vedeva.
Le pareti erano a terrazze e tutte ricoperte da qualcosa che, lì per lì, scambiai per muschio.
Non c’erano sentieri per salire, bisognava solo arrambicarsi.
Non avendo l’attrezzatura (corde e chiodi), sarebbe stato un suicidio arrampicarsi.
Dovevo trovare un’altra uscita.
Purtroppo non essendo come loro, non mi lasciavano mai solo.
Avrei dovuto aquistare confidenza, cominciando a imparare il loro linguaggio.
Quando parlavo l’italiano e il (vattelapesca) facevo ridere; piano piano parlai sempre meglio, dimenticando la mia lingua d’origine.
Per i denti si risorse facendomi una dentiera fissa.
Non era una dentiera con denti, ma due placche lisce di resina nera, che una volta secca, non mi si staccò più dalla bocca.
Per i vestiti (i miei erano ridotti a brandelli), mi fecero stendere su una pelle di un uomo morto a cui era stata tolta prima di essere cotto.
Con una crema in cui era cosparsa (doveva essere colla), me l’applicarono sopra
la mia, trasformandomi in uno di loro.
Prima che chiudessero la pelle sul d’avanti, misi all’altezza del cuore il mio portafoglio, in cui oltre ai miei documenti, conservavo la “memoria” della macchina fotografica, in cui c’era tutto quello che avevo potuto fotografare, prima dell’esaurirsi delle batterie.
La pelle era identica a quella dei scimpansè, gli mancava solo la coda.
Le unghie delle mani, come quelle dei piedi erano tetreattibili (come quelle dei gatti).
Le mie non lo erano, perché appartenevano ad uno scimmione morto.
I miei piedi si adattarono ai suoi piedi, che sostituirono le mie scarpe.
All’inizio la mia seconda pelle mi dava fastidio, (prurito), non facevo che grattarmi, poi o ci feci l’abitudine e si abituò la mia vera pelle.
In quella enorme caverna, era caldo o umido.
Era caldo quando fuori faceva caldo, era umido e piovoso, quando fuori pioveva.
Anche se le grotte erano piene di pellicce, quando doveva essere la stagione delle piogge, faceva freddo e il tossire continuo delle bambine non mi lasciavano dormire.
Decisi di costruirmi una casa vicino al fuoco.
Me lo sconsigliarono, dicendomi che: ogni tanto cadeva una pietra dalla volta (che non si vedeva) e se prendeva qualcuno, lo uccideva.
Non dando retta e con l’aiuto di altri uomini, mi costruii una casa di pietra.
Il tetto era fatto di una sola lastra di pietra, tanto pesante che ci vollero più di cinquanta uomini per sollevarla e poggiarla sulle quattro pareti.
Non ci volle venire ad abitare nessuno, per paura.
Ci passavo tutto il periodo delle piogge e la lasciavo solo quando cominciava a far caldo.
Qualche volta ho sentito cadere qualche pietra sul tetto, ma era tanto spesso che non si rompeva.
Cominciai a visitare le grotte abitate e poi quelle vuote.
Tutte avevano una fine o fori per il passaggio delle bestie.
Trovai anche delle grotte che erano state scavate dal sale.
Il sale abbondava, lo si usava in abbondanza per il cibo cotto e per consevare la carne e le pelli.
Tornai più volte nella grotta dove ero caduto e alle volte provai ad arrampicarmi.
Per tutti ero considerato; un diverso.
Diverso in tutto; da quello che mangiavo e quello che facevo.
Tirai tante fotografie.
Volevo memorizzare la prova di dove mi trovavo e le persone che erano con me.
La preoccupazione mia erano le batterie; sia della macchina fotografica, che, del telefonino.
Il telefonino lo usavo una volta al giorno; per vedere se c’erano messaggi e per mandarne uno a mia moglie.
All’inizio avevo messo paura quando tirai la prima foto, poi tutti cominciarono a prenderci l’abitudine che si lasciavano fotografare.
Fotografai pure le donne che venivano prima spellate e poi cotte vive.
Era una crudeltà quello che facevano, ma, da solo non potevo farci niente.
Dato che ero diventato anchio cacciatore, avevo imparato a lanciare i sassi, la lancia, la scure e la clava.
Tutto era fatto con la pietra.
In quel posto non crescevano vegetali; a parte i funghi.
I funghi crescevano in un solo posto. Erano funghi enormi.
Una volta mi ci trovai in quel posto; sembrava una foresta, ce ne erano di tutte le
specie.
Nessuno mangiava i funghi.
Da alcuni funghi si faceva il liquore e la bevanda che annebbiava la mente.
Un giorno, al vecchio Jò regalai il mio orologio e lui mi regalò una collana fatta di ossi che a me sembrava fatta da ossa delle dita di qualche piccolo.
Le ore non avevano senso.
Ci si alzava quando qualcuno ti svegliava, mangiavi quando avevi fame, dormivi quando avevi sonno.
Con il vecchio Jò e altri cacciatori ero stato dalle altre tribù e oltre alla meraviglia delle donne e dei bambini, ero sempre trattato come un ospite di riguardo.
Mi permisero perfino di visitare le loro grotte.
In una di queste, feci una scoperta.
La grotta era il salita.Non era una salita ripida, ma era sempre in salita.
Un giorno la esplorai.
Senza lucerna, potevo inoltrarmi solo di pochi metri.
Con la lucerna, feci molta più strada; e più camminavo e più sentivo l’aria diversa da quella che si respirava nelle grotte.
Sicuramente, c’era un’uscita.
Dovevo arrivarci, solo che: la lucerna non aveva una lunga durata.
Parlandone con Jò e disegnandolo per terra, mi feci costruire una torcia (di pietra), nella cui cavità potevo mettere un bel pó di liquido.
Con la torcia camminani molto di più, tenendo però d’occhio il livello del liquido.
Per vedere dove andava a finire, avevo bisogno di una riserva.
Dove la potevo tenere, la riserva?
La torcia di pietra pesava già di per se.
Sperimentando varie cose, alla fine trovai la soluzione.
La soluzione, venne dal gambo di un fungo secco.
Ogni volta che potevo, percorrevo la grotta sempre più a lungo.
Sentivo l’aria pura, diversa di quella che si respirava in quel mondo.
Ma per quanto salivo, non arrivavo mai alla fine.
Dopo ogni escursione, potevo sapere quanto liquido avevo bruciato e quanto me ne dovevo procurare.
Fu un terremoto a darmi l’ultima spinta.
Quando la terra cominciò a tremare, corsi alla grotta e servendomi di tutto il liquido rimediato e una torcia, presi a salire, salire, salire.
Anche quando la luce si appagò, continuai a salire con le mani avanti; fino a quando vidi la luce esterna.
Lontana ancora, ma visibile.
Ero quasi arrivato all’uscita, quando sentii l’acqua scorrermi tra i piedi.
Doveva trattarsi di un fiumiciattolo.
Ad un certo punto scivolai e andai sott’acqua.
Riemersi più in la di dove stavo prima.
Ero tornato nel buio.
Risalendo la corrente e cercando appigli con la mano destra, ritornai dove c’era la luce.
Cercando di non scivolare di nuovo e muovendomi controcorrente arrivai all’uscita.
Fuori era tutto diverso di dove stavo prima di perdermi tra le grotte.
Non conoscevo il posto.
Stavo su un monte; lo si capiva, perché guardando in basso vedevo una grande strada e scorrere delle macchine.
Per avvicinarmi ad un centro abitato, dovevo trovare qualcosa da mettermi addosso. Coperto con quella pelliccia bianca avrei attirato attenzione e forse ucciso; scambiandomi per un mostro.
Aggirandomi per la boscaglia, incontrai una capanna in legno e lamiera.
La porta era chiusa con un lucchetto.
Servendomi di una grossa pietra, riuscii a farlo saltare.
Dentro trovai i vestiti da boscaiolo.
Erano molto grandi.
Comunque li indossai, come anche gli stivali di gomma.
Cominciai a scendere e quando vidi le prime case, mi fermai e aspettai che scendesse la notte.
Al buio era più difficile che qualcuno mi vedesse.
Quando entrai nel paese, seppi dove stavo e dove mi dovevo dirigere per arrivare a casa mia.
Stava andando tutto bene, quando fui fermato da una macchina della polizia.
Cercando di tenere il viso basso, coperto dal cappuccio dell’incerata.
« Come ti chiami? »
Stavo dicendo: « Italo Bianchi » quando dalla bocca mi uscì un suono che non aveva senso.
« Mi mostri i documenti! »
Preso dal panico, saltai la divisoria della strada e cominciai a correre per il campo.
« Fermo o sparo! »
Non mi fermai, continuando a correre, fino a quando una pallottola mi prese ad una spalla.
Spinto dal colpo caddi e rimasi a terra fino a quando un poliziotto mi si avvicinò.   Potete immaginare lo stupore quando mi abbassò il cappuccio.
Chiamò il suo compagno dicendo di chiamare una autombulanza.
Mentre aspettavano l’autombulanza, un agente chiamò la centrale: « Abbiamo preso uno strano tipo, sembra più un animale che un uomo. »
Quando arrivò l’autombulanza c’era un’altra macchina della polizia e i poliziotti erano venuti per vedere quello strano tipo.
Capivo tutto quello che dicevano, solo non riuscivo a farmi capire.
Arrivai all’ospedale coperto con un telo per non mostrarmi alla gente.
Il chirurgo che mi doveva estrarre la pallottola, mi fece sistemare in una stanza isolata.
Anche se mi fece male, quello che dicevo, non avevano ne consananti, ne vocali.
Quando mi svegliai, stavo in un letto e nella stanza oltre a quattro medici, non c’era nessuno.
Sentivo che dicevano: « Dall’analisi del sangue, risulta dal DNA che non appartiene alla razza animale, ma ad un essere umano. »
Ad un certo punto, una dottoressa mi si avvicinò per esaminare la mia bocca, quando con una mossa improvvisa gli tolsi la cartella che aveva sottobraccio e una penna che aveva in mano.
Prima che potessero recuperare la cartella e la penna, ero riuscito a scrivere:
« Mi chiamo Italo Bianchi e sono di Villavallelonga ».
Uscirono tutti insieme dopo chissà cosa aveva fatto, tornarono di nuovo.
« Il signore capisce quello che diciamo, ma non parla la nostra lingua, perché? »
Con i gesti chiesi della carta e una penna, su cui scrissi: « In che anno siamo? »
Si guardarono tra loro e dissero contemporaneamente: « Nel 2019 » ed io facendo i conti con le dita, scrissi: « Ho vissuto dieci anni sottoterra con gente che aveva questa pelliccia » toccando i ricci che avevo sul petto.
« Come mai avete passato tanti anni sottoterra? »
Scrissi e feci vari disegni: del monte, del cinghale, della tana, del percorso e della caduta.
Di tutto quello che avevo fatto, della dentiera persa e quella che avevo in bocca, della pelliccia che mi ricopriva, del portafoglio con i miei documenti (che sentivo sempre al posto suo) e della “ Memoria “ fotografica in cui c’erano le foto che avevo fatto, fino a quando le batterie si erano esaurite.
La mia storia, q uello che mi era accaduto, le foto, fecero il giro del mondo e dopo tanti anni, rividi mia moglie.
Quando uscii dall’ospetale, rividi mia moglie ( lì nell’ospetale, riuscirono a levarmi  la  pelle  dei  piedi, ma dal corpo no; rasarono i peli, che mi coprivano,
 lasciando solo quelli della testa per non rimanere calvo ).
 Mia  moglie,  dopo  l’ultimo  messaggio  che  gli avevo inviato, prima di entrare
 Nella tana seguendo il cinghiale, aveva telefonato alla polizia; questi dopo di essere stati nel posto, avevano chiesto aiuto ai pompieri.
Un giovane pompiere (legato ad una fune) si introdusse nella tana, arrivando fino all’abisso.
Fece segnale per farsi tirare fuori.
Una volta uscito fuori disse che, se io fossi caduto nel vuoto, non potevo essere sopravissuto, ne il mio corpo sarebbe stato trovato, dato anche al rumore dell’acqua che si sentiva scorrere.
Tra le lagrime (non sapendo parlare nessuna lingua conosciuta), scrissi a mia moglie; « Ti amo, ti amai sempre in tutti questi anni che stavo lontano ».
Al ché lei mi disse: « Anche io ti Amo e ti ho amato anche se stavi lontano e ho sempre pregato il Signore per farti tornare da me » dette queste parole; mi baciò.
Mi invitarono per una intervista televisiva.
Tutti volevano vedere l’uomo, che aveva vissuto dieci anni sottoterra e sentirei l mio modo di parlare.
Mi misi di fronte ad un computer e scrissi: « Quello che direi, sarà incomprensibile. Nel loro linguaggio, non esistono né consonanti ne vocali, ve lo assicuro. Ora nel loro linguaggio, ma scrivendo vi faccio un riassunto di quello che mi successe in tutti questi anni.
 Eravamo nel giorno 29 di Aprile del 2009, quando un giorno di sole decisi di fare una camminata in un monte, che stava vicino a dove abitavo...»
Quando mi domandarono: « Ma perché mangiavano le donne, cuocendole ancora vive? »
Risposi: « Questa domanda la feci anche al vecchio saggio, al quale diedi il nome di Giovanni, e lui mi rispose che non lo sapeva; che era stato sempre in quella maniera. »
Dopo continuai a raccontare e…….mi svegliai!


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