segunda-feira, 19 de agosto de 2013

Sogno n.30 Il Factotum anno 2008

 
Mi svegliai all’ospedale con la testa fasciata e non sapevo come ci ero andato.
Quando mi svegliai, qualcuno chiamò il medico di servizio e con una cartella in mano mi domandò come mi chiamavo eccetera eccetera.
Mi sforzai ma, non ricordavo nulla.
Chiesi come ero finito in ospedale.
Il medico lesse la cartella e disse che la polizia mi aveva trovato ai margini della strada svenuto, avevo contusioni in tutto il corpo e una ferita dietro la nuca.
Ero nudo e la polizia capì che ero stato aggredito e derubato di tutto.
Per quanto mi sforzassi, oltre a ricette, non ricordavo altro.
Venne una guardia che, mi fotografò e mi prese le impronte digitali.
Restai in ospedale non sò quanto tempo dopo essere guarito.
Non venne nessuno a riconoscermi e stavo lì senza far niente.
Alla fine mi stancai e come colsi l’occasione fuggii.
Vagabondai senza meta.
Mi attiravano i ristoranti, ma nessuno mi volle assumere, così finii per cibarmi di quello che trovavo nei rifiuti fuori dai ristoranti e dormendo dove capitava.
Avevo girato diverse città senza trovare lavoro.
Come mi vedevano, mi cacciavano.
Ero sporco e avevo i capelli e la barba lunga; un vero barbone.
Una sera mi aggiravo fuori di una città e fui attirato da delle voci.
Mi avvicinai e fuori di un ristorante, una donna parlava con un uomo.
« Non puoi lasciarmi, proprio oggi che è domenica e il ristorante è pieno, dove lo trovo un altro cuoco a quest’ora? »
« Questi sono affari tuoi, le mie condizioni le sai; o mi dai quello che voglio o vado via? »
« Sai che non posso, lo sai gli affari non stanno andando bene e ho un sacco di debiti da pagare. »
« A me non importa niente dei tuoi affari, io penso ai miei. Se non mi dai quello che voglio vado via. »
Vedendo che la donna non disse nulla, l’uomo salì in macchina e andò via.
« Mario, Mario, non mi lasciare. » e si mise a piangere rientrando dentro.
Feci il giro della casa e dove sapevo che c’era la porta di servizio, dove c’erano i secchioni dei rifiuti, abbassai la maniglia ed entrai.
Mi trovavo nel retro della cucina e avanzando, ci entrai.
Nella cucina c’era un cinese in grembiule e con le maniche arrotolate.
Vidi su uno sgabello, un grembiule bianco e un cappello dello stesso colore.
Indossai il tutto e portandomi al lavatoio mi lavai e insaponai le mani, poi mi avvicinai ai fornelli.
Lì vicino attaccati a un gancio c’erano dei fogli, li presi e lessi.
Erano ordinazioni.
Presi il primo e cominciai a cucinare.
Finito  di  preparare  il  piatto,  lo  diedi  al  cinese  dicendo: « Al tavolo quattro!»,  poi prendendo il secondo, tornai ai fornelli, così via, via che finivo, il cinese e una ragazza portavano via i piatti consegnandoli ai rispettivi tavoli.
Ad un dato momento, la ragazza disse: « Ma tu non sei Mario, chi sei? »
« Senti ragazza, adesso non perdiamo tempo in chiacchiere, ho tanti piatti da
preparare e tu mi dai impiccio. Tieni, portalo al tavolo 21. » allungandogli un vasoio la mandai via.
Il tempo passò e io non ebbi un attimo di sosta.
Ogni tanto su una carta scrivevo quello che mancava.
Oltre ai ringraziamenti dei commensali, non vennero più ordini.
Mentre cucinavo, mangiavo qualcosa, tanto per provare se era cotto bene.
Quando non arrivarono più ordini, mi tolsi il cappello e il grembiule e mi accinsi a lasciare la cucina, quando una voce mi fermò.
« Fermati! Non andare via. »
Mi fermai e alzando le mani dissi: « Non ho rubato niente! »
« Non ti volevo accusare di nulla, ti volevo solo ringraziare per quello che hai fatto, mi hai salvata da una brutta situazione che il signor Mario mi aveva lasciata. Mario era il cuoco che mi ha lasciata con il ristorante pieno di gente. Chi sei? Un angelo mandato dal cielo? »
« Non sono un angelo, mi chiamo Domingo e giravo da queste parti quando vi ho sentita parlare con quel signore che poi è andato via. Mi piace cucinare, così vi ho voluto aiutare. Ma ora tolgo il disturbo andandomene: »
« Se sei un cuoco e non hai lavoro, puoi lavorare per me. »
« Mi piacerebbe, ma cosa direbbe il signor Mario? »
« Mario, in confronto a te, è un incompetente, buono solo a fare pasticci e a chiedere soldi, sempre soldi...e, altro. Se accetti, Mario lo manderrò via e tu prendi il suo po-sto. »
« In questo caso, accetto. »
« Quanto vuoi per lavorare in questo ristorante? A Mario davo...»
« Niente, non voglio soldi. »
« Non vuoi soldi, ma, tutti vogliono soldi per lavorare. »
« Ho una allergia ai soldi, non li posso toccare, mi provocano prurito e se non li lascio, mi fanno venire bolle in tutto il corpo. »
« Se non puoi toccare i soldi, te li verserò in banca, dandoti una scheda di Multibanco per fare spese; spero non sia allergico alla scheda. »
« Non lo sò, ci posso provare. »
In quel momento eravamo soli. Il ristorante era chiuso e Cin Ciù Là era andato via.
La signora guardandomi disse: « Chi veramente sei? Dal tuo aspetto e il tuo vestito, sembri un fuggitivo. »
Sedendomi su uno sgabello gli raccontai la mia storia: Non sapevo chi ero, ed ero fuggito dall’ospedale dove ero ricoverato.
Il nome Domingo l’avevo inventato quando sentii la scignora dire che era Domenica.
La signora si presentò: lei era Maria Dolores Camacho e la figlia, Concita.          
Concita aveva 15 anni e la mattina frequentava la scuola superiore, la sera aiutava la madre al ristorante.
Lasciato il ristorante, in macchina ci dirigemmo verso una località e una volta giunti, con il telecomando aprì il cancello ed entrò in un giardino, dove fermò la macchina.
« In casa non abbiamo stanxe per gli ospiti, dormirai nella casa del custode. Una volta, quando c’era mio marito e le cose andavano bene, avevamo un custode-giardiniere e una donna di servizio, poi con la morte di mio marito, le cose cominciarono ad andare male e fummo costretti a licenziare la coppia che era al nostro servizio. »
Mi diede la chiave, poi lasciandomi lì, diresse la macchina dentro il garage e poi sparì con essa.
La casa del custode era vicino al cancello e servendomi della chiave entrai in casa.
Era ammobiliata, in cucina c’era la caldaia per l’acqua calda.
Pensai subito di farmi un bagno.
Non ricordavo quale era l’ultima volta che lo avevo fatto; probabilmente da quando stavo in ospedale.
Come entrai nella stanza da bagno cercai gli asciugamani; non li trovai e gli armadi erano vuoti, come pure i cassetti.
L’unica cosa che trovai era una tuta da meccanico o giardiniere.
Uscii dalla casa e mi diressi verso il villino padronale.
Quando arrivai vicino alla porta sentii parlare, e, dato che la finestra era aperta sentii che la figlia diceva alla madre: « Non sarà zio Domingo, il fratello di mio padre, ti ricordi, papà parlava spesso di suo fratello che era emigrato in Francia a Parigi e che faceva il cuoco. »
« Si mi ricordo, ma non può essere lui, non assomiglia per nulla a tuo padre. »
« Questo non lo puoi dire, con tutta quella barba che ha e quei capelli lunghi. »
A quel punto avevo sentito abbastanza, sarei diventato zio di Concita; poi battei alla porta.
Mi aprì la signora Maria Dolores.
« Mi scusi del disturbo, ma nella casa del custode non ci sono tovaglie e nulla per cambiarmi. Non avrebbe per caso qualche cosa smessa di suo marito? »
« Mi scusi lei, avevo ritirato tutto da lavare e mi sono scordata di rimettere tutto a posto. Se vuole aspettarmi un momento vado a prendere quello che necessita.»
E si ritirò nell’interno.
Mentre stavo aspettando, Concita mi domanda: « Sei mai stato a Parigi? »
Facendo finta di pensarci sù, dissi: « Mi sembra di si, non mi ricordo bene, però mi pare che fosse a Parigi dove ho lavorato. Mi ricordo un pó vagamente », ci pensai un poco, poi: « C’era un grande ristorante vicino a una casa da gioco che, aveva nell’insegna luminosa: un mulino rosso, non sò se era Parigi o Berlino o un’altra città. »
« Ti dice niente il nome Domingos? »
« Il nome oltre ad averlo sentito dire da tua madre, mi ricordava qualcosa, ma non sò cosa; mi dispiace, perché vuoi sapere questo? »
« Perché  a  Parigi  ci  vive  mio  zio che si chiama Domingos ed è il fratello di mio padre. »
« Non sò se ti posso aiutare, fino a che non ricordo la mia vera identità, se vuoi, posso essere tuo zio, mi sarebbe piaciuto avere una nipote come te. »
Dai suoi occhi vidi che era felice di aver incontrato uno zio: anche se finto.
Tornò la madre con una bracciata di roba e una volta presala, diedi la buona notte e me ne tornai alla casa che per il futuro sarebbe stata la mia casa.
Feci la doccia, mi lavai ben bene, poi infilandomi il pigiama del signor Camacho me ne andai a letto.
Dormii come un ghiro.
Fu l’alba che mi svegliò.
Un raggio di sole entrava dall’imposta e mi batteva sugli occhi.
Mi alzai, andai al bagno, mi volevo fare la barba ma, non trovai l’occorrente e non volevo svegliare la signora Dolores.
Così dipo avermi lavato la faccia mi vestii e indossata la tuta uscii a fare un giro per la proprietà.
Dietro la casa del custode c’era un orto.
In quel momento nell’orto c’era solo erbaccia.
Andai alla ricerca e in un capanno trovai degli attrezzi agricoli.
Presi una zappa e mi misi a zappare il terreno e rimuovere le erbe infestanti.
Ero così preso dal lavoro, che non mi sentii chiamare.
Mi fermai solo quando Concita mi afferrò per una manica.
« Zio, è pronta la colazione, la mamma mi ha mandato a chiamarti. »
« Vengo subito, il tempo di cambiarmi. »
Una volta cambiato, mi diressi con (mia nipote) verso la casa.
« Buon giorno signora Dolores, dormito bene? »
« Sì grazie, si segga, ora le porto il latte e caffe. »
Una volta seduto diss: « Mi volevo sbarbare, ma non ho trovato nulla per poterlo fare, neanche una forbice. »
« Mi dispiace, dopo la morte di mio marito, ho dato tutto a Orazio; se non ha trovato nulla, si vede che Orazio quando è andato via, ha portato con sé tutto. Ma non si preoccupi, oggi è lunedì e il ristorante non apre, andremo in città e compreremo tutto quello che avete annotato ieri e quello che serve a voi. Mi ha detto Concita che vi siete messi d’accordo sul fatto che: fino a quando non ritroverete la memoria sarete suo zio: è vero? Poi ha detto che vi ha trovato a zappare l’orto del signor Orazio, oltre che cuoco, siete anche giardiniere? »
« Per essere diventato lo zio di Concita, mi fa piacere, per quanto riguarda l’orto, non sò se ero anche giardiniere; purtroppo non ricordo il mio passato; quando questa mattina sono uscito a fare un giro, come sono arrivato all’orto, non sò cosa mi ha preso. Si vede che nel mio passato, oltre che cuoco ero pure giardiniere, non sò che altro. »
Finito di mangiare, me ne tornai a riordinare la mia camera e poi quando sentii il clacson, uscii e salii in macchina nella parte di dietro, vicino a Concita.
Quel giorno Concita non volle andare a scuola, voleva stare vicino allo (zio).
Andammo in città e mentre loro compravano la roba ad un Centro Commerciale, io andai dal barbiere a farmi tagliare la barba e i capelli.
Per i capelli, li volli corti, la barba tutta rasata, salvo i baffi, alla Dartagnac.
Quando fui pronto, anche loro avevano comprato tutto e caricato in macchina. Dolores pagò il barbiere e poi si complimentò con me. Dicendomi: « Senza i capelli lunghi e senza barba, siete più bello e più giovane. Prima di tornare a casa, vorrei bere qualcosa al caffè qui vicino, venite anche voi? »
Una volta al caffè, la signora Dolores mi chiese se volevo prendere qualcosa.
All’impiegato del caffè chiesi: « Una Côte Azul. », lui mi guadò senza aver capito quello che volevo, allora alzandomi dal tavolino mi avvicinai al bancone e dopo aver guardato nei scaffali, feci il giro e mi portai dietro.
Presi lo shaker, la bottiglia di Marie Brizard, ne versai una quantità giusta, poi il succo di un pompelmo, dell’acqua tonica del ghiaccio e mi misi a scuotere, contando, con il pensiero  fino  a  venti.  Poi  presi  tre  bicchieri,  stretti  e  lunghi e versai in contenuto,
decorando i bicchieri con una fetta d’arancia e una ciliegia sciroppata.
Mentre stavo preparando quel cocktail, si erano avvicinati al bancone, la signora Dolores, Concita, il padrone del caffè e tutti i clienti che c’erano nel locale.
« Ecco potete bere; è poco alcolico, è dissetante, lo può bere pure Concita, non le farà male, e, dopo si sentirà ancora meglio. »
Mentre bevevamo i nostri cocktail, il padrone avvicinandosi, volle provare quello che era rimasto nello chaker.
« È buono, non ho mai bevuto una cosa simile, come si chiama? »
« Côte Azul »
« Côte Azul? Il nome non è spagnolo, sembra francese. »
« Si! È francese, mio zio lavora in Francia, a Parigi, è un gran cuoco e ci è
venuto a trovare », disse Concita.
Fatte queste presentazioni, il padrone del caffè mi chiese se volevo lavorare per lui.
Gli risposi: « Lavoro già al ristorante di mousier Bonné, ora sono in ferie e dò una mano a mia cognata al ristorante. Ieri è rimasta senza cuoco e fino a che ne trova un altro, lo sostituisco io. »
Non avevo finito di parlare che nella sala si alzò una voce: « Chi ha detto che la signora Dolores non ha un cuoco, ci sono io, ho lavorato per lei da anni e sono stato sempre mal pagato. »
« Non è vero! Hai preteso di più di quello che ti spettava e andandotene via ieri, ti sei licenziato da solo, nel mio ristorante non ci lavori più. » gridò la signora Dolores.
« Non finisce così, sentirete ancora parlare di me...» e andò via.
Carlos era il padrone del caffè volle sapere quanto mi sarei trattenuto a...
« Ho preso tre mesi, se mia cognata è d’accordo potrei venire da voi il lunedì, dato che il lunedì il ristorante rimane chiuso. »
« D’accordo, e per il compenso, quanto volete? »
« Niente, non voglio niente. »
« Niente, è impossibile non volere niente. »
A quel punto la signora Dolores si avvicinò a Carlos ma non capii quello che gli disse.
« Allora d’accordo, la signora Camacho vi manderà da me il lunedì pomeriggio e lavorerete come barman fino alla chiusura, per il compenso, sono rimasto d’accordo con la signora Camacho. Ora se non vi dispiace vorrei che preparaste qualcosa per i miei amici che da anni frequentano il mio caffè e di certo non hanno mai bevuto quello che avete preparato oggi. »
Lavorai qualche ora, poi quando la signora Dolores mi disse che doveva tornare a casa, mi tolsi il grembiule e salutato da tutti, lasciai il caffè.
Tornati a casa, la signora Dolores mi disse: « Oltre che: cuoco, giardiniere, Barman, che altro sapete fare? »
« Non lo sò! Non mi ricordo nulla. Quando mi trovo in un posto, mi ritorna in mente quello che sò fare e lo faccio. Ora però la cosa più importante è dare la credulità alla mia veste di vostro cognato. Dobbiamo andare alla polizia a denunciare la perdita di tutti i miei documenti e tornarli a fare con il nome di Domingo Ventura. »
Facemmo quello che avevamo combimato e ci recammo al posto di polizia.
Alla presenza del funzionario di servizio, mi presentai: « Mi chiamo Domingos Ventura, sono cognato della signora Maria Dolores Camacho e sono arrivato ieri dalla Francia, dove lavoro. Sono venuto in treno, perché soffro di vertigini. Questa mattina mi sono accorto di non avere il portafoglio. Quando sono partito ce lo avevo, sul treno mi sono messo a dormire, non sò se mentre dormivo, mi hanno derubato, non me ne sono accorto. E ora come faccio? »
Il funzionario sentendo l’affermazione della signora Dolores, mi fece firmare la dichiarazione e di andare con la copia, alla Circoscrizione e chiedere i nuovi documenti.
Nella voce: Madre; ci mettemmo il nome di una donna defunta che poteva avere l’età di mia madre.
Così con i nuovi documenti, mi sentivo più tranquillo.
Tornammo a casa e volli preparare la cena.
Mentre cenavamo la signora Dolores disse: Domattina andremo alla pasticceria a ordirare i dolci per il ristorante.
« Perché ordinare i dolci? Li posso fare io. »
« Scusami! Oltre che cuoco e barman, sei anche pasticcere. Che altro sei? »
« Non lo sò. Piano piano i ricordi mi tornano alla mente. Per ora non ricordo altro. Questa mattina quando stavo nell’orto ho visto degli alberi da frutta. Il melo ha le mele, domani per colazione vi preparerò: la torta di mele con il zambaione, però ho bisogno della chiave di casa per usare la sua cucina. »
La signora dolores volle sapere cosa era il zambaione.
« Ve lo dirò dopo che avete mangiato la torta. »
Finita la cena, diedi la buona notte e me ne tornai alla casa del custode.
La mattina dopo di buon ora, andai a raccogliere un cesto di mele che portai in cucina dove mi chiusi dentro.
Quando la colazione era pronta aprii la porta, da cui dietro stavano: Dolores e
Concita le quali dopo aver mangiato due fette ciascuna, mi promossero a pieni voti.
Concita volle portare a scuola la torte rimasta.
Dopo aver lasciato Concita andammo al Supermercato dove comprammo quello che mi occorreva per fare i dolci, poi andammo al ristorante.
C’era già il cinese in attesa e dopo aver aperto, cominciammo a preparare i sughi per il pranzo.
Mentre si cuocevano, preparai le torte.
Lo Strudel di mele, torta di mele con crusca, torta con pinoli e il dolce di ricotta alla russa.
Il pranzo andò bene e grazie alla signora Dolores, fui complimentato.
Le torte erano quattro, se ce ne fossero state di più, le avrebbero consumate; perche, alcuni fecero il bis e altri vollero provare: una fetta di tutto.
Nel pomeriggio feci altre torte, ne feci due di ognuna.
Crostata di Kiwi, Torta di Linz, Tronco all’arancia, Torta di yogurt e cioccolato.
Alla apertura per la cena, Concita volle mangiare una fetta di tutto.
La sconsigliai; poteva farle male.
Ogni mattina a scuola portava delle torte avanzate per i compagni e qualche giorno dopo, le madri venivano al ristorante a prendere le fette di torta per i figli.
La domenica mattina, il ristorante era chiuso per il pranzo, apriva solo per la cena, così potevamo andare alla messa: usanza che non praticavano da chissà quanto tempo e che io gliene feci tornare la voglia, come la preghiera prima di mangiare.
Il lunedì seppi che c’era un trio musicale al caffè del signor Carlos.
Al caffè, quella sera c’erano anche la signora Dolores e Concita (gli avevo riservato un tavolino).
Stavo dietro il bancone a preparare i cocktail, quando il complesso si mise a suonare un tango.
Non seppi resistere, lasciato un cocktal in corso, mi tolsi il grembiule e invitai la signora Dolores a ballare.
Fu un altro successo; ad un certo punto eravamo solo noi sulla pista e finito il ballo, fummo applauditi.
Riaccompagnata al tavolo, la signora Dolores mi disse: « Un’altra cosa che non conoscevo; sei anche un ottimo ballerino. »
La serata non finì così.
Durante l’intervallo del complesso, lasciai il bancone e presa la chitarra, mi misi a (pizzicarla).
Quando ne presi confidenza, toccai una Siviliana.
Chi stava parlando tacque, chi stava bevendo rimase con il bicchiere a mezz’aria, tutti presi dalla musica.
Alla fine del pezzo, riconsegnai la chitarra al legittimo proprietario e me ne
tornai dietro il bancone.
Mi si avvicinò Carlos dicendo: « Non sò se ti devo trattenere come barman o come toccatore; qualunque cosa fai, fai un successo. Invidio tua cognata. Con un tipo come te, sarebbe un peccato lasciarti andare via. »
« Grazie per il complimento. Per ora rimango tre mesi, poi si vedrà. Potrei licenziarmi dal signor Bonné e trasferirmi qui. »
« A proposito: dove è la tua famiglia, perché non l’hai portata con te? »
Vedendomi imbarazzato, non mi volle pressionare, lasciandomi solo con i miei pensieri.
I pensieri erano tanti che oltre a non sentire le ordinazioni, non ballai più.
Alla chiusura mentre tornavamo a casa, la signora Dolores mi disse: « Ho sentito quello che ti ha chiesto Carlos, hai famiglia? »
Avevo gli occhi colmi di lacrime, che non volevano scendere e con la voce roca dissi: « Non lo sò, non ricordo più niente » e mettendomi un braccio d’avanti agli occhi, presi a singhiozzare.
Arrivati a casa, mi scordai di dare la buonanotte e me ne andai a quella che era casa mia.
La mattina, dopo aver preparato la colazione e mangiato, la signora Dolores mi disse di volermi fare un regalo.
« Che regalo? Non mi ricordo nemmeno quando sono nato. »
« Non è un regalo di compleanno, è un regalo speciale. »
Dopo aver lasciata Concita a scuola, la signora Dolores parcheggiò la macchina vicino a un negozio di strumenti musicali e portandomi dentro mi disse: « Scegli la chitarra che ti piace, te la regalo. »
Toccando le varie chitarre, alla fine ne presi una. Si adattava bene alla mia mano sembrava far parte del mio stesso braccio.
La sera al ristorante, quando ci fù un pò di calma, mi misi a suonare qualcosa.
Stavo in cucina, ma poi i commensali sentendomi suonare, mi vollero lì alla sala dove, dopo aver preso una sedia, mi misi a suonare quello che mi passava per la testa e a cantare.
Non dovevo aver la voce di cantante, ma gli altri non dovevano farci caso perche, ogni volta che finivo, venivo applaudito e mi chiedevano di cantare ancora.
Cantai in: Spagnolo, in francese, in tedesco, in italiano, in inglese e in americano una canzone Country che si intitolava: Tom Dooly.
Finito vollero che ne cantassi delle altre, li accontentai cantando: Is Anybody Goin’ to San Antone – There Wom’t Be Anymore  – Marie Laveau mentre suonavo e cantavo, con la fantasia, mi vedevo nel Far West.
Tornati a casa, Dolores non mancò di dirmi: « Non finisci di meravigliarmi, ti nominerò Factotum: Quello che sa far tutto. »
« Un momento, non tutto, ci sarammo pure cose che non sò fare. »
La mattina dopo, ne uscì un’altra.
Dolores si lamentava del mal di schiena.
Un dolore che non l’aveva lasciata dormire.
« Ci vorrebbe un massaggio, dovresti andare da un massaggiatore » dissi.
« Non ho tempo, tempo fa ci sono andata, ma poi vedendo che i dolori rimanevano, non ci sono andata più. »
« Dovresti fare i massaggi tutte le mattine, prima di colazione, ti garantisco; starai bene tutto il giorno. »
« Non ti dico niente, tanto immaggino sai fare anche i massaggi. »
Essendo ancora in camicia da notte le dissi di tornare in camera, poi ci andai anchio con un bicchierino d’olio di oliva.
Le dissi di voltarsi di schiena e sollevatole la camicia le tirai giù le mutandine.
« Che fai? Non mi lascio vedere nuda da un estraneo. »
« Per prima cosa non sono un estraneo e in questo momento non sono Domingos ma il tuo massaggiatore. Il tuo massaggiatore ti avrà vista nuda, anche se di schiena. »
« Si! Ma lui era un massaggiatore di professione e tu nò. »
« E come lo sai, che non sono un massaggiatore di professione. Se vuoi stare meglio, chiudi gli occhi e non pensare a me. »
Le calai le mutandine e presi a praticargli un energico massaggio, finito il quale, le ritirai su le mutandine e andai al bagno a lavarmi le mani.
Mentre facevamo colazione le dissi: « Ogni volta che pratico un massaggio, sotto di me non sta una donna o un uomo, ma una persona che necessita di un massaggio. Il sesso non lo vedo come un maniaco sessuale, ma come un medico e poi il nudo non è volgare, volgare è mostrare il sesso femminile o maschile in modo scostumato. »
Da quel giorno si lasciò massaggiare senza mostrare pudore, neanche quando la feci mettere supina per massaggiarle le ginocchia e le palme dei piedi.
Mai una volta sentii un’attrazione sessuale anche se era una bella donna.
Una volta dopo il massaggio, la signora Dolores si avvicinò a me e baciandomi, avvicinò il bacino contro di me.
Rimasi immobile, il mio sesso non rispondeva al messaggio.
Quando vide che non c’era niente da fare, mi chiese scusa per quello che aveva fatto e io le dissi: « Mi dispiace, c’è qualcosa in me che mi blocca, come se fossi sposato e non mi andasse di tradire mia moglie. Se almeno sapessi se sono sposato o no, sarebbe un’altra cosa, ma fino a che non lo ricordo, mi dispiace, non posso fare niente per darti il piacere che meriti. »
Andò avanti per un pezzo.
I tre mesi passarono e invece di andarmene, rimasi.
Dal martedì alla domenica, lavoravo al ristorante della signora Dolores, il lunedì al caffè del signor Carlos.
Sia al ristorante che al caffè, quando potevo prendevo la chitarra e cantavo le canzoni Country de Far West, che piacevano un pó a tutti.
Ogni tanto Concita mi accompagnava, come lo facevano anche i suoi compagni di scuola che venivano a sentirmi.
Una sera al ristorante c’era ad un tavolo un gruppo e una signora volle conoscere il cuoco.
Quando fui vicino al tavolo lei disse: « Ma tu sei Enrico Bottari, il più grande cuoco di Roma. »
Come mi chiamò, mi tornò alla mente la mia vera identità.
Come un velo che oscurava la mia mente, si dissolve, facendomi ricordare tutto.
« Mi dispiace deluderla, mi ha scambiato per un’altra persona, non sono mai stato a Roma, il mio nome è Domingos Ventura, sono nato qui, sicuramente sono il sosia del signor Enrico Bottari. Ogni tanti mi capita d’incontrare un amico che non vedevo da anni, ma quando mi avvicino e lo chiamo per nome, lui dice di averlo scambiato per un’altra persona. Mi dispiace averla delusa, devo tornare in cucina.
La signora Dolores aveva sentito tutto, ma non disse nulla fino a quando tornammo a casa.
« Ho sentito quella signora chiamarti Enrico Bottari. È il tuo vero nome? »
« No! Il mio nome è Domingos Ventura, sono tuo cognato, zio di Concita e non sono sposato. »
Mi abbracciarono tutte e due.
Da quel giorno il mio passato non esisteva più, mi trovavo bene nelle vesti di Domingos e nel letto di Dolores.
Non sarei tornato indietro.
Poi mi sono svegliato.
  

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