Il mio nome non è Leo, il mio nome se lo dovessi
scrivere, risulterebbe intraducibile. Il nome Leo mi fu dato dalla Dottoressa
Helen Smitt.
Il mio mondo si trova a dieci milioni di anni luce dal pianeta Terra.
Nel mio mondo gli abitanti assomigliano tutti a me
, se non si fa differenza dal colore del manto che ci copre.
Anni fa non ricordo quando, i capi dei vari
governi decisero di cercare in altre galassie se c’erano abitanti come noi; e
furono lanciate nello spazio varie sonde.
Una di queste sonde, giunse nel pianeta terra e
trasmise delle immaggini di vari territori in cui vivevano dei nostri simili.
Dopo tanto parlare fu approntata una astronave.
Partì, ma non fece più ritorno.
Gli ultimi messaggi parlavano di calore
insopportabile, fino a..poi nulla.
Modificarono la struttura di un’altra astronave;
ma anche questa, dopo tanti messaggi positivi, trasmisero, disgrazie
incombenti; e poi,...nulla.
E così via.
Una astronave dopo l’altra, fino a quando partii
con quella che mi portò nel
pianeta Terra.
L’astronave atterrò in una località dove il numero
dei nostri simili era più elevato e registrato che l’aria afosa era per noi
respirabile, fu mandata una Delegazione per parlare con il più alto grado,
della nostra visita.
Venendo in pace, la
Delegazione non uscì dall’astronave armata.
Io facevo parte di quella Delegazione.
Dopo aver percorso uno spazio di non saprei dire
quanto, raggiungemmo un gruppo.
Il più alto di grado del nostro gruppo si avvicinò
ad uno che dato l’aspetto, doveva essere un saggio anziano.
Si stava conversando del più e del meno, quando il
gruppo si mise in agitazione e si dispersero in varie direzioni.
Ricordo di aver sentito: « Fuggite, arrivano loro! »
Noi non sapendo cosa fare, rimanemmo lì dove ci trovevamo, in attesa di
questi loro.
I loro arrivarono con dei strani mezzi che si muovevano su ruote.
Come arrivarono ad una certa distanza, si fermarono.
Vidi degli esseri che si reggevano su due zampe, puntare certi oggetti.
Sentii dei scoppi e
quando vidi i miei compagni
cadere insangui-nati, non capii
più nulla e fuggii a zampe levate.
Fuggii, fuggii , non sò quanto.
Mi fermai solo quando non avevo più fiato per correre.
Loro non mi vennero dietro.
Dopo essermi orizzontato mi diressi dove era atterrata l’astronave.
Non arrivai sul luogo. Alte fiamme mi fermarono.
Il calore era tale, che mi si arricciavano i peli.
Spettai due giorni e quando il fuoco si spostò in
un’altra direzione, proseguii la corsa.
Arrivato sul luogo, non vidi l’astronave.
Dove erano?
Li cercai a lungo, alla fine mi convinsi che...mi avevano abbandonato.
Solo, in un mondo dove loro erano cattivi e volevano la nostra morte, che
potevo fare, come potevo vivere?
Per giorni e giorni vagai per il vasto territorio
unito ad un gruppo che mal vedevano la
mia presenza tra loro, e cibandomi dei resti che lasciavano.
Una volta sentii dire che, avrebbero attaccato una
proprietà che apparteneva ai loro, uccidendo e mangiando degli animali con
corna.
Tutto andò bene fino a quando attirati dai gridi
che mandavano quegli animali, arrivarono i loro.
Questa volta non me lo feci ripetere, come
fuggirono i miei occasionali compagni, fuggii anche io.
Loro non avevano gli oggetti che facevano rumore, ma bastoni che ci
lanciavano addosso.
Io non fui colpito, ma chi lo fu, non fu in grado
di fuggire e venne preso dai loro.
Un giorno ero solo, sperduto e affamato.
Ogni volta che mi avvicinavo a un animale a quatto
zampe, quello fuggiva ed io non avendo con me nessun arma, non potevo far altro
che restare a guardare e sentire i borbottii che emetteva il mio ventre vuoto.
Un giorno mentre stavo sdraiato ad aspettare la
mia morte, vidi un loro che cammi-nava tenendo una cosa rotonta sopra la testa.
Come mi passò accanto e mi vide, cadde a terra come morto.
La cosa che portava in testa si era rovesciata e
quello che c’era dentro aveva un buon odore.
Mangiai con voracità e una volta sazio mi avvicinai
a quel loro che stava disteso.
Quello aprì gli occhi e lessi il suo pensiero, era di un linguaggio da me
sconosciuto, ma dopo una lunga ricerca, riuscii a comprendere il significato:
« Non mangiarmi! »
Veramente non avevo mai mangiato esseri a due gambe e poi ero sazio di
quello che avevo trovato in quella cosa rotonda.
Mi sollevai e dopo avergli leccato il viso mi allontanai.
Dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse.
Quelli della mia razza non capivano niente.
Parlavano solo di cacciare e accoppiarsi.
Parlavano anche di quegli esseri che si reggevano su due zampe, li
chiamavano uomini.
Gli uomini erano cattivi, le donne: (quelle che si accosciavano per
urinare), per lo più, non lo erano.
Come riconoscere quelle che erano cattive da quelle che non lo erano?
Per vari giorni, osservai da lontano il comportamento di quei esseri.
Gli uomini portavano degli oggetti che facevano rumore.
Un giorno vidi un mezzo che si muoveva su ruote.
Ogni tanto si fermava e una donna puntava qualcosa che non faceva rumore e
non ammazzava a chi puntava quella cosa.
Quella doveva essere una donna buona.
La dovevo avvicinare.
Seguii quel mezzo fino a quando entrò in uno spazio in cui c’erano cose strane.
La donna scese dal mezzo e entrò in una di quelle cose.
Non potendomi avvicinare con il chiaro, aspettai il buio.
Senza fare rumore e accucciandomi ogni tanto, entrai nello spazio.
rumore, giravano intorno allo spazio o stavano vicino a dei fuochi.
Avendo individuato la cosa in cui la donna era entrata, trovata una
apertura entrai.
La donna stava sdraiata su una cosa sollevata da terra e circondata da una altra
cosa trasparente.
Senza far rumore, scostai quella cosa e mi avvicinai alla donna.
In quel preciso momento la donna aprì gli occhi e fece per strillare (lo
avevo già visto fare da uomini e da donne, quando aprivano la bocca emanavano
dei versi acuti che offendevano l’udito).
Per evitare che emettesse quei versi, le misi la
zampa anteriore destra, sulla bocca.
Lei si divincolò, ma io la gravavo con il mio peso
e col pensiero le parlai : (stavo usando lo stesso linguaggio che aveva usato
la donna che aveva incontrato prima).
« Non strilli, non voglio fare del male, io non
sono come gli altri. Se tolgo la zampa dalla bocca, mi promette di non
strillare? »
Lei mosse la testa, in su verso giù (conoscevo quel movimento ).
Le tolsi la zampa dalla bocca preparandomi a riportargliela se l’avesse riaperto .
Lei non l’aprì, ma con la mente mi disse di togliermi di dosso.
Lo feci e mi accucciai vicino.
« Tu hai parlato la lingua dei zulù, io sono
abituata a esprimermi in inglese, conosci l’inglese? »
Era una lingua tra tanti milioni che avevo imparato.
Le risposi con lo stesso linguaggio.
« Come mai conosci la mia lingua? »
« Quando stavo nella mia terra, sin da piccolo ho
appreso tanti linguaggi perché chi ci insegnava diceva che dovevamo apprendere
a parlare tutti i linguaggi conosciuti e sconosciuti ».
« Di quale terra parli? »
« È una lunga storia, se vuoi te la racconto. Forse ti potrà sembrare
inverosimile, ma è vero quello che ti dirò.»
Le raccontai tutto, dalle varie spedizioni nello
spazio alla procura di altri esseri come noi, fino all’arrivo sul pianeta Terra
e quello che era successo una volta sbarcato e dall’abbandono dai compagni
rimasti sull’astronave. Ero solo, in un mondo che non conoscevo, abitato da
esseri che uccidono i nostri simili, avevo paura di fare la stessa fine, avevo
paura, volevo tornare sul mio mondo.
Mentre parlavo, sentivo scorrermi dagli occhi il
liquido, che poi appresi di chiamarsi "lacrime".
La donna mi accarezzava la testa affettuosamente,
mi piaceva quel tocco. Lo faceva anche mia madre quando ero piccolo.
La donna mi disse di essere una dottoressa che
studiava il comportamento degli animale (erano quelli come noi che avevano i
peli che li ricoprivano e altri che permettevano di levarsi in aria).
Studammo quello che avremmo fatto l’indomani.
Mi sarei fatto catturare vivo.
Nonostante avessi paura di venire ucciso, accettai.
Prima di lasciarci, le dissi che avevo fame.
Quel giorno non avevo mangiato nulla e avevo visto
entrando nello spazio
un’animale che stava sollevato sul fuoco e che mandava un buon odorino.
Intorno al fuoco c’erano degli uomini di pelle scura, con gli oggetti che
facevano rumore.
La donna che si chiamava Hellen mi disse di uscire dal campo dal lato
opposto, poi emettere vari ruggiti (i versi che emettevano i miei simili).
Gli uomini sarebbero corsi verso quella parte.
Nel buio avrei fatto un giro portandomi verso il fuoco.
Lei mentre i guardiani mi davano la caccia avrebbe preso della carne e me
l’avrebbe gettata.
Dopo averla ringraziata, uscii e feci quello che mi aveva detto di fare.
Andò tutto bene e potei solleviare la fame.
Il giorno dopo mi recai nel luogo dove era stata preparata la trappola.
C’era un piccolo animale legato ad un palo. Dopo essermi guardato attorno
mi diressi verso quell’animale.
Ogni tanto mi fermavo, stando attento ai rumori che mi circondavano.
Avevo individuato gli uomini nascosti.
Feci finta di non averli visti e poco dopo mi avvicinai a quell’animale
legato.
Come gli arrivai vicino, mi sentii sollevare e nonostante i miei sforzi,
non riuscii a liberarmi di quella cosa che mi avvolgeva
Ad un dato momento sentii una pungicata al fianco sinistro e mi sentii
sprofondare in un tepore simile alla morte.
Il mio ultimo pensiero fu: « Sono morto ».
Mi svegliai dentro una cosa che aveva delle
aperture che però non mi permettevano di uscire; ed erano resistenti,
nonostante i miei sforzi non si rompevano.
Dopo vari tentativi ci rinunciai. Avevo le spalle doloranti.
C’erano tanti esseri: grandi e piccoli che mi guardavano ad una certa
distanza.
Cercai di farli scappare con dei forti ruggiti.
Non si mossero, erano al sicuro da me, io stavo in una cosa da dove non poteva scapare. Con una cosa a
punte, mi diedero da mangiare.
Non aveva lo stesso sapore di quella che avevo
mangiato la notte prima, ma in mancanza di altro, mangiai e bevvi il liquido (di
nome acqua).
Dopo vari giorni di permanenza al (campo), la cosa (gabbia) fu sollevata e
posta su un mezzo con ruote che si mossero.
Con me c’erano altre (gabbie) con altri animali.
Arrivammo in un posto dove non c’erano (alberi) ma altri strani mezzi
(aerei).
Vennimmo caricati su uno di quei mezzi e poi attorno fu tutto buio.
Si sentivano versi di tanti altri animali.
Chissà dove ci portavano?
Sentii uno scossone e una sensazione di stare senza aria.
Seppi poi dalla dottoressa Hellen, che eravamo volati dalla terra dove ci
avevano catturato, chiamata Africa e eravamo atterrati in un’altra terra che si
chiamava America.
Una volta arrivati, venimmo separati.
I miei compagni di viaggio non li rividi che non dopo tanti anni.
Io fui portato in un posto pieno di alberi.
Stavo sempre in quella (gabbia); non mi piaceva, volevo uscire.
A nulla valsero le mie richieste di aiuto.
La dottoressa era sempre con altre persone vestite di bianco che mi
giravano attorno.
Decisi di fare lo (sciopero) della fame.
Cominciai a non mangiare e non bere; neanche quando avevo fame e i (cibi)
mandavano un buon odorino.
La dottoressa mi parlava (col pensiero): « Perché non mangi? »
« Perché voglio uscire da questa (gabbia) e
cercare il modo di mettermi in contatto con i miei per lasciare questo mondo,
che non mi piace. Se non mi fai uscire, mi lascerò morire e tu sarai
responsabile della mia morte »
Un giorno non riuscivo a stare in piedi e gli occhi
mi si chiusero: « Sono morto».
Non lo ero, mi risvegliai in una (lettiga), legato
e con dei (tubi) da dove scorreva del
liquido che entrava dentro di me.
Qualche giorno dopo stavo bene.
Tanto bene che, mi liberai delle (cinghie) che mi tenevano.
Dopo essermi liberato, muovendo la (maniglia)
della (porta) come avevo visto fare, uscii dalla (stanza).
Fuori non c’era nessuno e da una (finestra) aperta uscii.
Dopo essermi orientato, mi diressi al luogo (con
tanti alberi) dove abitava la Hellen.
Sempre entrando da una (finestra) lasciata aperta mi diressi (lasciandomi
guidare dall’odore) verso la stanza dove dormiva Helen.
Stava sdraiata sul (letto) e dormiva.
Con un balso le fui sopra e come era capitato
nella (tenda), le misi una zampa sulla bocca.
Helen quando mi sentì addosso, si svegliò di soprassalto.
Volle strillare o divincolarsi; ma oltre a
tapparle la bocca la tenevo ferma con il mio peso.
Diceva: « Lasciami! Brutto animale, oltre a pesare, puzzi da morire ».
Mi sollevai da lei e mi accucciai accanto al letto.
Helel si alzò dal letto e si chiuse in un’altra stanza.
Non chiamò soccorso.
La stanza in cui si era chiusa era (il bagno).
Dopo essere uscita era avvolta in una (tovaglia),
mi disse di seguirla e dopo essere entrato nel (bagno) mi fece entrare in una
(vasca) con acqua che emanava uno strano odore.
Mi strofinò il pelo con un prodotto che produceva della (schiuma).
Con un getto d’acqua portò via tutta la (schiuma)
che mi ricopriva e con una grande (tovaglia) mi asciugò.
Poi lei si stese sul letto e io mi stesi accanto a lei.
« Ei! Che fai? Questo non è il tuo posto.»
« Non è il mio posto? Se ci puoi stare te, ci
posso stare anchio e poi è così soffice. A proposito, non mi hai detto come ti
chiami.»
« Come mi chiamo? Io non mi chiamo.»
« Voglio dire quale è il tuo nome; il mio nome è Hellen e tu?»
« Il mio nome è Zdraftgbjko.»
« Ma è impronunciabile; ti chiamerò Leo il leone extraterrestre. »
« Leo mi piace, ma non voglio che gli altri
sappiano che non sono di questo mondo; altrimenti, mi prendono e mi studiano.
Non voglio essere studiato, quelli che vengono studiati, alle volte muoiono e
io non voglio morire, io voglio tornare a casa, nel mio mondo.»
« Va bene, non lo dirò a nessuno.»
« Grazie!», e mi strofinai il muso contro il suo viso.
« Ma rimaniamo intesi, tu avrai un letto come il mio in un’altra stanza.»
« Letto, cosè un letto?»
« Il letto è questo dove ci stiamo sopra.»
« Letto, letto, letto.», e mi ci muovevo sopra con il rischio di romperlo
dato il mio peso.
La mattina dopo Helen andò in bagno a fare non sò cosa, poi si bagnò il
viso e poi lo asciugò.
Mi accostai dove lei si era bagnata e feci un salto indietro.
Avevo visto un altro leone.
Mi guardai attorno, non c’era nessun leone; eppure lo avevo visto.
Tornai al (lavabo) e vidi nello (specchio) il leone che avevo visto prima.
Questa volta non fuggii ma gli ringhiai e l’altro
fece lo stesso, stavo per saltargli addosso quando Helen che stava ridendo mi
prese per la criniera trattenendomi.
« Ma che fai? Quello che hai visto è la tua
immaggine, solo che è riflessa nello specchio.»
« Specchio, cosa è specchio?»
« Lo specchio è questo qua, vedi? Vedi un’altra Hellen.»
Confuso e pieno di vergogna me ne andai a rifuggiarmi
sotto il letto che, essendo basso, lo capovolsi.
« Esci fuori! Vedi che hai combinato? »
Mortificato di quello che avevo combinato mi
allontanai con la coda tra le gambe.
Quando poi arrivò la donna di servizio, strillò
vedendomi ma Hellen la tranquillizò dicendo che io non ero come gli altri leoni
selvatici, io ero docile come un gatto un pó cresciuto, che mi poteva
accarezzare senza paura che le facessi alcun male.
Prima titubante, poi con più coraggio, mi
accarezzò la testa e io le leccai la mano.
Da quel giorno, ogni volta che entrava in casa mi
accarezzava e lasciava che mi strofinassi contro di lei.
Dal quando
Hellen mi aveva accettato in casa, era cominciata con me, quello che si fa con
un bambino alle prime lezioni scolastiche.
Ero un bravo alunno, oltre a leggere, avevo
imparato a scrivere con il computatore e fare altre cose ...
Un giorno Peter un suo amico venne a farle visita
e sentì qualcuno suonare il piano.
Chiese chi fosse e lei rispose: « È Leo ».
« Si vede, è molto bravo, mi piacerebbe conoscerlo ».
Helen lo accompagnò nella stanza dove arrivava la
musica e rimase bloccato sulla porta; non riusciva a credere a quello che stava
vedendo.
Un leone a suonare il piano!
Smettendo di suonare un pezzo di Chopin, guardai
Hellen e trasmisi il mio pensiero che lei tradusse, rivolgendosi a Peter: « Ti
piace il jazz? »
« Lo sai, mi è sempre piaciuto. »
Helen mi guardò e io cominciai a battere i miei
ditoni sui tasti e per una mezz’ora Peter si deliziò sentendomi suonare il
piano a tempo di jazz. Un altro giorno fu la volta di Sam.Entrando in casa
disse: « Qualcuno sta fumando la pipa e usa la miscela che preferisco, chi è
che sta fumando? »
« È Leo ».
Sam si diresse verso il salotto e rimase bloccato
sulla porta al vedere un leone seduto in poltrona a fumare la pipa.
La sorpresa maggiore fu quando Hellen dopo aver parlato con il
proprietario, mi portò a mangiare in un ristorante a cinque stelle.
Avevo imparato a sedermi come tutte le persone a
due gambe; solo che per la mia stazza, la sedia era enorme, come se a sedersi
doveva essere un ciccione di cento chili.
Quando arrivò il cameriere con il vino, cominciò a
versarlo nel bicchiere di Hellen, ma lei indicandomi disse: « Lo serva al mio
amico ».
Il cameriere con la mano che tremava, versò il
vino nel mio calice ed io con una delicatezza insospettabile (per riuscire a
dosare la mia forza, avevo rotto diversi calici), presi il calice e lo portai
alle labbra assaporandolo.
Posai il calice sul tavolo e con il pensiero dissi
, e Hellen tradusse: « Il vino è buono, solo sa di chiuso, la cantina ha
bisogno di aria. »
Lui rimase di stucco e le persone
dei tavoli vicini applaudirono.
Avevo imparato a servirmi del coltello e della
forchetta per mangiare la carne che doveva essere ben cotta.
Avevo un bisogno urgente di mettermi in contatto
con la gente del mio mondo, ma non potevo farlo con il telefono di casa.
Mi occorreva un Centro Spaziale.
Lì avevano le apparecchiature che mi servivano.
Ne parlai ad Hellen chiedendogli se conosceva
qualcuno al Centro Spaziale di Huston.
Lei disse di non conoscere nessuno ma...conosceva
qualcuno che era amico di un tecnico che lavorava al Centro Spaziale.
Ne avrebbe parlato.
Una settimana dopo ricevette un invito e a quell’invito
mi portò con lei, ad una condizione: mi dovevo comportare come un leone
domesticato.
Accettai.
Facemmo un viaggio in macchina fino a Huston.
Al cancello non ci volevano far entrare per causa
mia, ma poi grazie all’amico dell’amico, ci lasciarono entrare.
Hellen mi teneva al guinzaglio ed io la seguivo
come un cagnolino (un pó cresciuto).
Girammo per i vari reparti e quando arrivammo dove
si svolgevano le trasmissioni con eventuali presenze nello spazio, Helen restò
affascinata e volle sapere come si faceva per trasmettere un messaggio.
Quando riferii di aver capito tutto, proseguimmo il giro. Ad un tratto mi impuntai.
Non volevo andare avanti.
« Leo ha bisogno di fare i suoi bisognini, » e mi
portarono in uno spazio verde.
Vedendo che non facevo niente, Helen disse che avevo bisogno di restare
solo.
Legò la catena ad un lampione e disse al tecnico di proseguire il giro.
Mi liberai del collare e corsi al Centro Trasmissioni.
Cominciai a manovrare i vari tasti e comporre i
numeri che ci legava con il mio pianeta e quando sentii la voce dell’addetto
alle trasmissioni spaziali, diedi il mio codice di identità.
Dissi che ero vivo, che avevo tante cose da raccontare
e chiedevo che mi venissero a prendere alla città, presso la casa di Hellen.
Quando ricevetti la risposta di: « Tutto bene. » chiusi la comunicazione e
rimisi tutto a posto.
Tornai al lampione dove Hellen mi aveva attaccato,
rimesso il collare, feci un monte di cacca.
Quando Hellen arrivò con il suo amico, risalimmo
in macchina e tornammo in città.
Al ritorno raccontai quello che avevo fatto e che
ora bisognava solo aspettare l’arrivo dei miei per tornare a casa.
La trasmissione che avevo fatta era stata
registrata e il tecnico responsabile non seppe come giustificarsi.
Lui ammise di aver accompagnato la Dottoressa Hellen
Smitt a fare una visita, ma di non averla lasciata sola,
nemeno un momento.
Disse del leone che l’accompagnava, ma di esso
potevano stare tranquilli, era stato legato ad un lampione e non si era
allontanato.
Allora chi aveva usato il trasmettitore e che
significavano quei versi indecifrabili... Mistero!!!
Dato che mi comportavo come un uomo, decisi di coprire i miei peli con
vestiti come fanno loro.
Grazie a Hellen, venne un sarto e mi prese le
misure e poco tempo dopo con l’aiuto di Hellen mi vestii e appoggiato ad un
bastone con il pomo di cristallo per appoggiarmi, cominciai a fare i primi
passi.
I primi passi furono difficili; cadevo spesso, ma poi piano piano anche
traballando, conseguii a camminare quasi come un uomo.
Così vestito fui a teatro con Hellen , e a tutti
gli inviti ,che gli facevano pur di conoscermi e vedermi suonare il piano.
Purtroppo la mia popolarità a qualcuno non piaceva. Qualcuno voleva guadagnarci sopra, così fecero
pressione al Governo Americano.
Ero un leone africano, dovevo tornare in Africa.
I vari Governi africani fecero a gara per avermi.
Sapevo che alla fine qualcuno avrebbe vinto e la
mia pace in casa di Hellen
sarebbe finita e i miei compatriotti non mi
avrebbero trovato.
Dovevo fuggire, andare dove non mi avrebbero potuto trovare.
Una notte, balzai fuori dalla finestra e mi allontanai.
Sapevo dove andare.
Mi diressi verso lo zoo della città e una volta
giunto mi diressi verso la gabbia dei leoni. Ce ne era uno più o meno della mia
stazza.
Con l’abilità di uno scassinatore, aprii la gabbia, feci uscire il leone e
presi il suo posto.
Il leone una volta libero riuscì ad uscire dallo
zoo e aggirarsi per la città seminando il terrore tra la gente.
Qualcuno telefonò alla polizia e finì ucciso.
Il giorno
dopo Hellen quando entrò nella mia stanza non mi trovò, in compenso trovò un
mio biglietto in cui spiegavo che per non farmi prendere e portare in qualche
paese dell’Africa, preferivo fuggire.
Mentre si recava al laboratorio dove lavorava
seppe che un leone era stato ucciso quella notte mentre girava per la città
spaventando la gente.
Helen invece di andare al lavoro andò dove avevano portato il leone ucciso.
Dopo averlo guardato a lungo, capì che non ero io.
Si sentì sollevata e nel pomeriggio si recò allo zoo.
Purtroppo di leoni ce ne erano cinque e non le fu
possibbile avvicinarsi a nessuno dei cinque. Rimase a guardare stando fuori
come tutti i visitatori.
Quando fu d’avanti a me, cominciò a parlarmi con
il pensiero: « Só che sei tu il mio Leo, sento molto la tua mancanza, mi puoi
fare un cenno che sto parlando con Leo? »
Invece di rispondergli con lo stesso pensiero,
feci uno sbadiglio e mi gettai coll’osso puzzolente che mi avevano dato da
rosicchiare.
Poco dopo Helen con gli occhi che gli lacrimavano
si allontanò dirigendosi verso un’altra gabbia.
Anche a me lacrimarono gli occhi ma...meglio in
gabbia e libero, che libero ed essere in gabbia.
Per fortuna fu solo un sogno.
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