segunda-feira, 19 de agosto de 2013

Sogno n.25 Leo, leone extraterrestre anno 2008

                             
Il mio nome non è Leo, il mio nome se lo dovessi scrivere, risulterebbe intraducibile. Il nome Leo mi fu dato dalla Dottoressa Helen Smitt.
Il mio mondo si trova a dieci milioni di anni luce dal pianeta Terra.
Nel mio mondo gli abitanti assomigliano tutti a me , se non si fa differenza dal colore del manto che ci copre.
Anni fa non ricordo quando, i capi dei vari governi decisero di cercare in altre galassie se c’erano abitanti come noi; e furono lanciate nello spazio varie sonde.
Una di queste sonde, giunse nel pianeta terra e trasmise delle immaggini di vari territori in cui vivevano dei nostri simili.
Dopo tanto parlare fu approntata una astronave.
Partì, ma non fece più ritorno.
Gli ultimi messaggi parlavano di calore insopportabile, fino a..poi nulla.
Modificarono la struttura di un’altra astronave; ma anche questa, dopo tanti messaggi positivi, trasmisero, disgrazie incombenti; e poi,...nulla.
E così via.
Una astronave dopo l’altra, fino a quando partii con quella che mi portò nel
pianeta Terra.
L’astronave atterrò in una località dove il numero dei nostri simili era più elevato e registrato che l’aria afosa era per noi respirabile, fu mandata una Delegazione per parlare con il più alto grado, della nostra visita.
Venendo in pace, la Delegazione non uscì dall’astronave armata.
Io facevo parte di quella Delegazione.
Dopo aver percorso uno spazio di non saprei dire quanto, raggiungemmo un gruppo.
Il più alto di grado del nostro gruppo si avvicinò ad uno che dato l’aspetto, doveva essere un saggio anziano.
Si stava conversando del più e del meno, quando il gruppo si mise in agitazione e si dispersero in varie direzioni.
Ricordo di aver sentito: « Fuggite, arrivano loro! »
Noi non sapendo cosa fare, rimanemmo lì dove ci trovevamo, in attesa di questi loro.
I loro arrivarono con dei strani mezzi che si muovevano su ruote.
Come arrivarono ad una certa distanza, si fermarono.
Vidi degli esseri che si reggevano su due zampe, puntare certi oggetti.
Sentii  dei  scoppi  e  quando  vidi  i  miei  compagni  cadere  insangui-nati,  non  capii  più nulla e fuggii a zampe levate.
Fuggii, fuggii , non sò quanto.
Mi fermai solo quando non avevo più fiato per correre.
Loro non mi vennero dietro.
Dopo essermi orizzontato mi diressi dove era atterrata l’astronave.
Non arrivai sul luogo. Alte fiamme mi fermarono. Il calore era tale, che mi si arricciavano i peli.
Spettai due giorni e quando il fuoco si spostò in un’altra direzione, proseguii la corsa.
Arrivato sul luogo, non vidi l’astronave.
Dove erano?
Li cercai a lungo, alla fine mi convinsi che...mi avevano abbandonato.
Solo, in un mondo dove loro erano cattivi e volevano la nostra morte, che potevo fare, come potevo vivere?
Per giorni e giorni vagai per il vasto territorio unito  ad un gruppo che mal vedevano la mia presenza tra loro, e cibandomi dei resti che  lasciavano.
Una volta sentii dire che, avrebbero attaccato una proprietà che apparteneva ai loro, uccidendo e mangiando degli animali con corna.
Tutto andò bene fino a quando attirati dai gridi che mandavano quegli animali, arrivarono i loro.
Questa volta non me lo feci ripetere, come fuggirono i miei occasionali compagni, fuggii anche io.
Loro non avevano gli oggetti che facevano rumore, ma bastoni che ci lanciavano addosso.
Io non fui colpito, ma chi lo fu, non fu in grado di fuggire e venne preso dai loro.
Un giorno ero solo, sperduto e affamato.
Ogni volta che mi avvicinavo a un animale a quatto zampe, quello fuggiva ed io non avendo con me nessun arma, non potevo far altro che restare a guardare e sentire i borbottii  che emetteva il mio ventre vuoto.
Un giorno mentre stavo sdraiato ad aspettare la mia morte, vidi un loro che cammi-nava tenendo una cosa rotonta sopra la testa.
Come mi passò accanto e mi vide, cadde a terra come morto.
La cosa che portava in testa si era rovesciata e quello che c’era dentro aveva un buon odore.
Mangiai con voracità e una volta sazio mi avvicinai a quel loro che stava disteso.
Quello aprì gli occhi e lessi il suo pensiero, era di un linguaggio da me sconosciuto, ma dopo una lunga ricerca, riuscii a comprendere il significato:
 « Non  mangiarmi! »
Veramente non avevo mai mangiato esseri a due gambe e poi ero sazio di quello che avevo trovato in quella cosa rotonda.
Mi sollevai e dopo avergli leccato il viso mi allontanai.
Dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse.
Quelli della mia razza non capivano niente.
Parlavano solo di cacciare e accoppiarsi.
Parlavano anche di quegli esseri che si reggevano su due zampe, li chiamavano uomini.
Gli uomini erano cattivi, le donne: (quelle che si accosciavano per urinare), per lo più, non lo erano.
Come riconoscere quelle che erano cattive da quelle che non lo erano?
Per vari giorni, osservai da lontano il comportamento di quei esseri.
Gli uomini portavano degli oggetti che facevano rumore.
Un giorno vidi un mezzo che si muoveva su ruote.
Ogni tanto si fermava e una donna puntava qualcosa che non faceva rumore e non ammazzava a chi puntava quella cosa.
Quella doveva essere una donna buona.
La dovevo avvicinare.
Seguii quel mezzo fino a quando entrò in uno spazio in cui c’erano cose strane. La donna scese dal mezzo e entrò in una di quelle cose.
Non potendomi avvicinare con il chiaro, aspettai il buio.
Senza fare rumore e accucciandomi ogni tanto, entrai nello spazio.
Avevo evitato di farmi vedere dagli uomini che con gli oggetti che facevano
rumore, giravano intorno allo spazio o stavano vicino a dei fuochi.
Avendo individuato la cosa in cui la donna era entrata, trovata una apertura entrai.
La donna stava sdraiata su una cosa sollevata da terra e circondata da una altra cosa trasparente.
Senza far rumore, scostai quella cosa e mi avvicinai alla donna.
In quel preciso momento la donna aprì gli occhi e fece per strillare (lo avevo già visto fare da uomini e da donne, quando aprivano la bocca emanavano dei versi acuti che offendevano l’udito).
Per evitare che emettesse quei versi, le misi la zampa anteriore destra, sulla bocca.
Lei si divincolò, ma io la gravavo con il mio peso e col pensiero le parlai : (stavo usando lo stesso linguaggio che aveva usato la donna che aveva incontrato prima).
« Non strilli, non voglio fare del male, io non sono come gli altri. Se tolgo la zampa dalla bocca, mi promette di non strillare? »
Lei mosse la testa, in su verso giù (conoscevo quel movimento ).
Le tolsi la zampa dalla bocca preparandomi a riportargliela  se l’avesse riaperto .
Lei non l’aprì, ma con la mente mi disse di togliermi di dosso.
Lo feci e mi accucciai vicino.
« Tu hai parlato la lingua dei zulù, io sono abituata a esprimermi in inglese, conosci l’inglese? »
Era una lingua tra  tanti milioni  che avevo imparato.
Le risposi con lo stesso linguaggio.
« Come mai conosci la mia lingua? »
« Quando stavo nella mia terra, sin da piccolo ho appreso tanti linguaggi perché chi ci insegnava diceva che dovevamo apprendere a parlare tutti i linguaggi conosciuti e sconosciuti ».
« Di quale terra parli? »
« È una lunga storia, se vuoi te la racconto. Forse ti potrà sembrare inverosimile, ma è vero quello che ti dirò.»
Le raccontai tutto, dalle varie spedizioni nello spazio alla procura di altri esseri come noi, fino all’arrivo sul pianeta Terra e quello che era successo una volta sbarcato e dall’abbandono dai compagni rimasti sull’astronave. Ero solo, in un mondo che non conoscevo, abitato da esseri che uccidono i nostri simili, avevo paura di fare la stessa fine, avevo paura, volevo tornare sul mio mondo.
Mentre parlavo, sentivo scorrermi dagli occhi il liquido, che poi appresi di chiamarsi "lacrime".
La donna mi accarezzava la testa affettuosamente, mi piaceva quel tocco. Lo faceva anche mia madre quando ero piccolo.
La donna mi disse di essere una dottoressa che studiava il comportamento degli animale (erano quelli come noi che avevano i peli che li ricoprivano e altri che permettevano di levarsi in aria).
Studammo quello che avremmo fatto l’indomani.
Mi sarei fatto catturare vivo.
Nonostante avessi paura di venire ucciso, accettai.
Prima di lasciarci, le dissi che avevo fame.
Quel giorno non avevo mangiato nulla e avevo visto entrando nello spazio
un’animale che stava sollevato sul fuoco e che mandava un buon odorino.
Intorno al fuoco c’erano degli uomini di pelle scura, con gli oggetti che facevano rumore.
La donna che si chiamava Hellen mi disse di uscire dal campo dal lato opposto, poi emettere vari ruggiti (i versi che emettevano i miei simili).
Gli uomini sarebbero corsi verso quella parte.
Nel buio avrei fatto un giro portandomi verso il fuoco.
Lei mentre i guardiani mi davano la caccia avrebbe preso della carne e me l’avrebbe gettata.
Dopo averla ringraziata, uscii e feci quello che mi aveva detto di fare.
Andò tutto bene e potei solleviare la fame.
Il giorno dopo mi recai nel luogo dove era stata preparata la trappola.
C’era un piccolo animale legato ad un palo. Dopo essermi guardato attorno mi diressi verso quell’animale.
Ogni tanto mi fermavo, stando attento ai rumori che mi circondavano.
Avevo individuato gli uomini nascosti.
Feci finta di non averli visti e poco dopo mi avvicinai a quell’animale legato.
Come gli arrivai vicino, mi sentii sollevare e nonostante i miei sforzi, non riuscii a liberarmi di quella cosa che mi avvolgeva
Ad un dato momento sentii una pungicata al fianco sinistro e mi sentii sprofondare in un tepore simile alla morte.
Il mio ultimo pensiero fu: « Sono morto ».
Mi svegliai dentro una cosa che aveva delle aperture che però non mi permettevano di uscire; ed erano resistenti, nonostante i miei sforzi non si rompevano.
Dopo vari tentativi ci rinunciai. Avevo le spalle doloranti.
C’erano tanti esseri: grandi e piccoli che mi guardavano ad una certa distanza.
Cercai di farli scappare con dei forti ruggiti.
Non si mossero, erano al sicuro da me, io stavo in una cosa  da dove non poteva scapare. Con una cosa a punte, mi diedero da mangiare.
Non aveva lo stesso sapore di quella che avevo mangiato la notte prima, ma in mancanza di altro, mangiai e bevvi il liquido (di nome acqua).
Dopo vari giorni di permanenza al (campo), la cosa (gabbia) fu sollevata e posta su un mezzo con ruote che si mossero.
Con me c’erano altre (gabbie) con altri animali.
Arrivammo in un posto dove non c’erano (alberi) ma altri strani mezzi (aerei).
Vennimmo caricati su uno di quei mezzi e poi attorno fu tutto buio.
Si sentivano versi di tanti altri animali.
Chissà dove ci portavano?
Sentii uno scossone e una sensazione di stare senza aria.
Seppi poi dalla dottoressa Hellen, che eravamo volati dalla terra dove ci avevano catturato, chiamata Africa e eravamo atterrati in un’altra terra che si chiamava America.
Una volta arrivati, venimmo separati.
I miei compagni di viaggio non li rividi che non dopo tanti anni.
Io fui portato in un posto pieno di alberi.
Stavo sempre in quella (gabbia); non mi piaceva, volevo uscire.
A nulla valsero le mie richieste di aiuto.
La dottoressa era sempre con altre persone vestite di bianco che mi giravano attorno.
Decisi di fare lo (sciopero) della fame.
Cominciai a non mangiare e non bere; neanche quando avevo fame e i (cibi) mandavano un buon odorino.
La dottoressa mi parlava (col pensiero): « Perché non mangi? »
« Perché voglio uscire da questa (gabbia) e cercare il modo di mettermi in contatto con i miei per lasciare questo mondo, che non mi piace. Se non mi fai uscire, mi lascerò morire e tu sarai responsabile della mia morte »
Un giorno non riuscivo a stare in piedi e gli occhi mi si chiusero: « Sono morto».
Non lo ero, mi risvegliai in una (lettiga), legato e con dei (tubi) da dove  scorreva del liquido che entrava dentro di me.
Qualche giorno dopo stavo bene.
Tanto bene che, mi liberai delle (cinghie) che mi tenevano.
Dopo essermi liberato, muovendo la (maniglia) della (porta) come avevo visto fare, uscii dalla (stanza).
Fuori non c’era nessuno e da una (finestra) aperta uscii.
Dopo essermi orientato, mi diressi al luogo (con tanti alberi) dove abitava la Hellen.
Sempre entrando da una (finestra) lasciata aperta mi diressi (lasciandomi guidare dall’odore) verso la stanza dove dormiva Helen.
Stava sdraiata sul (letto) e dormiva.
Con un balso le fui sopra e come era capitato nella (tenda), le misi una zampa sulla bocca.
Helen quando mi sentì addosso, si svegliò di soprassalto.
Volle strillare o divincolarsi; ma oltre a tapparle la bocca la tenevo ferma con il mio peso.
Diceva: « Lasciami! Brutto animale, oltre a pesare, puzzi da morire ».
Mi sollevai da lei e mi accucciai accanto al letto.
Helel si alzò dal letto e si chiuse in un’altra stanza.
Non chiamò soccorso.
La stanza in cui si era chiusa era (il bagno).
Dopo essere uscita era avvolta in una (tovaglia), mi disse di seguirla e dopo essere entrato nel (bagno) mi fece entrare in una (vasca) con acqua che emanava uno strano odore.                       
Mi strofinò il pelo con un prodotto che produceva della (schiuma).
Con un getto d’acqua portò via tutta la (schiuma) che mi ricopriva e con una grande (tovaglia) mi asciugò.
Poi lei si stese sul letto e io mi stesi accanto a lei.
« Ei! Che fai? Questo non è il tuo posto.»
« Non è il mio posto? Se ci puoi stare te, ci posso stare anchio e poi è così soffice. A proposito, non mi hai detto come ti chiami.»
« Come mi chiamo? Io non mi chiamo.»
« Voglio dire quale è il tuo nome; il mio nome è Hellen e tu?»
 « Il mio nome è Zdraftgbjko.»
« Ma è impronunciabile; ti chiamerò Leo il leone extraterrestre. »
« Leo mi piace, ma non voglio che gli altri sappiano che non sono di questo mondo; altrimenti, mi prendono e mi studiano. Non voglio essere studiato, quelli che vengono studiati, alle volte muoiono e io non voglio morire, io voglio tornare a casa, nel mio mondo.»
« Va bene, non lo dirò a nessuno.»
« Grazie!», e mi strofinai il muso contro il suo viso.
« Ma rimaniamo intesi, tu avrai un letto come il mio in un’altra stanza.»
« Letto, cosè un letto?»
« Il letto è questo dove ci stiamo sopra.»
« Letto, letto, letto.», e mi ci muovevo sopra con il rischio di romperlo dato il mio peso.
La mattina dopo Helen andò in bagno a fare non sò cosa, poi si bagnò il viso e poi lo asciugò.
Mi accostai dove lei si era bagnata e feci un salto indietro.
Avevo visto un altro leone.
Mi guardai attorno, non c’era nessun leone; eppure lo avevo visto.
Tornai al (lavabo) e vidi nello (specchio) il leone che avevo visto prima.
Questa volta non fuggii ma gli ringhiai e l’altro fece lo stesso, stavo per saltargli addosso quando Helen che stava ridendo mi prese per la criniera trattenendomi.
« Ma che fai? Quello che hai visto è la tua immaggine, solo che è riflessa nello specchio.»
« Specchio, cosa è specchio?»
« Lo specchio è questo qua, vedi? Vedi un’altra Hellen.»
Confuso e pieno di vergogna me ne andai a rifuggiarmi sotto il letto che, essendo basso, lo capovolsi.
« Esci fuori! Vedi che hai combinato? »
Mortificato di quello che avevo combinato mi allontanai con la coda tra le gambe.
Quando poi arrivò la donna di servizio, strillò vedendomi ma Hellen la tranquillizò dicendo che io non ero come gli altri leoni selvatici, io ero docile come un gatto un pó cresciuto, che mi poteva accarezzare senza paura che le facessi alcun male.
Prima titubante, poi con più coraggio, mi accarezzò la testa e io le leccai la mano.
Da quel giorno, ogni volta che entrava in casa mi accarezzava e lasciava che mi strofinassi contro di lei.
Dal  quando Hellen mi aveva accettato in casa, era cominciata con me, quello che si fa con un bambino alle prime lezioni scolastiche.
Ero un bravo alunno, oltre a leggere, avevo imparato a scrivere con il computatore e fare altre cose ...
Un giorno Peter un suo amico venne a farle visita e sentì qualcuno suonare il piano.
Chiese chi fosse e lei rispose: « È Leo ».
« Si vede, è molto bravo, mi piacerebbe conoscerlo ».
Helen lo accompagnò nella stanza dove arrivava la musica e rimase bloccato sulla porta; non riusciva a credere a quello che stava vedendo.
Un leone a suonare il piano!
Smettendo di suonare un pezzo di Chopin, guardai Hellen e trasmisi il mio pensiero che lei tradusse, rivolgendosi a Peter: « Ti piace il jazz? »
« Lo sai, mi è sempre piaciuto. »
Helen mi guardò e io cominciai a battere i miei ditoni sui tasti e per una mezz’ora Peter si deliziò sentendomi suonare il piano a tempo di jazz. Un altro giorno fu la volta di Sam.Entrando in casa disse: « Qualcuno sta fumando la pipa e usa la miscela che preferisco, chi è che sta fumando? »
« È Leo ».
Sam si diresse verso il salotto e rimase bloccato sulla porta al vedere un leone seduto in poltrona a fumare la pipa.
La sorpresa maggiore fu quando Hellen dopo aver parlato con il proprietario, mi portò a mangiare in un ristorante a cinque stelle.
Avevo imparato a sedermi come tutte le persone a due gambe; solo che per la mia stazza, la sedia era enorme, come se a sedersi doveva essere un ciccione di cento chili.
Quando arrivò il cameriere con il vino, cominciò a versarlo nel bicchiere di Hellen, ma lei indicandomi disse: « Lo serva al mio amico ».
Il cameriere con la mano che tremava, versò il vino nel mio calice ed io con una delicatezza insospettabile (per riuscire a dosare la mia forza, avevo rotto diversi calici), presi il calice e lo portai alle labbra assaporandolo.
Posai il calice sul tavolo e con il pensiero dissi , e Hellen tradusse: « Il vino è buono, solo sa di chiuso, la cantina ha bisogno di aria. »
Lui rimase di stucco e  le persone dei tavoli vicini applaudirono.
Avevo imparato a servirmi del coltello e della forchetta per mangiare la carne che doveva essere ben cotta.
Avevo un bisogno urgente di mettermi in contatto con la gente del mio mondo, ma non potevo farlo con il telefono di casa.
Mi occorreva un Centro Spaziale.
Lì avevano le apparecchiature che mi servivano.
Ne parlai ad Hellen chiedendogli se conosceva qualcuno al Centro Spaziale di Huston.
Lei disse di non conoscere nessuno ma...conosceva qualcuno che era amico di un tecnico che lavorava al Centro Spaziale.
Ne avrebbe parlato.
Una settimana dopo ricevette un invito e a quell’invito mi portò con lei, ad una condizione: mi dovevo comportare come un leone domesticato.
Accettai.
Facemmo un viaggio in macchina fino a Huston.
Al cancello non ci volevano far entrare per causa mia, ma poi grazie all’amico dell’amico, ci lasciarono entrare.
Hellen mi teneva al guinzaglio ed io la seguivo come un cagnolino (un pó cresciuto).
Girammo per i vari reparti e quando arrivammo dove si svolgevano le trasmissioni con eventuali presenze nello spazio, Helen restò affascinata e volle sapere come si faceva per trasmettere un messaggio.
Quando riferii di aver capito tutto, proseguimmo il giro.                                                  Ad un tratto mi impuntai.
Non volevo andare avanti.
« Leo ha bisogno di fare i suoi bisognini, » e mi portarono in uno spazio verde.
Vedendo che non facevo niente, Helen disse che avevo bisogno di restare solo.
Legò la catena ad un lampione e disse al tecnico di proseguire il giro.
Mi liberai del collare e corsi al Centro Trasmissioni.
Cominciai a manovrare i vari tasti e comporre i numeri che ci legava con il mio pianeta e quando sentii la voce dell’addetto alle trasmissioni spaziali, diedi il mio codice di identità.
Dissi che ero vivo, che avevo tante cose da raccontare e chiedevo che mi venissero a prendere alla città, presso la casa di Hellen.
Quando ricevetti la risposta di: « Tutto bene. » chiusi la comunicazione e rimisi tutto a posto.
Tornai al lampione dove Hellen mi aveva attaccato, rimesso il collare, feci un monte di cacca.
Quando Hellen arrivò con il suo amico, risalimmo in macchina e tornammo in città.
Al ritorno raccontai quello che avevo fatto e che ora bisognava solo aspettare l’arrivo dei miei per tornare a casa.
La trasmissione che avevo fatta era stata registrata e il tecnico responsabile non seppe come giustificarsi.
Lui ammise di aver accompagnato la Dottoressa Hellen Smitt a fare una visita, ma di non averla lasciata sola, nemeno un momento.
Disse del leone che l’accompagnava, ma di esso potevano stare tranquilli, era stato legato ad un lampione e non si era allontanato.
Allora chi aveva usato il trasmettitore e che significavano quei versi indecifrabili... Mistero!!!
Dato che mi comportavo come un uomo, decisi di coprire i miei peli con vestiti come fanno loro.
Grazie a Hellen, venne un sarto e mi prese le misure e poco tempo dopo con l’aiuto di Hellen mi vestii e appoggiato ad un bastone con il pomo di cristallo per appoggiarmi, cominciai a fare i primi passi.
I  primi  passi  furono  difficili;  cadevo  spesso,  ma  poi  piano  piano  anche
traballando, conseguii a camminare quasi come un uomo.
Così vestito fui a teatro con Hellen , e a tutti gli inviti ,che gli facevano pur di conoscermi e vedermi suonare il piano.                                                                         
Purtroppo la mia popolarità a qualcuno non piaceva.                                                         Qualcuno voleva guadagnarci sopra, così fecero pressione al Governo Americano.
Ero un leone africano, dovevo tornare in Africa.
I vari Governi africani fecero a gara per avermi.
Sapevo che alla fine qualcuno avrebbe vinto e la mia pace in casa di Hellen
sarebbe finita e i miei compatriotti non mi avrebbero trovato.
Dovevo fuggire, andare dove non mi avrebbero potuto trovare.
Una notte, balzai fuori dalla finestra e mi allontanai.
Sapevo dove andare.
Mi diressi verso lo zoo della città e una volta giunto mi diressi verso la gabbia dei leoni. Ce ne era uno più o meno della mia stazza.
Con l’abilità di uno scassinatore, aprii la gabbia, feci uscire il leone e presi il suo posto.
Il leone una volta libero riuscì ad uscire dallo zoo e aggirarsi per la città seminando il terrore tra la gente.
Qualcuno telefonò alla polizia e finì ucciso.
 Il giorno dopo Hellen quando entrò nella mia stanza non mi trovò, in compenso trovò un mio biglietto in cui spiegavo che per non farmi prendere e portare in qualche paese dell’Africa, preferivo fuggire.
Mentre si recava al laboratorio dove lavorava seppe che un leone era stato ucciso quella notte mentre girava per la città spaventando la gente.
Helen invece di andare al lavoro andò dove avevano portato il leone ucciso.
Dopo averlo guardato a lungo, capì che non ero io.
Si sentì sollevata e nel pomeriggio si recò allo zoo.
Purtroppo di leoni ce ne erano cinque e non le fu possibbile avvicinarsi a nessuno dei cinque. Rimase a guardare stando fuori come tutti i visitatori.
Quando fu d’avanti a me, cominciò a parlarmi con il pensiero: « Só che sei tu il mio Leo, sento molto la tua mancanza, mi puoi fare un cenno che sto parlando con Leo? »
Invece di rispondergli con lo stesso pensiero, feci uno sbadiglio e mi gettai coll’osso puzzolente che mi avevano dato da rosicchiare.
Poco dopo Helen con gli occhi che gli lacrimavano si allontanò dirigendosi verso un’altra gabbia.
Anche a me lacrimarono gli occhi ma...meglio in gabbia e libero, che libero ed essere in gabbia.
Per fortuna fu solo un sogno.
                                                                  
                                                                







  





















                                                                                                                      





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