Come ci capitai, non me lo ricordo.
L’unica cosa, fu di svegliarmi e trovarmi in ospedale con la testa
fasciata.
Come ci ero finito non lo sò.
Quando aprii gli occhi, vidi due
medici davanti al mio letto.
Quello che stavano dicendo, non lo capivo; parlavano una lingua che non
conoscevo.
Ogni tanto dicevano un nome “Pierre”.
Che voleva dire “Pierre”.
Un’altra cosa mi ricordo, non erano medici comuni,
avevano qualcosa sulle spalle.
Ci pensai un pò, poi mi venne in mente una cosa; dovevo trovarmi in un
ospedale militare.
Che ci stavo facendo in un ospedale militare?
I giorni passavano, i medici o gli infermieri venivano a medicarmi e ogni
volta mi chiamavano “Pierre”.
A me quel nome non diceva niente.
Allora perché continuavano a chiamarmi “Pierre”?
Un giorno fui dimesso, mi diedero dei vestiti; i vestiti erano militari.
Che avevano fatto i miei vestiti?
Con una macchina mi condussero in caserma.
Che ci facevo in caserma?
Dove mi trovavo?
Alle domande non sapevo cosa rispondere perché non
capivo quello che dicevano.
Rispondevo nella mia lingua: « Dove mi trovo, che ci stò a fare qui in
caserma? Io non ho ancora fatto il militare o per lo meno non me lo ricordo ».
Vedevo che loro si arrabbiavano con me, da come strillavano.
Alla fine tutto fu risolto.
Qualcuno mi sentì parlare e mi si avvicinò.
Dopo aver parlato con quelli che mi stavano parlando, si rivolse a me
parlandomi in italiano.
Meno male, avevo trovato chi mi capiva.
Chiesi dove mi trovavo; mi disse, stavo a Nimes,
alla Legione Straniera.
Nimes, non conoscevo il posto, dove era?
Mi rispose: « In Francia ».
Alla Legione Straniera, che ci stavo facendo alla Legione Straniera?
Mi disse che probabilmente come lui e tanti altri,
mi ero arruolato volontariamente.
Non mi ricordavo niente, domandai: « Perché mi chiamano Pierre? »
Dopo aversi consultato con gli altri, mi disse: « Pierre Duval è il tuo
nome. »
Risposi: « Io non mi chiamo Pierre Duval, a me
questo nome mi è estraneo, non mi dice niente. »
« Allora come ti chiami? »
Stavo per rispondere; cavolo! Come mi chiamavo? Non mi ricorda-vo come mi
chiamavo,dissi: « Non me lo ricordo, solo che Pierre non è il mio nome. »
« Se non ti ricordi come ti chiami, fino a che non te lo ricordi, dovrai
chiamarti Pierre Duval e sei un legionario. »
Non potendo fare altrimenti, accettai di chiamarmi: legionario Pierre
Duval.
A Nimes ero inquadrato nel 2º REI ( 2º Regimento Stranieri di Fanteria ), ci rimasi
sei mesi, così trascorsi:
Ore 5 Sveglia.
5.30 – 7.00 Igiene personale.
7.00–7.30 Adunata nell’aria della compagnia e
colazione.
7.30 Riunione della compagnia e alzabandiera.
7.45 – 9.00 Attività sportiva.
9.00 – 9.30 Riordino.
9.30 – 12.00 Addestramento o lavoro.
12.00 – 13.30 Pranzo e igiene personale.
13.30 – 14.00 Adunata nell’aria della compagnia.
14.00 Adunata generale.
14.00 – 17.30 Addestramento o lavoro.
17.30 Termine delle attività.
17.30 – 21.30 Tempo libero e cena.
21.30 Igiene personale.
22.00 Ritirata.
22.30 Spegnere la luce nelle camerate.
In quei sei mesi appresi tante cose: a parlare francese, a sparare con tutte le armi,
a lottare, sia con le mani nude, che con le armi bianche; siano europee che
arabe.
A mangiare di tutto, anche quando la carne aveva i vermi e puzzava.
Ci dicevano che in caso di bisogno, avremmo dovuto
mangiare i cadaveri per non morire di fame.
Così pure per il bere; in caso di bisogno, l’urina
era un’ottima bevanda, come pure il sangue (se poi era di un arabo, era più
buono).
In quei sei mesi, usufruii pochi tempi liberi; il
più delle volte, li passavo in cella.
La prima volta che ci portarono al poligono di tiro, scoprii di avere
affinità con il fucile; feci otto centri su otto tiri.
Finita l’esercitazione, mi fu chiesto dove avevo imparato a sparare.
Alla mia risposta: « Non lo sò », non fui creduto.
Mi tennero di conto; un tiratore come me, era da non trascurare.
Mi fecero allenare con varie armi da fuoco.
A Nimes non c’era modo di annoiarci, con tutti gli esercizi in cui eravamo
tenuti a fare, compreso lottare tra noi.
Quello di lottare tra noi, non pensavo fosse un esercizio.
Dovetti lottare; colpire ed essere colpito.
Mi insegnarono tanti modi di colpire.
La cosa più importante era non arrendersi mai.
Ci dissero che gli arabi quando lottano non
chiedono resa, per loro morire combattendo era un modo più rapido di andare in
Paradiso.
Gli arabi combattevano per il loro Dio e non
volevano deluderlo arrendendosi ad un infedele (che eravamo noi).
Non sono mai stato un attaccabrighe, mi sono
sempre fatto i fatti miei, ma quando venivo stuzzicato, reagivo e lottavo anche
quando sapevo di perdere e di finire in infermeria a farmi curare, senza
lamentarmi con i miei superiori.
Il tempo passava e noi chiedevamo: quando saremmo partiti per l’Algeria a
combattere sul serio?
Alle domande ci rispondevano , se eravamo stanchi
di vivere e non vedevamo l’ora di morire.
Sei mesi dopo l’arrivo a Nimes ci dissero di
prepararci perché l’indomani saremmo partiti per Marsiglia e da lì, per andare
a morire in Algeria.
Partimmo a bordo di un aereo militare e atterrammo
prima a Marsiglia e con un altro volo per Algeri.
Eravamo milletrecento, di cui duecento, tiratori
scelti e andavamo a rinforzare i vari fortini sparsi per il deserto algerino a
sorvegliare i confini e scoraggaggiare le infiltrazioni che andavano a
rafforzare i guerriglieri del FLN che eseguivano molteplici attacchi
organizzati in varie parti dell’Algeria contro instalazioni militari, posti di
polizia, magazzini e mezzi di comunicazione.
Dal Cairo, il FLN emetteva via radio comunicati in
cui esortava il popolo algerino e i militanti della causa nazionale, ad
insorgere per la restaurazione dello Stato Algerino, sovrano, democratico e
socia-le, all’interno dei principi dell’Islam, e per il rispetto di tutte le
libertà fondamentali senza distinzioni di razza e di religione.
Tante belle parole, che facevano comodo ai capi del FLN.
Rimanemmo ad Algeri due settimane per ambientarci
al caldo e al freddo.
Non avevo pensato fosse tanto caldo di giorno,
sembrava stare in una fornace e la notte al Polo Nord.
Il mio armamento era costituito tra l’altro, di un
fucile a canna lunga, munito di cannocchiale; mi era stato dato l’ordine, di
sparare, sopratutto ai capibanda.
Uccidere quelli, si avrebbe provocato scompiglio tra gli assalitori.
Come me, ce ne erano altri e fummo distaccati
ognuno in un posto diverso.
Una mattina partimmo in ottanta a bordo di quattro
camion, scortati da un auto blindato davanti al primo camion e, un’altra
all’ultimo.
Lasciammo il forte di Sidi-Bel-Abbes e ci
inoltrammo su una strada che si perdeva nel deserto.
La notra destinazione era a due giorni di distanza.
Andò tutto bene fino al ponte.
E fu grazie a me, che non morimmo tutti.
Faceva caldo e nel camion non si stava comodi,
così chiesi se potevo viaggiare sul tetto del primo camion.
Stavo sdraiato e guardavo attraverso il cannocchiale
tutto quello che ci circondava, compresi alcuni cavalieri che ci seguivano
stando a distanza di sicurezza.
Eravamo giunti in prossimità di un ponte, quando vidi un movimento sospetto
sotto il ponte.
Battei con il calcio del fucile sul tetto della cabina e alla mia domanda,
risposi di fermare: « Perché? » mi rispose il sergente.
« Ho visto qualcosa di sospetto sotto il ponte e vorrei controllare meglio
».
Scesi dal camion e sempre tenendo il fucile pronto
a sparare, mi avvicinai al ponte.
Non ci ero arrivato quando il ponte saltò in aria.
E con il ponte saltò in aria anche l’autoblinda di
testa che ci faceva da scorta.
Venni ringraziato sia dal Lieutenant (Tenente) che
ci comandava, che da tutti gli altri.
Senza ponte, non si poteva proseguire con i camion.
Scesero tutti dai camion e poi li scaricarono di
tutto quello che trasportavano.
Fu distribuito il carico tra tutti e pur
borbottando per il carico pesante aggiunto, ci mettemmo in marcia verso il
fortino che avremmo dovuto raggiungere in due giorni con i camion.
A piedi ci impiegammo una settimana.
La marcia era faticosa per causa della sabbia.
Ogni due ore ci fermavamo per riposare.
Nelle soste, la maggior parte aveva bevuto tutta l’acqua che aveva in donazione.
I dieci esploratori che ci precedevano non portavano pesi.
Stava a loro proteggerci da eventuali agguati.
Non portavano pesi, però rischiavano pure.
Ogni tanto si sentiva sparare e tutto il gruppo si
metteva in guardia per un eventuale assalto.
Ma l’assalto non veniva.
Chi non veniva era uno o due esploratori che erano stati uccisi.
Così ogni volta che bisognava sostituire qualcuno, nessuno ci voleva
andare.
Purtroppo non si chiedevano volontari.
Quando il tenente dava un ordine, bisognava solo che, obbedire.
Toccò anche a me fare l’esploratore.
A Nimes ci avevano insegnato ad aguzzare la vista
e l’udito; tanto che, durante i turni di guardia, chi veniva sorpreso, veniva
punito.
Così mentre avanzavo, scrutavo tutti i lati possibili e alle volte mi servivo del
cannocchiale del fucile e quando vedevo qualcosa muoversi, non aspettavo di
vedere se era un’animale o un arabo, mi fermavo, prendevo la mira e Pam! gli
mandavo un tiro e non andavo a verificare chi avevo colpito.
L’exploratore che mi seguiva, riferiva quello che era successo.
Non erano passate le due ore, quando avvistai una oasi.
Sembrava deserta.
La osservai da cima (sulle palme) a fondo (dietro
il pozzo e i tronchi) poi feci segno al mio compagno di avvicinarsi per poi
andare a riferire al tenente.
Sempre sorvegliando tutto l’intorno, aspettai che
venissi raggiunto dal gruppo.
Sembrava deserto, non si vedeva nessuno.
A me non piaceva, era il posto ideale per un agguato.
L’oasi si trovava in una piccola valle era
composta da un pozzo e una decina di palme;
da sinistra la valle si perdeva nel deserto, come
sulla destra da dove stavamo venendo, di fronte e dietro, grandi dune che
potevano nascondere chissà quanti ribelli e come l’oasi non dava riparo a tutti
noi, in caso di attacco, non avevamo un buon riparo.
Non ci potevamo gettare nella bocca del leone
senza prendere, le dovute precauzioni.
Per fortuna il tenente seppe prendere queste precauzioni.
Mi mandò insieme con altri cinque legionari e due mitragliatrici ad
appostarci soprauna duna, che essendo abbastanza alta, dominava le altre
circostanti e controllava tutta la
vallata.
Ci avviammo verso il posto indicatoci dal tenente.
Io e un altro, precedevamo gli altri, in perlustrazione cercando di caminare
chinati e senza fare rumore.
Fu una buona cosa, in cima c’era un arabo che
guardava i legionari che si dirigevano verso l’oasi.
Sfoderai la baionetta e la lanciai alle spalle
dell’arabo che cadde senza emettere un lamento.
Sulla sua schiena erano conficcate due baionette.
Il mio compagno aveva fatto la stessa cosa che avevo fatto io.
Una volta in cima, servendomi del cannocchiale del
fucile, perlustrai tutta la zona fino a scoprire un mucchio di cavalieri.
Mandai un compagno ad avvertire il tenente.
Senza perdere tempo, spogliai l’arabo della sua
tunica e turbante che poi indossai.
Quando vidi i legionari arrivare all’oasi e come
c’era da aspettarsi da una banda
indisciplinata, gettarono via i fucili e corsero
al pozzo.
Mi alzai in piedi e sollevando il fucile
dell’arabo lo scossi a mó di segnale.
Fatto questo mi gettai a terra e presi posizione.
Anche dall’oasi avevano visto il mio gesto.
Era tutto combinato con il tenente.
Ad un richiamo, i legionari si allontanarono dal
pozzo e presero posizione su due file, aspettando l’attacco.
I ribelli arrivarono da dove li aspettavamo e cioè
sulla sinistra della valle.
Come arrivarono nei pressi del pozzo furono
accolti da un fuoco incrociato, dalle due mitragliatrici e da tutti i fucili
dei legionari.
La carica degli arabi non si arrestò, attraversò tutta la vallata.
Quelli che non cadevano, sparavano ai legionari
per poi proseguire la corsa e tornare indietro per una nuova carica.
Era un suicidio, andavano dritti al fuoco dei fucili, morirono tutti.
Non tutti gli arabi erano tornati alla vallata, un
piccolo gruppo fece un giro e cominciò a salire la duna.
Eravamo tanto presi nello sparare agli arabi giù
nella vallata che ci accorgemmo di loro, solo quando erano giunti e
cominciarono a spararci addosso.
Mi rotolai da dove stavo e cominciai a sparare nel mucchio.
Gli arabi una volta su di noi erano balzati da
cavallo e con le scimitarre cominciarono a colpire chi gli capitava davanti.
Per mia fortuna, quando mi ero rotolato dalla
posizione in cui mi trovavo prima, mi trovai fuori del loro attacco.
Non potevo mirare essendo troppo vicini.
Sparai fino a sentire lo scatto a vuoto dell’otturatore.
Non avevo il tempo per ricaricare.
Gettai di lato il fucile e sganciai dalla cintura,
due bombe a mano, che portai alla bocca per togliere loro la linguetta, per poi
gettarle tra i piedi di due arabi, che mi stavano saltando addosso.
Ci fu una esplosione e lo scoppio oltre a rintronarmi, mi fece fare un volo
di almeno tre metri.
Quando riaprii gli occhi vidi il tenente e alcuni legionari che erano
saliti su per darci una mano.
Purtroppo per gli altri legionari che erano con
me, non c’era niente da fare; se non erano stati uccisi dalle pallottole arabe,
lo erano stati con le scimitarre.
Io purtutto sporco di sangue (non mio), ero vivo,
non mi ero fatto nulla.
Quella prima battaglia ci costò quattordici morti e ventiquattro feriti.
I morti furono sepolti e i feriti medicati.
Prima di riprendere il cammino, mettemmo fuori uso
tutti i fucili arabi, portando con noi tutte le munizioni.
Con i fucili dei morti furono fatte delle barelle in cui caricammo i feriti
più gravi e ci rimettemmo in marcia.
Il tempo di raggiungere il Forte, morirono altri sei legionari.
Quattro erano dei feriti, due assaliti mentre
facevano il turno di guardia.
La sera del settimo giorno giungemmo a Fort Dupont.
Il Forte Dupont si trovava vicino al confine con la Libia impediva agli arabi
provenienti dalla Libia per unirsi ai guerriglieri del FLN.
Era costruito in una oasi e aveva un pozzo e sette palme.
Al centro era costruita una torre che oltre a fare
da osservatorio del territorio circostante, serviva da alloggio al comandante
Frinz Braun (un nazista fuggito dopo la seconda guerra mondiale).
Al Fort Dupont aspettavano ottanta legionari, un
tenente e quattro sergenti per
sostituire quelli morti.
Purtroppo oltre al tenente, giunsero al Forte solo
due sergenti e cinquantotto legionari; meglio che niente.
Nel Forte c’erano dieci donne di vita che dovevano accontentare tutti i legionari.
Non lo facevano gratis.
Ogni sei mesi, venivano sostituite.
Non tutti andavano con quelle donne;
perciò per quelli che non ne potevano fare a meno, sfogavano i loro
istinti sessuali, sui legionari omosessuali o i giovani.
Io ero tra i giovani nuovi arrivati.
Come fui approcciato da un brutomonte, lo misi a posto dicendogli: « Non
sono il tipo che vai cercando, ma se mi vuoi prendere con la forza, puoi farlo,
ma poi mi dovrai anche uccidere perché se non lo fai, sarai tu a morire al mio
posto. »
Si mise a ridere e mi disse: « E come lo fai? ».
Gli sparai in mezzo alle gambe senza fargli alcun
male dicendogli:
« Se avessi voluto, ti avrei fatto saltare i
coglioni; ed è solo un avvertimento sia per te, che a quelli che la pensano
come te. »
Lo sparo fece accorrere altri legionari, tra cui
il tenente il quale chiese al gruppo; chi avesse sparato.
Mi presentai: « Sono stato io, è stato
involontariamente, credevo di avere il fucile scarico e per fortuna chi mi
stava davanti non è morto o ferito. »
Fui accompagnato dal comandante che con un cattivo
italiano mi rimproverò, minacciandomi di punizioni immagginabili.
Comunque fui lasciato in pace.
Ci distribuirono per le varie camerate occupando i
posti lasciati dai morti.
La notte non riuscii a dormire.
Fuori c’era una serenata di ululati, sembrava che
si fossero radunati tutti i cani o iene del mondo, facevano un gran baccano con
i loro ululati.
Oltre ai cani a quattro zampe, c’erano quelli a due zampe.
Una notte mi toccò fare il turno di guardia.
Invece di tenere il fucile in spalla e camminare
dritto sul camminamento dei spalti, avevo il fucile in posizione di sparo e
ogni volta che mi giravo dal lato del portone, davo un’occhiata di sotto.
Con tutti quei cani che giravano di giorno e di
notte attorno al Forte, immagginavo di vedere degli arabi avvicinarsi
indisturbati al portone e farlo saltare con dell’esplosivo.
Non era ancora successo, ma poteva succedere.
E una notte successe.
Per furtuna ero di turno di guardia sul lato del portone.
Avevo sentiti qualcuno avvicinarsi.
Nascosto dietro il parapetto, tirai fuori di tasca
il cannocchiale e lo montai sul fucile.
Il cannocchiale era munito di lenti infrarosse; che mi facevano vedere anche
al buio.
Senza farmi scorgere misi il fucile tra due merli
e portando il cannocchiale all’occhio destro, guardai di sotto.
Vedevo tutto come se fosse giorno.
C’erano quattro persone che trascinavano qualcosa di molto grosso.
Senza pensarci due volte, presi la mira a quella
cosa che trascinavano e feci partire tutti i colpi che conteneva il caricatore
del fucile.
Ci fu una esplosione talmente forte che tutto il Forte tremò.
Lo spostamento d’aria mi fece cadere giù dagli spalti.
Dovevo aver battuto la testa cadendo.
Il botto svegliò tutto il Forte.
Si accesero i riflettori sia gli interiori che i posteriori.
I legionari corsero sugli spalti e cominciarono a
sparare fino a quando accortosi che nessuno rispondeva loro, smisero di
sparare.
Fu solo uno spreco di munizioni.
Visto quello che era successo, mandarono a chiamare la sentinella di turno
a quel lato.
Ancora traballando mi presentai portando la mano
alla visiera del berretto.
Solo che il berretto non ce lo avevo, chissà dove era finito.
Il comandante mi ringraziò per quello che avevo
fatto chiamandomi Duval e mi fece smontare dal turno di guardia e mi mandò a
dormire.
Mentre stavo sdraiato nella branda, mi ricordai di
quello che mi era accaduto in Francia.
Ero a Parigi, mi ricordo di andarmene per i fatti
miei quando fui assalito.
Mi trovavo in una zona isolata, vidi un ragazzo più o meno della mia età,
aveva in mano un coltello e da come capii voleva derubarmi.
Non avevo nessuna voglia di lasciarmi derubare e mi ero messo in posizione
per affrontarlo, quando sentii un gran colpo colpirmi da dietro, poi mi
ritrovai in ospedale.
La mattina dopo alla presenza di tutti, mi fu
appuntata al petto una medaglia al merito.
Dopo la cerimonia chiesi di voler parlare con il comandante.
Una volta nel suo ufficio gli dissi quello che mi era accaduto.
Lui ne rimase colpito e mi assicurò di riferirlo
al comando in Francia, ma fino a che non potevo lasciare l’Algeria, avrei
dovuto restare nella legione e fare il mio dovere.
Nel Forte c’era un armiere che oltre ad occuparsi
della riparazione delle armi, lavorava il ferro.
Un giorno lo andai a trovare e gli chiesi se mi
poteva fare un giubbetto anti proiettili.
Me ne fece vedere uno che aveva già fatto ma che
nessuno aveva mai indossato.
Era pesante e di giorno con il calore di cinquanta
e più gradi, non lo si poteva portare.
Era monito di un sottogola, fatto apposta per
proteggere la gola da una lama che avesse provato a tagliarla.
Da un pó di tempo mi ero accorto di sopportare
bene, sia il caldo, che il freddo.
Di giorno sotto il sole non sudavo, sudavo solo
quando passavo dal sole all’ombra e di notte potevo avere la pelle fredda come
il ghiaccio, ma non sentivo freddo.
Mi sono sempre chiesto se ero del pianeta Terra o un extraterrestre.
Mi feci dare il giubbetto e lo indossavo ogni volta che ero di guardia e ogni
volta durante i combattimenti.
Il sottogola mi salvò la vita più di una volta
quando di notte ero di sentinella.
Gli arabi quando volevano, erano silenziosi come i gatti, te li trovavi
addosso quando meno te lo aspettavi.
Mi ricordo di una notte, stavo guardando verso le
dune, mi era parso di vedere qualcuno muoversi, quando sentii un braccio
passarmi da dietro e una mano armata di coltello passare sotto la gola, se non
avessi avuto il giubino con il sottogola, sarei già morto da un pezzo, invece,
mi lasciai cadere come morto, per poi girarmi e sparare all’assaltante che mi
guardava incredulo (chissà se prima di morire abbia detto: « Ma non doveva
essere morto? »
Non mi era mai piaciuto uccidere, ma lì alla Legione
o si uccideva o si veniva
uccisi.
Quando il comandante vide che i giubbini oltre a
fermare le pallottole, proteggevano anche la gola, fece fare una quantità di
giubbini dall’armiere e obbligò i legionari ad indossarli.
In quel modo ridusse il numero di morti.
Quando venivamo assaliti, invece di stare chino
dietro la merlatura del Forte, stavo dritto, così potevo prendere bene la mira
e fare il tiro al bersaglio.
Ogni colpo, un ribelle cadeva giù.
Quando venivo colpito, il colpo mi faceva sbandare
e alle volte anche cadere, ma poi mi rialzavo e riprendevo a sparare.
I miei compagni mi chiamavano l’italiano pazzo, gli arabi
(in lingua italiana)
era: “ Quello
che non moriva mai “.
Rimasi ferito varie volte, ma si trattava sempre
di cosa da nulla, purtroppo il giubbino non proteggeva la testa o le braccia
Ma quando venivo ferito, era sempre di striscio, solo graffi.
Ogni volta che gli arabi si ritiravano, andavo in
infermeria a farmi medicare.
Era più la divisa che ne soffriva, che il corpo.
Dopo ogni combattimento dovevo rammendare i fori
provocati dalle pallottole.
Chissà quanto valeva la mia morte per gli arabi.
Il mio bersaglio preferito erano i capibanda.
Come né vedevo uno, lasciavo in pace gli altri e
noncurante delle pallottole che mi passavano vicino, prendevo con calma la mira
e Pam! Lo uccidevo sul colpo e ogni volta che questo accadeva, i legionari
gridavano di gioia e gli arabi si ritiravano per eleggere un nuovo capo.
Ogni sei mesi ricevevamo rinforzi, che andavano a sostituire i legionari
morti.
Una volta, al giorno stabilito per l’arrivo dei rinforzi, non arrivò
nessuno.
Il comandante fece chiamare la base per sapere
come mai non erano arrivati i rinforzi, da Sidi-Bel-Abbes risposero che i rinforzi
erano partiti la mattina prima dell’alba.
Il comandante era preoccupato.
Non poteva fare uscire nessuna pattuglia alla ricerca dei rinforzi.
Mi offrii di andarci con un altro legionario e
insieme con Scultz (un legionario tedesco), uscii dal forte e ci dirigemmo
nella direzione da dove sarebbero dovuti giungere i rinforzi.
Eravamo giunti nei pressi di una gola, quando vedemmo un gran numero di
avvoltoi che giravano in alto.
Dove c’erano gli avvoltoi, ci dovevano essere morti o feriti.
Ci stavamo dirigendo verso la gola, quando apparve un cavaliere.
Scultz si gettò a terra, pronto a sparare, io
piegai un ginocchio in terra, in quella posizione potevo sostenere il mio
fucile a canna lunga e mirare meglio.
L’arabo pensava di essere fuori tiro; ma non da me.
Presi accuratamente la mira e...Pam!
In un attimo pensai di non averlo preso, ma poi
vidi l’arabo cadere da cavallo.
Lo sparo attirò altri arabi che uscirono dalla
gola e si fermarono accanto al loro compagno, per vedere cosa gli era successo,
poi guardarono dalla nostra parte e vedendo che d’avanti a loro c’erano solo
due legionari, si prepararono per attaccarci.
Come il primo cavaliere balzò in avanti...Pam! lo gettai da cavallo.
Gli altri si fecero più prudenti, allargandosi a ventaglio.
Io cominciai a sparare a quelli che venivano sulla
destra, Scultz a quelli di sinistra.
Purtroppo i suoi tiri erano imprecisi ed erano più
quelli che avanzavano che
quelli che uccideva e alla fine fu preso dal
panico; si alzò in piedi e prese a fuggire.
Anche vedendo quello che stava facendo, non lo potevo aiutare.
Quando abbattei l’ultimo cavaliere, mi girai dal suo lato.
Scultz giaceva a terra e un arabo sceso da cavallo
con la scimitarra gli stava per dare il colpo di grazia, presi la mira e
noncurante delle pallottole che mi sfioravano, uccisi l’arabo che aveva
sollevato la scimitarra e stava per colpire.
Fui colpito varie volte, ma grazie al giubetto antiproiettili non morii; al
contrario morirono tutti gli arabi che ci avevano attaccati.
Mentre stavo vicino a Scultz vidi un altro arabo
all’imbocco della gola che stava a guardare; probabilmente era rimasto là ad
assistere allo scontro con i suoi compagni.
Lo vidi alzare il fucile, ma non per spararmi,
sembrava invece, a mó di saluto.
Essendo Scultz ancora vivo, me lo caricai sulle
spalle e poco alla volta, tornai al Forte.
Feci rapporto al comandante dicendo di quello che
avevo visto e cioè di tanti avvoltoi che volavano sopra la gola e dello scontro
con gli arabi che io e Scultz eravamo stati protagonisti.
Scultz era stato colpito due volte alla schiena e anche se era tornato al
Forte vivo, morì mentre gli toglievano le pallottole.
Il giorno seguente ricevemmo una ambasciaria; un
arabo con un panno bianco chiese di parlare con il comandante.
L’arabo riferì della imboscata cui era stata fatta
alla squadra di rinforzi che attendevamo, disse di avere nel suo accampamento
dieci superstiti e che l’Emiro Abd-El-Kader voleva scambiare con il legionario
che non moriva mai.
Se non avesse accettato, i superstiti sarebbero
stati uccisi dopo essere stati torturati a lungo.
Il comandante gli disse che ci avrebbe pensato e
lo mandò via; poi mi mandò a chiamare.
Anche se ero un semplice caporale, mi trattò come
se fossi un graduato superiore, riferendomi della proposta fatta dall’Emiro.
Disse che, la vita di dieci uomini era più
importante della vita di uno solo; anche se gli dispiaceva usarmi come scambio,
disse che sarei stato un eroe e ricordato a lungo.
Fece richiamare l’arabo dicendogli di riferire
all’Emiro che accettava lo scambio, ma che voleva che i dieci superstiti
fossero stati portati d’avanti al Forte, lì sarebbe avvenuto lo scambio.
Quando giunsero i dieci legionari, fui salutato da
tutti e escii dal Forte verso il mio destino che sicuramente sarebbe stata, la
morte.
Per quella occasione non avevo indossato il giubetto.
Se dovevo morire, almeno non avrei fatto sapere
che fino allora ero vivo grazie al giubetto che mi aveva protetto dalle
pallottole; per di più volli indossare la divisa da combattimento tutta
traforata dalle pallottole.
Nonostante fossi tenuto di mira da tanti fucili, nessuno mi sparò.
Fui portato nella tenda dell’Emiro il quale mi invitò a prendere il Té.
Anche se non mi aspettavo quell’invito, mi sedetti
alla maniera araba, incrociando le gambe.
Prima che portassero il Té, l’Emiro in perfetto francese mi domandò come
mai anche se colpito, non morivo.
Non dissi del giubetto foderato da placche di
acciaio, risposi nel mio cattivo francese: « Noi non siamo padroni della nostra
vita, solo il Signore decide quando dobbiamo morire e se fino a poco prima, Lui
mi proteggeva con la sua mano, non voleva dire che lo facesse in eterno, potevo
bere il suo Té avvelenato o morire bevendo della più pura acqua. »
Sbottonandomi la giacca la porsi all’Emiro.
Lui la guardò; era tutta traforata da sembrare un
colabrodo, poi gli mostrai il petto dove si vedevano i lividi che lasciavano i
colpi ricevuti.
L’Emiro dopo aver guardato la giacca e il mio
petto, chiamò qualcuno e dopo aver parlato in una lingua che non conoscevo gli
consegnò la giacca e lui la portó fuori a mostrarla a tutti gli altri.
Fu servito il Té con i pasticcini da una ragazza
in costume arabo, con il volto coperto da un velo.
Era molto bella.
Se mi avessero detto, quale era il mio ultimo
desiderio, avrei risposto: « Di fare l’amore con lei. »
Mi servii abbondantemente, fosse l’ultima volta che lo facevo.
Purtroppo non mi domandarono quale fosse stato, il
mio ultimo desiderio prima di morire.
Cominciai a sentire le palpebre farsi pesanti.
Mi sembrava di stare per morire.
Era una dolce morte, senza soffrimento.
Mi ricordo che, prima di perdere i sensi, stavo
guardando la ragazza e le sorridevo, ero contento di morire e portarmi
nell’aldilà il suo viso (anche se schermato dal velo).
Invece, non morii.
Mi svegliai disteso su dei cuscini.
Ero solo nella tenda.
Non ero legato, così mi alzai e mi diressi verso l’uscita.
Mi aspettavo di trovare delle guardie fuori della tenda.
Non c’era nessuno, poi sentii tante voci e mi diressi da quella parte.
Facendomi largo tra gli arabi, vidi cosa avesse attratto tutti gli arabi.
Erano tutti i legionari che stavano nel Forte, compreso il comandante.
Erano stati legati e posti in un recinto in mezzo ai cammelli e cavalli.
Mi stavo domandando cosa era successo quando nell’aria si sentì un rumore
che si fece sentire sempre più forte.
Gli arabi entrarono in agitazione e dopo aver sparato all’alto, montarono
sui cavalli o cammelli e sparirono nel deserto.
Con il sole alle spalle apparve una squadriglia di elicotteri.
Poco dopo due elicotteri si staccarono dal gruppo
e abbassandosi a pelo della terra, scaricarono non sò quanti legionari che una volta a terra
si sparpagliarono in tutte le direzioni alla ricerca di bersagli a cui sparare.
Purtroppo non c’era nessuno, a parte i cani e le capre
Dopo aver liberati i prigionieri, fummo scortati verso il Forte.
Lo trovammo devastato, gli arabi avevano portato
via tutto quello che potevano prendere, eccetto i cannoni.
Per fortuna nostra, dalla fretta di fuggire,
avevano lasciato nell’accampamento quasi tutto
quello che avevano rubato al Forte.
Quando tornò tutto calmo, venni a sapere che la colonna dei rinforzi aveva chiesto aiuto,
prima di essere soprafatti e che i dieci superstiti erano dei traditori che,
per avere salva la vita avevano aiutato gli arabi a conquistare il Forte senza
sparare un colpo.
Tutto continuò come prima senza nessuna novità.
Erano trascorsi due anni da quando forzatamente mi
ero venuto a trovare in
mezzo ai legionari al Forte Dupont, quando le cose
per la Legione
cominciarono
ad andare male.
Le notizie ci giungevano per radio.
Gli algerini si erano uniti in forza e dopo vari
attentati ad Algeri, avevano preso a conquistare tutti i Forti, uno dopo l’altro.
Presto sarebbero arrivati da noi.
Non facevano prigionieri; non valeva la pena arrendersi, per i legionari
non c’era scampo.
Arrivarono di notte.
Dopo averci accerchiati, cominciarono a spararci, per la prima volta,
cannonate.
I tiri non erano precisi, i più cadevano corti, altri lunghi da
attraversare tutto il Forte per poi esplodere sulla sabbia.
Avevo preso posto nel punto più alto del Forte, cioè sulla torre.
Da lì, sparavo a tutti i cavalieri che mi venivano
a tiro; ma più né uccidevo, più né uscivano fuori.
Davano direzione al cannonieri e poco dopo, i
proiettili cominciarono a cadere nell’interno del Forte o contro le mura.
Anche se i nostri quatto cannoni si davano da fare
per controbattere quelli che ci sparavano; c’era poco da fare, uno dopo l’altro
furono colpiti e ci dovemmo rassegnare alla fine.
Avevo da un pezzo lasciato la torre e mi ero
andato a trovare un riparo.
E avevo fatto bene a lasciare la torre, perché
dopo averla lasciata, la torre fu colpita e crollò seppellendo tutti quelli che
si trovavano dentro, compreso il comandante.
Quando gli arabi videro che nostri cannoni tacevano, fecero smettere anche
i loro.
Ci avrebbero uccisi alla maniera loro.
Quando non sentimmo più i cannoni sparare, i pochi
rimasti presero posto dietro ogni feritoia o foro e cominciarono a sparare agli
arabi che ci attaccavano da ogni lato.
Quando cominciarono ad apparire sui splalti, non
ci rimase che riunirci nelle rovine della torre, aspettando l’ultimo assalto.
Venne la notte e con la notte gli assaltanti ci diedero una tregua.
Non ci volevano uccidere al buio.
Facemmo i conti di quanti eravamo rimasti.
Eravamo in dieci, di cui quattro erano feriti.
Oltre ai fucili, avevamo una mitragliatrice con
una cassetta di cartucce.
Mi ricordai di aver visto una mitragliatrice nella
torretta a sinistra della porta d’ingresso al Forte.
Chissà se era ancora là e se fosse in buono stato per sparare.
Bisognava andarla a prendere.
Anche se era notte, c’era la luna piena e era come
se fosse giorno, si vedeva benissimo e come noi vedevamo gli arabi appostati
sulle mura del Forte, loro vedevano noi, nelle macerie della torre.
Sono sempre stato un temerario e poi forte col mio
giubetto, uscii e tenendomi chino raggiunsi prima i ruderi di quelli che erano
i magazzini o gli alloggi, poi pian piano, raggiunsi la torretta e penetrai
nell’interno.
Mi stavo dirigendo verso il luogo dove avevo visto
che si doveva trovare la mitragliatrice, quando vidi qualcosa.
Mi fermai appiattendomi al suolo e cercai di abituare la vista al buio.
Più di vedere, sentii l’odore.
Qualcuno era penetrato nella torretta e la stava
usando per i propri bisogni corporali.
Senza fare rumore, mi portai alle sue spalle e con
il pugnale mi preparai a tagliargli la gola.
Ma dovevo fare in modo che non strillasse, per non
avere tutti gli arabi addosso.
Gli misi la mano sulla bocca e quando portai il
pugnale alla gola, mi accorsi che l’arabo era una donna.
Lo capii dalla rotondità dei seni, anche se coperti dagli abiti.
Non avevo ancora ucciso una donna, o almeno non a sangue freddo.
Che dovevo fare?
Lasciarla andare, neanche a parlarne, avrebbe dato l’allarme.
Avvicinando la bocca al suo orecchio le dissi nel
mio cattivo france-se: « Oggi non è il giorno per morire, ne per te, ne per me.
Domani sarà quello che deciderà Allah. Ora ti lascio, se strilli ti sparo, poi
morirò anch’io, ma tu mi precederai, perciò decidi tu. »Le tolsi la mano dalla
bocca e mi chinai a prendere la mitragliatrice e la cassetta con le cartucce
quando lei mi disse: « Dalla voce ho riconosciuto chi sei; sei quel legionario
che stava nella tenda dell’Emiro. »
A questo punto le dissi: « Lo sai, quando pensavo
che mi avrebbero ucciso, ho pensato “ se potessi esprimere un desiderio, mi
piacerebbe fare l’amore con quella ragazza”. »
Lei disse: « Anche io ho avuto lo stesso desiderio. »
« Mbè! Dato che non sappiamo cosa ci succederà domani, possiamo
approfittare dell’occasione propizia, facendo l’amore. »
Alina (era il suo nome) non si fece pregare, stesa
a terra, facemmo l’amore.
Saremmo rimasti uniti di più, se non fosse per l’alba che si approssimava.
Mi sollevai da lei, prendendo la mitragliatrice e
la cassetta delle cartucce e, tornai dai
miei compagni.
Aspettammo il giorno.
Il giorno arrivò, ma gli arabi non ci attaccarono.
Stavano lí fermi a guardarci.
Perché non sparavano e la facevano finita.
Che stessero giocando al gatto e topo?
Il tempo passava; nessuno faceva la prima mossa.
Poi da dietro la porta, appeso ad una canna
apparve un panno bianco e una voce in francese disse di voler parlare al
comandante.
Rispondemmo che, il comandante era morto.
Allora con un graduato.
Ci guardammo tra noi, l’unico ad avere il grado superiore, ero io, gli
altri erano legionari semplice o di 1ª classe.
Uscii allo scoperto, portando le mani alzate per far vedere che non ero
armato.
Anche se dietro la schiena, dentro la cinta dei pantaloni, nascondevo una
pistola.
Andai verso la porta e da dietro la porta apparve un arabo.
Come ci avvicinammo, ci riconoscemmo.
Lei era la ragazza che aveva servito il Té nella
tenda dell’Emiro e che si era concessa nella torretta e in quel momento non
portava il velo al viso.
Restammo a guardarci senza dire una parola.
« Cosa vuole l’Emiro da noi, che ci arrendiamo?
Sai che non lo faremo mai, sappiamo che voi non fate prigionieri. »
« Questa mattina ci è arrivata la notizia che; la Francia ha concesso
l’indipendenza all’Algeria e i francesi stanno lasciando l’Algeria. L’Emiro fa
sapere che potete lasciare il Forte e tornare a casa vostra; non vi sarà fatto
alcun male. »
Guardandola in un modo come per dire: « Ma a chi
vuole imbrogliare, lui sà che
venderemo cara la vita e con la nostra morte,
porteremo con noi tanti dei suoi
arabi. »
Lei indovinò quello che stavo pensando e disse: «
Mio padre non ha mai mancato alla parola data. »
Stavo per ribattere quando vidi un arabo puntarmi
il fucile e sparare.
Al momento stesso in cui lui mi sparò, io avevo
estratto la pistola e gli sparavo.
Solo che fu lui che morì, io colpito in pieno
petto, anche se caddi a terra mi rialzai illeso.
Ai due spari, sia i legionari che gli arabi cominciarono a sparare.
Non volendo che Alina venisse colpita, la presi stendendola a terra e
ponendomici sopra, la proteggevo con il mio corpo dalle pallottole.
« C’è sempre qualcuno che ci prova ad uccidermi. Chi era l’arabo che mi ha
sparato, lo conosci? »
« Si chiamava Assan ed era il mio promesso sposo. »
« Mi dispiace, ora dovrai trovarti un altro pretendente (magari me), » questo
lo pensai.
Mentre le stavo sopra, mi ritornò il desiderio di
lei e anche lei se ne accorse, spingendo il bacino contro il mio sesso.
Avremmo fatto l’amore, noncuranti delle pallottole
se non ci fossimo accorti che non sparavano più.
Capii che i legionari avevano finito le munizioni.
Anche gli arabi lo avevano capito e se non
sparavano, lo era perché avrebbero attaccato con le scimitarre e contro le
baionette non avevano paura, sarebbe stata una carneficina.
Mi rialzai cercando di raggiungere i miei compagni, sarei morto con loro.
Alina mi strinse a sé: « Non andare, ti uccideranno. »
« Mi dispiace, se non andassi, sarei un vigliacco e non avrei il coraggio
di vivere sapendo che i miei compagni sono morti e io non li ho potuti aiutare.
»
Staccandomi con forza, tornai alle rovine della torre.
Nessuno mi sparò.
Raggiunsi gli altri e aspettai.
Con una mano stringevo la pistola, con l’altra, la baionetta.
Stavo in piedi e attendevo l’attacco.
Ma l’attacco non giunse, anzi gli arabi si ritirarono.
Ci guardammo senza capire.
Non erano passati due minuti che riapparve Alina.
Gli andai incontro e lei mi disse che, lei, suo
padre e tutti gli altri sarebbero andati via, lasciandoci in pace per tornare
ad Algeri.
Gli dissi che fino a quando non ci venisse dato
l’ordine di abbandonare il Forte, saremmo rimasti.
Alina mi disse: « Ma non potete, siete rimasti
soli e restando, morirete di fame o di sete, date retta a mio padre, andate via.
»
« Ringrazia tuo padre del pensiero, ma noi
restiamo qui. Se vuoi mi puoi fare un favore, una volta tornati ad Algeri, vedi
se trovi qualche europeo e digli di noi, ti ringrazio anticipatamente e se il
destino lo vorrà, ci rivedremo prima o poi a Roma, ciao ».
La salutai e tornai dai miei compagni.
Dei nove che avevo lasciato, ne erano rimasti solo
quattro vivi, anche se in pessime condizioni.Anche volendo, con loro feriti,
non potevamo andare lontani.
Mi domandarono cosa voleva quell’arabo.
Dissi una bugia:« Rimarranno di fuori, non ci
attaccheranno e ci lasceranno morire, di fame e di sete, spareranno a chi
cercherà di lasciare il Forte. »
Cercammo tra le macerie: l’acqua e il cibo per non
morire di fame e di sete.
Rimanemmo una settimana, fino a quando arrivò un
elicottero della Croce Rossa che ci venne a prendere e portarci ad Algeri.
Da lì con un aereo, tornammo in Francia.
Mentre l’aereo si preparava a decollare, mi parve
di vedere una ragazza che sventolava un fazzoletto...sarà stata Alina?
Mi misi comodo nel sedile e poco dopo mi addormentai.
Fui svegliato da un trillo persistente; aprii gli occhi e vidi quello che
mi aveva svegliato.
Era la sveglia che stava sul comodino,vicino a me!
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