domingo, 18 de agosto de 2013

Sogno n.15 Al mare anno 2007

 
Ero al mare come ogni domenica, da quando aveva cominciato a fare caldo.
Stavo sdraiato sulla calda sabbia ad asciugarmi e a riposare dopo una lunga nuotata.
Fui attratto da una voce femminile.
Aprii gli occhi e vidi una signora chiamare qualcuno che stava in acqua.
Guardai le persone che s’incontravano a fare il bagno e poco dopo vidi un gruppo di ragazzi che giocavano con una palla, a un centinaio di metri dalla riva.
Giocavano in un punto dove l’acqua era bassa, non superava il ginocchio.
Conoscevo quel tratto di mare.
Per arrivare a quel punto, se si era fortunati, si poteva arrivarci da una striscia di sabbia oppure a nuoto.
Bisognava superare a nuoto, una fossa, un’avvallamento che spesso forma il mare.
La signora chiamò ancora e poco dopo vidi una figuretta staccarsi dagli altri, salutò gli amici e si diresse verso la riva.
Camminava nell’acqua.
Mano mano che si avvicinava alla fossa, vidi, si trattava di una ragazzina.
Sapevo già; tra poco si sarebbe tuffata e messa a nuotare per superare la fossa.
Ma lei non si tuffò.
Continuò a camminare fino a che, all’improvviso sparì sott’acqua.
Sicuramente era stata presa di sorpresa.
Di certo stava ancora a pensare agli amici che aveva da poco lasciato.
Aspettavo di vederla riapparire e vederla nuotare.
Ma non fu così.
Come tornò sù, cominciò ad agitare le mani, di certo in preda al panico.
Stavo vedendo una che stava per affogare.
In un attimo stavo in piedi, una corsa, un tuffo, due bracciate e stavo vicino a lei.
Allungai la mano e la presi.
Come sentì la mia mano, la strinse con forza, tirando e uscendo dal fondo.
Si aggrappò a me come un polipo.
Per tenersi fuori dall’acqua, mi montò sopra mandandomi sott’acqua.
Mi aspettavo quella mossa e non mi feci trovare impreparato.
Anche se avevo immagazzinato aria, non potevo resistere a lungo.
Cercai di liberarmi della ragazzina.
Aveva le gambe attorno alla mia vita, le braccia al collo.
Dandomi una spinta con i piedi, uscii dall’acqua e potei tirare un’altra boccata d’aria prima di ritrovarmi sott’acqua.
Così non poteva andare.
A finire, invece di affogare una, ne affogavano due.
Dovevo costringere la ragazzina ad allargare le gambe.
Ma sott’acqua non è tanto facile.
Anche se non vedevo dove andavo, cominciai a muovere le braccia e
le gambe in un nuoto strano, ma che mi avrebbe portato fuori dalla fossa.
Sempre emergendo e immergendo, poco dopo sentii il fondo sotto i piedi e poi delle mani su di me ad aiutarmi a tirarmi sù.
Sempre con la ragazzina avvinghiata a me, uscii dall’acqua.
Lei non mi lasciò e con lei aggrappata mi diressi verso la signora.
Anzi più che dirigermi, mi accompagnarono.
Non vedevo niente, avevo il viso coperto dal suo collo.
La signora, che poi era sua madre, avvolse un’asciugamano attorno al corpo della ragazzina e con parole dolci ma ferme, la signora convinse la ragazzina a lasciarmi.
Una volta libero, potei vedere.
Non si trattava di una ragazzina, come pensavo, ma di una piccola signorina, poteva avere si o no sedici anni.
La madre volle ringraziarmi alla sua maniera mettendo mano alla borsetta.
La fermai dicendole: « Quello che ho fatto, non merita compenso, non ho fatto che il mio dovere, aiutando chi aveva bisogno di aiu-
to. »
Poi indicando una signora: vecchia e brutta dissi: « Avrei salvato pure lei se fosse stata al posto di sua figlia. »
Attorno a noi si era radunata un pó di gente e tutti mi stringevano le mani o mi davano delle pacche sulla schiena.
Ero l’eroe del giorno, quello che aveva salvato una che stava per affogare.
Dato che non volevo i soldi, la signora mi invitò a pranzo.
Quello lo accettai.
Arrivati al ristorante, fui accennato da varie persone e chi non lo sapeva, seppe che ero quello che aveva salvato la ragazzina.
Cercavammo un posto per sederci, ma era tutto occupato.
Mentre decidevamo cosa fare, arrivò il padrone del ristorante e presici per mano ci portò ad un tavolo che era quasi pieno ma, ci fecero posto.
Il padrone disse: « Quello che prende il ragazzo è offerto dalla ca-sa.»
Tentai di rifiutare, ma quello aggiunse: « Lo scorso anno mio figlio è morto affogato, se c’eravate voi, di certo si sarebbe salvato ».
Lo disse con le lacrime agli occhi. Accettai l’offerta e ci mettemmo a tavola.
Mentre mangiavamo i genitori di Marina ( era il nome della ragazzi-na ), contemporaneamente mi dissero: « Non sappiamo chi dobbia-mo ringraziare. »
Mi presentai: « Mi chiamo Luigi Rossi, ho diciannove anni, studio Ingegneria navale e abito a Roma ».
Marina che per tutto il pranzo non aveva smesso di parlare, anzi di cinguettare disse:
« Io mi chiamo Marina Del Prete, ho quasi sedici anni, studio Belle Arti e anchio abito a Roma. Mio padre è un grande pittore, ha lo Studio in Via Margutta e ha la macchina Alfa Romeo. »
« Se è per questo, ce l´ho pure io la macchina, è una Mini Morris sportiva, è molto veloce, ma a me non piace correre. »
Poi il discorso andò a Marina, alla paura avuta nel vederla affogare.
Rivolgendomi a Marina diss: « Sai nuotare? »
« Nò! Nessuno me lo ha insegnato, è la prima volta che vado al ma-re; prima abitavamo lontano da Roma, in montagna e lì non c’era neanche un lago. »
Rivolgendomi ai suoi genitori dissi: « Se volete, posso insegnare a Marina come non affogare. Alle volte non è necessario saper nuota-re, l’importante è tenersi a galla
Lo studio che frequento è molto impegnativo, non mi concede riposo per tutta la settimana, ne vado con gli amici che fraquentano lo stesso corso; ma la domenica se non piove, non voglio sentir parlare   di barche o di navi, vado al mare o fuori Roma a cono-scere luoghi nuovi. »
Finito il pranzo, tornammo alla spiaggia per digerire, leggendo qualcosa.
Marina non mi lasciava in pace, mi faceva un sacco di domande, alle quali, non sempre rispondevo o dicevo la verità.
Voleva sapere se avevo la ragazza.
Risposi di nò, ancora non ci avevo pensato, tutto preso agli studi.
Una ragazza mi avrebbe distratto e poi era ancora presto per pensare a quelle cose.
La risposta dovette piacere a lei dal sorrisetto sbarazzino sorto sulle labbra.
Era meglio uscire da quella situazione; così spiegai a Marina quale era la cosa più importante per imparare a nuotare.
La prima cosa era: sapersi tenere a galla.
Spiegai: « Bisogna prendere confidenza con il mare e cioè, tuffarsi e lasciarsi andare, come se invece dell’acqua, fosse tra le braccia di chi si vuole bene come i tuoi genitori o il tuo innamorato. »
« Ma io l’innamorato non ce lò, » rispose Marina.
« Questo è un modo di dire; facciamo conto che tu ce l’avessi, non ti butteresti come se tu fosti un blocco di cemento, ma come una farfalla o una piuma, facendo così, non andresti a fondo, ma galleggerai come una barca o una palla. »
Passato il tempo per la digestione, volli tornare a fare il bagno, invitando Marina a seguirmi.
Marina mi seguì con un fare prudente; l’accaduto della mattina le era ancora impressa nel-la mente.
La incoraggiai dicendole: « Vieni, ci sono qua io, non aver paura.»
Mi tuffai dove l’acqua era profonda e dopo essere andato giù, tornai a galleggiare muoven-do le braccia e le gambe, come avevo imparato a fare.
Marina aveva paura, non voleva entrare in acqua.
Così uscii a prenderla per mano, cercai di farla entrare in acqua.
Apriti cielo! Cominciò a strillare e a divincolarsi.
Non mi è mai piaciuto usare la forza, specie con una donna.
Così la lasciai e lei corse tra le braccia della madre piangendo.
Mi avvicinai e parlando con calma, le dissi: « Se ti metti paura del mare, allora non ti resta che andare in montagna; almeno lì non rischi di affogare, tutto al più puoi cadere e romperti l’osso del collo o una gamba. Ora ti racconto quello che mi è accaduto lo scorso anno. Ero a Civitavecchia, in una zona ricca di cozze; però quelle più grosse, si trovavano in profondità. Così, da uno scoglio, mi tuffavo, andavo giù, prendevo un pò di cozze e risalivo per prendere aria, mettevo le cozze in un retino, risalivo sullo scoglio e poi un tuffo e giù a quattro o cinque metri. Ero al quinto tuffo, stavo staccando le cozze dalla parete, quando sentii qualcosa vicino al piede destro; pensai fosse un pesce e non ci feci caso. Quando feci per risalire, mi accorsi di avere il piede bloccato; qualcosa mi tratteneva. Invece di farmi prendere dal panico, lasciai le cozze che avevo preso e mi chinai, con la mano cercai di liberare il piede. Come portai la mano al piede, qualcosa si avvolse attorno alla mia mano e al braccio. Capii di cosa si trattava. Era un polipo. Puntando l’altro piede alla roccia, feci forza spingendomi al largo.Tre erano le cose: o il polipo mi lasciava, o gli si staccavano i tentacoli, oppure sarei morto affogato. Quando stavo per aprire la bocca per respirare, mi sentii sollevare e spingendomi con i piedi, tornai a galla e potei respirare quella buona aria salmastra. Quando mi sollevai sullo scoglio, mi accorsi di avere ancora il polipo attorcigliato al piede. Dato che, mi aveva voluto seguire dalla sua tana, lo invitai a seguirmi a casa. Sapete come finì? Lo mangiammo stufato con le patate, pomodori e piselli. Da quel giorno, nonostante la paura di affogare, tornai lì di nuovo a prendere le cozze e magari qualche polipo imprudente. »
Il mio racconto li  fece; prima stare in apprenzione e poi a ridere per lo scampato pericolo.
Quel giorno finì così.
Ci lasciammo, promettendo  rivederci la domenica successiva.
La settimana non voleva passare, non riuscivo a concentrarmi alle lezioni, il pensiero stava a quella ragazzina di nome Marina.
Anche se come una lumaca, la settimana passò.
Rifiutai qualsiasi invito e la dominica, prima che cominciasse il traffico, lasciai la città e andai a Ostia allo stabilimento in cui c’eravamo visti la domenica prima.
Loro non erano ancora arrivati.
Per evitare che qualcuno prendesse il loro posto, montai due ombrel-loni, delle sdraie che avevo affittato, stesi varie tovaglie, giornali e libri, poi su una sdraio, mi misi in attesa del loro arrivo.
La spiaggia si andava riempiendo e loro non arrivavano.
Che ci avessero ripensato?
Invece nò, arrivarono verso le undici.Andai loro incontro.
Si scusarono per il traffico.
Feci vedere il posto che avevo occupato per loro.
Mi ringraziarono e dopo essersi cambiati in cabina, si misero comodi sulla spiaggia infuocata.
Portai Marina dove l’acqua era bassa; a lei gli arrivava al mento, poi stendendo le mani sotto di lei, le insegnai a tenersi a galla.
Non è stata una cosa facile, sulle prime, Marina era rigida come una barra di ferro, come abbassavo le mani, lei andava giù.
Senza fretta, domenica dopo domenica, alla fine dell’estate, Marina nuotava come una sirena.
Non aveva più paura dell’acqua e quando ci incontravamo, era lei che mi sfidava.
Purtroppo, quando giunse il mese di Settembre, mio padre mi iscrisse all’Accademia di La Spezia e non ci vedemmo più.
Fu solo un sogno.


























                                        
  

                                                                                    

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