Ero al mare come ogni domenica, da quando aveva
cominciato a fare caldo.
Stavo sdraiato sulla calda sabbia ad asciugarmi e a riposare dopo una lunga
nuotata.
Fui attratto da una voce femminile.
Aprii gli occhi e vidi una signora chiamare
qualcuno che stava in acqua.
Guardai le persone che s’incontravano a fare il
bagno e poco dopo vidi un gruppo di ragazzi che giocavano con una palla, a un
centinaio di metri dalla riva.
Giocavano in un punto dove l’acqua era bassa, non
superava il ginocchio.
Conoscevo quel tratto di mare.
Per arrivare a quel punto, se si era fortunati, si
poteva arrivarci da una striscia di sabbia oppure a nuoto.
Bisognava superare a nuoto, una fossa,
un’avvallamento che spesso forma il mare.
La signora chiamò ancora e poco dopo vidi una
figuretta staccarsi dagli altri, salutò gli amici e si diresse verso la riva.
Camminava nell’acqua.
Mano mano che si avvicinava alla fossa, vidi, si
trattava di una ragazzina.
Sapevo già; tra poco si sarebbe tuffata e messa a
nuotare per superare la fossa.
Ma lei non si tuffò.
Continuò a camminare fino a che, all’improvviso sparì sott’acqua.
Sicuramente era stata presa di sorpresa.
Di certo stava ancora a pensare agli amici che
aveva da poco lasciato.
Aspettavo di vederla riapparire e vederla nuotare.
Ma non fu così.
Come tornò sù, cominciò ad agitare le mani, di
certo in preda al panico.
Stavo vedendo una che stava per affogare.
In un attimo stavo in piedi, una corsa, un tuffo,
due bracciate e stavo vicino a lei.
Allungai la mano e la presi.
Come sentì la mia mano, la strinse con forza,
tirando e uscendo dal fondo.
Si aggrappò a me come un polipo.
Per tenersi fuori dall’acqua, mi montò sopra
mandandomi sott’acqua.
Mi aspettavo quella mossa e non mi feci trovare impreparato.
Anche se avevo immagazzinato aria, non potevo resistere a lungo.
Cercai di liberarmi della ragazzina.
Aveva le gambe attorno alla mia vita, le braccia al collo.
Dandomi una spinta con i piedi, uscii dall’acqua e potei tirare un’altra
boccata d’aria prima di ritrovarmi sott’acqua.
Così non poteva andare.
A finire, invece di affogare una, ne affogavano due.
Dovevo costringere la ragazzina ad allargare le gambe.
Ma sott’acqua non è tanto facile.
Anche se non vedevo dove andavo, cominciai a muovere le braccia e
le gambe in un nuoto strano, ma che mi avrebbe portato fuori dalla fossa.
Sempre emergendo e immergendo, poco dopo sentii il fondo sotto i piedi e poi
delle mani su di me ad aiutarmi a tirarmi sù.
Sempre con la ragazzina avvinghiata a me, uscii dall’acqua.
Lei non mi lasciò e con lei aggrappata mi diressi verso la signora.
Anzi più che dirigermi, mi accompagnarono.
Non vedevo niente, avevo il viso coperto dal suo collo.
La signora, che poi era sua madre, avvolse
un’asciugamano attorno al corpo della ragazzina e con parole dolci ma ferme, la
signora convinse la ragazzina a lasciarmi.
Una volta libero, potei vedere.
Non si trattava di una ragazzina, come pensavo, ma
di una piccola signorina, poteva avere si o no sedici anni.
La madre volle ringraziarmi alla sua maniera
mettendo mano alla borsetta.
La fermai dicendole: « Quello che ho fatto, non
merita compenso, non ho fatto che il mio dovere, aiutando chi aveva bisogno di
aiu-
to. »
Poi indicando una signora: vecchia e brutta dissi:
« Avrei salvato pure lei se fosse stata al posto di sua figlia. »
Attorno a noi si era radunata un pó di gente e
tutti mi stringevano le mani o mi davano delle pacche sulla schiena.
Ero l’eroe del giorno, quello che aveva salvato
una che stava per affogare.
Dato che non volevo i soldi, la signora mi invitò a pranzo.
Quello lo accettai.
Arrivati al ristorante, fui accennato da varie
persone e chi non lo sapeva, seppe che ero quello che aveva salvato la
ragazzina.
Cercavammo un posto per sederci, ma era tutto occupato.
Mentre decidevamo cosa fare, arrivò il padrone del ristorante e presici per
mano ci portò ad un tavolo che era quasi pieno ma, ci fecero posto.
Il padrone disse: « Quello che prende il ragazzo è
offerto dalla ca-sa.»
Tentai di rifiutare, ma quello aggiunse: « Lo scorso
anno mio figlio è morto affogato, se c’eravate voi, di certo si sarebbe salvato
».
Lo disse con le lacrime agli occhi. Accettai
l’offerta e ci mettemmo a tavola.
Mentre mangiavamo i genitori di Marina ( era il
nome della ragazzi-na ), contemporaneamente mi dissero: « Non sappiamo chi
dobbia-mo ringraziare. »
Mi presentai: « Mi chiamo Luigi Rossi, ho
diciannove anni, studio Ingegneria navale e abito a Roma ».
Marina che per tutto il pranzo non aveva smesso di
parlare, anzi di cinguettare disse:
« Io mi chiamo Marina Del Prete, ho quasi sedici
anni, studio Belle Arti e anchio abito a Roma. Mio padre è un grande pittore,
ha lo Studio in Via Margutta e ha la macchina Alfa Romeo. »
« Se è per questo, ce l´ho pure io la macchina, è
una Mini Morris sportiva, è molto veloce, ma a me non piace correre. »
Poi il discorso andò a Marina, alla paura avuta
nel vederla affogare.
Rivolgendomi a Marina diss: « Sai nuotare? »
« Nò! Nessuno me lo ha insegnato, è la prima volta
che vado al ma-re; prima abitavamo lontano da Roma, in montagna e lì non c’era
neanche un lago. »
Rivolgendomi ai suoi genitori dissi: « Se volete,
posso insegnare a Marina come non affogare. Alle volte non è necessario saper
nuota-re, l’importante è tenersi a galla
Lo studio che frequento è molto impegnativo, non mi concede riposo per
tutta la settimana, ne vado con gli amici che fraquentano lo stesso corso; ma
la domenica se non piove, non voglio sentir parlare né di
barche o di navi, vado al mare o fuori Roma a cono-scere luoghi nuovi. »
Finito il pranzo, tornammo alla spiaggia per digerire, leggendo qualcosa.
Marina non mi lasciava in pace, mi faceva un sacco di domande, alle quali,
non sempre rispondevo o dicevo la verità.
Voleva sapere se avevo la ragazza.
Risposi di nò, ancora non ci avevo pensato, tutto preso agli studi.
Una ragazza mi avrebbe distratto e poi era ancora presto per pensare a
quelle cose.
La risposta dovette piacere a lei dal sorrisetto sbarazzino sorto sulle
labbra.
Era meglio uscire da quella situazione; così spiegai a Marina quale era la
cosa più importante per imparare a nuotare.
La prima cosa era: sapersi tenere a galla.
Spiegai: « Bisogna prendere confidenza con il mare
e cioè, tuffarsi e lasciarsi andare, come se invece dell’acqua, fosse tra le
braccia di chi si vuole bene come i tuoi genitori o il tuo innamorato. »
« Ma io l’innamorato non ce lò, » rispose Marina.
« Questo è un modo di dire; facciamo conto che tu
ce l’avessi, non ti butteresti come se tu fosti un blocco di cemento, ma come
una farfalla o una piuma, facendo così, non andresti a fondo, ma galleggerai
come una barca o una palla. »
Passato il tempo per la digestione, volli tornare
a fare il bagno, invitando Marina a seguirmi.
Marina mi seguì con un fare prudente; l’accaduto della mattina le era
ancora impressa nel-la mente.
La incoraggiai dicendole: « Vieni, ci sono qua io, non aver paura.»
Mi tuffai dove l’acqua era profonda e dopo essere andato giù, tornai a
galleggiare muoven-do le braccia e le gambe, come avevo imparato a fare.
Marina aveva paura, non voleva entrare in acqua.
Così uscii a prenderla per mano, cercai di farla entrare in acqua.
Apriti cielo! Cominciò a strillare e a divincolarsi.
Non mi è mai piaciuto usare la forza, specie con una donna.
Così la lasciai e lei corse tra le braccia della madre piangendo.
Mi avvicinai e parlando con calma, le dissi: « Se
ti metti paura del mare, allora non ti resta che andare in montagna; almeno lì
non rischi di affogare, tutto al più puoi cadere e romperti l’osso del collo o
una gamba. Ora ti racconto quello che mi è accaduto lo scorso anno. Ero a
Civitavecchia, in una zona ricca di cozze; però quelle più grosse, si trovavano
in profondità. Così, da uno scoglio, mi tuffavo, andavo giù, prendevo un pò di
cozze e risalivo per prendere aria, mettevo le cozze in un retino, risalivo sullo
scoglio e poi un tuffo e giù a quattro o cinque metri. Ero al quinto tuffo,
stavo staccando le cozze dalla parete, quando sentii qualcosa vicino al piede
destro; pensai fosse un pesce e non ci feci caso. Quando feci per risalire, mi
accorsi di avere il piede bloccato; qualcosa mi tratteneva. Invece di farmi
prendere dal panico, lasciai le cozze che avevo preso e mi chinai, con la mano
cercai di liberare il piede. Come portai la mano al piede, qualcosa si avvolse
attorno alla mia mano e al braccio. Capii di cosa si trattava. Era un polipo.
Puntando l’altro piede alla roccia, feci forza spingendomi al largo.Tre erano
le cose: o il polipo mi lasciava, o gli si staccavano i tentacoli, oppure sarei
morto affogato. Quando stavo per aprire la bocca per respirare, mi sentii
sollevare e spingendomi con i piedi, tornai a galla e potei respirare quella
buona aria salmastra. Quando mi sollevai sullo scoglio, mi accorsi di avere
ancora il polipo attorcigliato al piede. Dato che, mi aveva voluto seguire
dalla sua tana, lo invitai a seguirmi a casa. Sapete come finì? Lo mangiammo
stufato con le patate, pomodori e piselli. Da quel giorno, nonostante la paura
di affogare, tornai lì di nuovo a prendere le cozze e magari qualche polipo
imprudente. »
Il mio racconto li fece; prima stare
in apprenzione e poi a ridere per lo scampato pericolo.
Quel giorno finì così.
Ci lasciammo, promettendo rivederci
la domenica successiva.
La settimana non voleva passare, non riuscivo a
concentrarmi alle lezioni, il pensiero stava a quella ragazzina di nome Marina.
Anche se come una lumaca, la settimana passò.
Rifiutai qualsiasi invito e la dominica, prima che
cominciasse il traffico, lasciai la città e andai a Ostia allo stabilimento in
cui c’eravamo visti la domenica prima.
Loro non erano ancora arrivati.
Per evitare che qualcuno prendesse il loro posto, montai
due ombrel-loni, delle sdraie che avevo affittato, stesi varie tovaglie,
giornali e libri, poi su una sdraio, mi misi in attesa del loro arrivo.
La spiaggia si andava riempiendo e loro non arrivavano.
Che ci avessero ripensato?
Invece nò, arrivarono verso le undici.Andai loro incontro.
Si scusarono per il traffico.
Feci vedere il posto che avevo occupato per loro.
Mi ringraziarono e dopo essersi cambiati in
cabina, si misero comodi sulla spiaggia infuocata.
Portai Marina dove l’acqua era bassa; a lei gli arrivava al mento, poi
stendendo le mani sotto di lei, le insegnai a tenersi a galla.
Non è stata una cosa facile, sulle prime, Marina
era rigida come una barra di ferro, come abbassavo le mani, lei andava giù.
Senza fretta, domenica dopo domenica, alla fine
dell’estate, Marina nuotava come una sirena.
Non aveva più paura dell’acqua e quando ci
incontravamo, era lei che mi sfidava.
Purtroppo, quando giunse il mese di Settembre, mio
padre mi iscrisse all’Accademia di La
Spezia e non ci vedemmo più.
Fu solo un sogno.
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