segunda-feira, 19 de agosto de 2013

Sogno n.27 Diario dell'ultimo Legionario Romano anno 2008

 
Mi chiamo Caio Semplicium naqui nell’anno 222 a Norba, lo stesso anno in cui fu assassinato l’Imperatore Heliogabalo.
La nostra casa si trovava in via Lautitia, nel lato della muraglia che guardava per il fiume.
Mio padre e i suoi amici avevano passato tutta la loro vita a lottare.
Erano stati uomini della Settima Legione, dall’anno 180 sotto Comodo Cesare. Abituato a combattere in luoghi fronteristici, con poca esperienza e male pagati.
Con la vittoria di Setimio Severo, la sorte voltò verso la sua figura.
Grazie al suo valore, l’Imperatore lo congedò dandogli come ricompen-sa una tenuta agricola e l’incarico di provvedere al rifornimento di ca-valli all’esercito.
Io, si può dire: naqui a cavallo.
Da che mi ricordo, passai tutta la mia via a cavallo.   
Fui arruolato quando avevo diciasette anni, l’ultima volta, ne avevo quarantacinque.
Essendo vissuto sempre in mezzo ai cavalli, fui arruolato a far parte della cavalleria.
Il mio armamento oltre la lancia e la spada (glaudio) era di una mazza ferrata.
La mazza ferrata era formata da un manico di duro legno foderato di morbida pelle con un laccio da passare nel polso, c’era poi una catena lunga tre palmi che terminava con una sfera di ferro puntuata.
Quando caricavamo, una volta lanciata la lancia, mi aprivo la strada con la mazza ferrata e se mi trovavo disarcionato, con la spada.
Durante le varie licenze, mi sono sposato e avevo un figlio di nome Tito.
La mia famiglia viveva a Centocelle, un soburgo di Roma.
Ho fatto diverse campagne e sempre nella cavalleria.
Sono stato ferito varie volte, ma mai in modo grave.
Il legionario che era ferito in modo grave o morto, pertanto incapace di combattere, veniva congedato.
Stavo a Capua, nel campo della Legione Diciottesima Invicta, quando venni chiamato per scortare insieme ad altri cinque legionari, il Centu-rione Manilio Claudiano.
Da Capua, seguendo la via Appia ci avvicinavamo giorno dopo giorno a Roma.
Ero felice perché sapevo di poter passare almeno un giorno con la mia famiglia.
Dopo varie soste in stalaggi dovemmo pernottare all’aperto nel bosco che c’era sul monte Circeo.
Dopo aver smontato dal mio turno di guardia, mi avvolsi nel mantello e mi addormentai.
L’alba ci colse in una nebbia tanto fitta che dovemmo procedere a piedi per non sbattere contro qualche albero.
Non sò quanto camminammo.
Quando uscimmo dal bosco, la nebbia si era dissolta e c’era un tiepido sole.
Poco lontano dalla strada avvistammo una casa.
Era una casa strana. Non era di pietra, né aveva il tetto di paglia.
Arrivati pressola porta, Tizio batté con il pomo della spada e continuò a battere fino a che, l’uscio si aprì.
Manlio chiese in nome dell’Imperatore cibo e fuoco per lui e per noi.
Quello rimase a bocca aperta e non disse nulla.
Il pretoriano lo scostò ed entrammo in casa lasciando Tizio a gurdia dei cavalli.
A nulla valsero le varie richieste, l’uomo o non capiva o era muto.
Senza tanti complimenti Manlio disse a me e ad un mio compagno di cercare qualcosa da mangiare e da bere.
Trovato quello che cercavamo e messo sulla tavola cominciammo a mangiare.
Mentre ero alla ricerca del cibo e del bere, gli altri avevano acceso il fuoco nel camino e mentre mangiavamo, ci toglievamo l’umidità che avevamo indosso.
Stavamo a metà pasto quando Tizio entrò dicendo che strani carri si stavano avvicinando.
Al comando di Manlio uscimmo dalla casa, montammo a cavallo e ci preparammo a combattere.
I carri si fermarono e uscirono diversi uomini che avevano dei strani vestiti.
Cominciarono a parlare, una lingua sconosciuta.
Manlio diede l’ordine di lanciare le lance, caricare e aprirci la strada.
Così facemmo e mentre caricavamo sentii un colpo alla testa e poi fu tutto scuro.
Mi svegliai che stavo in una stanza tutta bianca e intorno a me c’erano delle persone vestite di bianco.
Mi faceva male alla testa e toccandola la trovai coperta di bende.
Vedendo che avevo aperto gli occhi e mi ero mosso, quella gente cominciò a parlare.
Parlava una lingua a me sconosciuta, forse Volscio o Sannita.
Risposi: « Non vi capisco, voi non parlate romano, che lingua parlate? »
Loro mi guardavano squotendo la testa e poi andarono via e mi lasciarono solo.
Mi guardai attorno. Stavo disteso su un letto di ferro e indossavo una tunica bianca con qualcosa scritto.
Cercai di alzarmi ma le gambe non mi reggevano. Dovevo aver perso molto sangue. Tornai a sdraiarmi.
Poco dopo entrò una donna con un vasoio in mano, me lo mise d’avanti, disse qualcosa e andò via.
Guardai cosa c’era nel vasoio. C’erano cibi che non conoscevo. Presi qualcosa e la portai alla bocca, aveva un buon sapore. Mangiai tutto e bevvi il brodo portando il piatto alla bocca, rovesciandone un bel pó sulla tunica. Mi pulii con le manica e allontanai il vasoio vuoto.
Avevo voglia di orinare, mi guardai intorno, non vidi nulla che mi serviva, neanche sotto il letto. Non riuscendo ad alzarmi, tirai fuori dalle coperte il pene e orinai fuori dal letto.
Quando tornò la donna, si mise a strillare e corse fuori, tornando con un altro con la tunica bianca.
Lui vide quello che avevo fatto e disse qualcosa che non capii.
Risposi con il mio linguaggio: « Non ho trovato l’orinale, dove lo avete messo?»
Loro scossero la testa e andarono via, poi arrivò un uomo vestito di bianco e si
mise a pulire quello che avevo fatto.
Ogni tanto mi rivolgeva la parola, che non capivo, ma dal modo che le diceva, pare che mi rimproverasse per quello che avevo fatto, poi se ne andò.
I giorni successivi oltre ad avere qualcosa per farci i miei bisogni, mi insegnarono quando mi reggevo in piedi ad andare in un luogo dove in piedi dovevo orinare, stando seduto, defecare e della carta per pulirmi il culo.
I giorni passavano lenti, ormai non avevo più le bende in testa e aspettavo che mi venissero a prendere per portarmi in qualche cava a lavorare.
Mi rendevo conto di essere prigioniero di non sò quale popolo e una volta guarito, come schiavo ero costretto a lavorare.
Volevo fuggire.
Dalla finestra non potevo per le sbarre che me lo impedivano, alla porta c’era sempre una guardia che mi accompagnava quando dovevo andare a fare i bisogni.
Dovevo aspettare il momento opportuno.
Una volta mentre stavo mangiando: non più con le mani ma con delle cose; una concava per il brodo e un’altra con delle punte (come un tridente), le cose solide, entrarono varie persone accompagnati da quelli con camici bianchi e tenendo qualcosa d’avanti la faccia, facevano lampi.
Alcuni mi parlavano tenendo qualcosa in mano. Io dicevo quello che mi passava per la testa, poi andavano tutti via.
Fino a quando nella mia stanza entrò un uomo vestito di nero.
Come entrò, alzò la mano e disse: « Ave ».
Finalmente qualcuno che parlava la mia lingua.
Si sedette vicino a me e poi mi chiese: « Come ti chiami, da dove vieni? »
Risposi: « Mi chiamo Caio Semplicio, vengo da Capua e facevo la scorta al Centurione Manilio Claudiano. »
Quel signore vestito di nero disse di chiamarsi Cesare Primo. Mentre parlavo, vidi che scriveva su un blocco di carta.
Volle sapere dove ero nato, quanti anni avevo e sotto quale imperatore.
Risposi: « Sono nato a Norba 222 Anno Domini, sotto l’Imperatore Severo Alexandre, quando avevo tredici primavere, Massimino succedette ad Alexandre e quando ne avevo diciasette, fui chiamato alle armi, l’Imperatore Massimino fu ucciso ad Aquileia e gli succedette Gordiano 3º.
Nel 242 feci la Campagna nel Danubio rinforzando la difesa della Dacia.
Nel 243 feci la Campagna dell’Oriente, in cui morì Timesiteu che venne sostituito da Filippo detto l’Arabo.
Nel 244 moriva Gordiano 3º in battaglia. Prisco fratello dell’Imperatore veniva nominato Rector Orientis.
Dal 244 a 249 salì al trono Filippo detto l’Arabo. Sotto Filippo feci la campagna nel Danubio contro i Godi. Dal 249 al 251 succede a Filippo, Traiano Decio mentre lotta contro i Godi, more in Abritus (Mesia infe-riore). Succedono a Traiano dal 251 al 253 Treboiano Galo e Velusiano. In Italia c’è una lotta interna e Emiliano usurpa il podere e vince l’esercito di Treboiano e Velusiano; i due vengono uccisi. Valeriano è acclamato re nella Recia.
Dal 253 al 260 Impero Romano è sotto Valeriano e Galiano che si ripartono tra loro i compiti di difesa.
Nel 260 Valeriano è catturato da Sapor re dei Persi. Nello stesso anno c’è un’invasione nell’alta Italia ed io con la legione cui appartengo, vengo rimandato in Italia a fronteggiare l’invasione. Postumo prende il podere nella Gallia. Nell’Oriente Macrino e Quieto usurpano il podere di Prisco.
Nel 261 l’Imperatore Galiano riforma il governo militare e manda Odenato da Palmira a ristabilire la situazione in Oriente.
Dal 265 al 267 mi trovavo a Capua e da Capua, sono stato comandato di fare parte della scorta al Centurione Malio Claudiano. Fino al monte Ciceo è andato tutto bene, quando abbiamo lasciato il monte e ci stavamo rifocillando, siamo stati attaccati e sono rimasto ferito. Spero che il Centurione e i miei compagni sono riusciti a fuggire. »
Dalla espressione, capii che non era andata così.
« Sono stati fatti prigionieri? »
Non rispondendomi, capii che erano morti.
Non è che mi dispiaceva molto, nella legione ho imparato a non affezionarmi a nessuno, ho visto tanti compagni morire in battaglia.
Allora sono rimasto solo.
Volevo fare delle domande, ma Cesare si era alzato e dopo avermi salutato, era andato via.
Ero contento di aver trovato qualcuno che parlava la mia lingua, speravo di rivederlo presto.
Passarono i giorni, c’era sempre qualcuno che mi veniva a trovare; peccato che non capivo quello che mi chiedevano.
Lasciavo che mi facessero dei lampi, tanto, non mi facevano male.
Una volta mi levarono il sangue con una cosa che mi punse.
Chissà perché lo fecero.
Anche se lo chiedevo, loro non mi capivano.
Tornò Cesare, l’uomo vestito di nero con altre persone, mi trovarono seduto ad uno strano sedile, mentre guardavo gli alberi fuori della finestra.
Mi salutò e mi presentò i suoi amici.
Uno teneva una strana cosa sulla spalla che puntava su di me.
Cesare mi chiese se potevo ripetere quello che avevo detto quando c’eravamo conosciuti.
Raccontai di nuovo tutto quello che avevo detto a Cesare, poi uno di loro fece una domanda a Cesare, che me la tradusse.
« Antonio vuole sapere se hai ucciso donne e bambini? »
« Quando ricevevo un ordine, lo eseguivo senza rifiutarmi; anche quando in battaglia non c’era nessuna possibilità di sopravivere. Rifiutare di eseguire un ordine, voleva dire morire inforcato e se il tuo amico non sà, i legionari muoiono in combattimento, non inforcati ».
Cesare mi disse di mostrare il marchio che avevo sulla spalla e di spiegarne il significato.
Sollevai la manica della tunica e mostrai il marchio.
« Questo marchio mi fu impresso a fuoco quando fui arruolato. In quel momento appartenevo all’Imperatore, qualunque fosse, stava solo a lui congedarmi. Il numero impresso è il mio numero e la legione in cui faccio parte. »
Dopo aver risposto ad altre domande, un uomo uscì dalla stanza e tornò con la mia uniforme e Cesare mi disse di indossarla.
Non potete immagginare quello che provai ad indossarla.
Senza mi sentivo nudo nonostante la tunica.
Una volta indossata, mi girai e rigirai a piacimento.
Avevo le mie armi, mancava solo la lancia.
Chiesi quando potevo tornare in battaglia.
Cesare disse che, non c’erano più battaglie da combattere. Roma aveva fatto la pace con tutti i popoli, poi mi chiese di togliermi l’armatura.
Non essendoci più battaglie da combattere, a che serviva indossare un’armatura?
Tornato ad indossare la tunica, mi lasciarono solo.
Se non c’erano più battaglie da combattere, mi avrebbero rimandato a casa e sarei tornato ad aiutare mio padre nella doma dei cavalli.
Aspettai e aspettai.
Ero stufo di restare in quella stanza, quando sarebbe tornato Cesare gli avrei chiesto dove mi trovavo e chi comandava qui.
Quando tornò a trovarmi glielo chiesi e lui rispose: « Sei a Roma ».
« Roma, Roma, sono a Roma e a Roma vuole dire, vicino a casa mia ».
Quando gli chiesi quando potevo lasciare quel posto, mi rispose di non saperlo, non dipendeva da lui.
« E allora da chi, voglio parlare con il capo dei Pretoriani. Ho combattuto, sono rimasto ferito, non ci sono più battaglie, voglio tornare a casa ».
Lui disse di stare calmo, che andava a chiamare un Pretoriano.
Andò via e non tornò più.
Capii di essere stato tradito.
Non era vero che stavo a Roma e tutte quelle domande che mi aveva fatto erano per raccogliere informazioni sulla mia Legione. Volevo morire.
Ma lì non c’era nulla che mi poteva servire per uccidermi.
Mi rimisi a letto e decisi di morire di fame.
Quando portarono da mangiare, anche se mandava un buon odorino, non lo toccai e quando tornò la donna che lo aveva portato, trovandolo intatto mi chiese qualcosa, come: « Perché non hai mangiato? » non mi degnai di rispondere, (tanto non mi avrebbe capito).
Andò via e quando la sera tornò di nuovo, feci la stessa cosa. Anche se avevo fame, non toccai il cibo.
Quado tornò e vide che non avevo mangiato andò via e tornò con un uomo vestito di bianco.
Disse qualcosa che non capii, mi voltai dalla parte opposta per non vederlo.
Il giorno dopo, dopo aver rifiutato ancora di mangiare, arrivò Cesare (quello che credevo fosse un informatore del nemico di Roma).
Lui mi parlò, trovò scuse per non essere venuto prima, mi disse che si stava interessando per farmi uscire da lì.
Lo fissavo senza dire niente.
Non credevo a quello che mi stava dicendo e quando portarono un vasoio con altro cibo, gli diedi una manata e lo gettai via.
« Lasciatemi in pace, voglio morire, » e chiusi gli occhi.
Cesare continuò a parlare, ma io non lo ascoltavo.
Pregavo i miei Dei di farmi morire presto.
Quando riaprii gli occhi vidi che mi avevano legato e avevo una cosa nel braccio e un tubo veniva dall’alto.
Che mi stavano facendo?
Continuai a non mangiare ma non morii.
Veniva gente a vedermi.
Quando si apriva la porta e vedevo gente, chiudevo gli occhi e facevo finta di dormire anche se attraverso le palpebre, vedevo lampi.
Non ricordo quanto tempo rimasi legato a quel letto e perché non morii.
Un giorno venne quel Cesare che non volevo vedere e mi portò dei strani abiti, chiedendomi di indossarli.
Non sapevo come fare e lui mi aiutò, poi mi disse che saremmo usciti.
Fuori c’era tanta gente e quando mi videro uscire fecero cose che non sapevo che fossero.
Cesare mi fece salire su un carro strano che caminava da solo senza essere tirato da cavalli o buoi.
Stavamo a Roma, riconoscevo i luoghi.
Come era cambiata!
Il Foro dove una volta ero passato con la mia Legione, era tutta una rovina.
Sapevo che i barbari stavano invadendo l’Impero, ma non pensavo fossero arrivati a Roma.
Anche il Colosseo non era lo stesso.
Dove erano le statue che lo adornavano?
Chiesi se mi poteva portare a Centocelle dove viveva la mia famiglia.
Ci andammo.
Non era quella che avevo lasciata.
Le antiche ville non c’erano più, c’erano altre strane costruzioni.
Alcune molto alte.
Chissà come si reggevano?
Quando non trovai più nessuno dei miei, piansi.
Se loro non c’erano più, che ci facevo a Roma?
Chiesi di tornare a Capua nella mia Legione.
Cesare disse che la Legione non esisteva più, che erano tutti morti e che Capua aveva subito quello che era successo a Roma.
E allora, che ci stavo a fare lì, se non c’era nessuno?
Tanto valeva essere morto.
Invece avevo solo sognato.

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