domingo, 18 de agosto de 2013

Sogno n.20 La barca a vela anno 2007

 
Ad un concorso, non ricordo quale, vinsi una barca.
Non era una barca qualsiasi; era un piccolo veliero.
Era lunga venti metri e quattro di larghezza.
Oltre  alle vele di due alberi, aveva un motore.
Non era una grande barca, non era fatta per attraversare l’oceano, ma poteva costeggiare la terra, ma non si doveva allontanare dalla costa non più di tre miglia.
Come la vidi al molo indicatomi, me ne innamorai subito.
Era bianca con una striscia rossa.
Non aveva nome perché ancora nuova, attendeva il suo proprietario il quale avrebbe scelto che nome dargli.
Subito pensai: « La chiamerò; “ Il segno dei Pesci “. »
Ma poi a dargli il nome appropriato, ci avrebbe pensato mia moglie.
Salii a bordo.
La plancia era di mogano, tutto lucido.
C’era una scaletta che scendeva.
Di basso c’erano quattro cabine; una cabina con un letto doppio, due con cuccette, messe a castello e un’altra attrezzata come cucina con vari scomparti per i viveri.
E un bagno con doccia.
Tornato fuori, mi appoggiai al timone.
Già mi vedevo nelle vesti di comandante.
Non potevo guidarla perchè non avevo “ La patente di navigazione “.
Mi iscrissi ad una scuola guida e con l’aiuto di mio cugino Max che era stato Ammiraglio, in tre mesi ebbi la carta di conduzione.
La barca non mi costò nulla ma, tutti gli accessori mi costò un bel pó di Euro, li spesi volentieri.
C’era però un problema! Da solo non la potevo condurre, a detta di Max, mi ci volevano almeno tre marinai.
Misi l’annuncio sul giornale e dopo qualche giorno mi telefonarono varie persone.
Ci demmo appuntamento sul molo.
Non ci mettemmo d’accordo sulla loro paga; la pensione mia e quella di mia moglie non era sufficiente nemmeno per uno.
Rimettemmo l’annuncio chiedendo ex marinai, pensionati anche se invalidi.
Quando li vidi sul molo, mi sembrarono una giurma di ex pirati.
A chi mancava un occhio, chi una gamba, chi una mano e altro ancora.
Non volevano essere pagati, quello che importava loro era...tornare a navigare.
Ne scelsi quattro, uno dei quali senza una gamba, sarebbe stato il cuoco.
Maria accettò il nome che gli avevo dato e i marinai; e ridendo disse: « La faremo diventare una nave dei pirati. »
Oltre alla bandiera portoghese, aveva quella nera con il teschio e le ossa incrociate, fatta da mia moglie.
In un negozio di costumi di carnevale, comprammo vestiti e tutto l’occorrente per mascherarci da pirati.
E da pirati che si rispettino, sul veliero si poteva bere (oltre l’acqua, il Rum; se poi fosse della Jamaica, meglio ancora.
Come ebbi la patente, l’auguammo uscendo dal porticciolo.
Per uscire dal porto, dovemmo usare il motore, ma appena fuori, tirammo sù le vele e ci facemmo guidare dal vento.
Dato che aveva una lunga ghiglia, non ci potevamo avvicinare alla riva.
Per fare questo, avevamo una scialuppa, la quale era ormeggiata dietro e quando volevamo andare a terra, l’avvicinevamo alla barca e con il suo motore, andavamo a riva.
Con quella barca e i costumi che indossavamo venivamo sempre fotografati ed eravavamo invitati alle varie feste.
Quando era caldo e bel tempo, invitavamo gli amici e con loro facevamo delle crociere.
Era obbligo però di vestirsi come noi e comportarsi da veri pirati (senza assaltare nessuno, però).
Sempre costeggiando, andammo sù e giù del Portogallo, Spagna e Italia.
Quando dovevamo attraversare uno Stretto, lo dovevamo fare stando vicini ad una barca più grande che, in caso di pericolo ci avrebbero aiutati.
Quando volevamo ormeggiare in un porticciolo, dovevamo chiedere con la radio di bordo, l’autorizzazione e, avutala, ci dirigevamo al molo indicatoci e una volta ormeggiati, chiavamo un taxi e ci facevamo partare in un Hotel.
Navigare era bello, ma sentire la terra, ferma invece del dondolio che ci faceva sentire la barca, era un’altra cosa.
In terra non restavamo più di due o tre giorni, poi tornavamo a bordo della nostra barca, la quale ci mancava come, la nostra vera casa.
Mi svegliò il rullio della barca, cadendo dal letto di casa mia.




                                       

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