Come tanti altri angeli, ero stato mandato sulla
terra ad aiutare chi ne avesse bisogno.
Così mi trovavo a percorrere una strada quando
sentii gridare.
Corsi sul luogo e vidi due uomini che stavano
aggredendo una donna.
Andai ferso di loro quando vidi che uno teneva la
donna per le braccia da dietro, mentre l’altro cercava di penetrarla.
Mi guardai intorno alla ricerca di un’arma e vidi
solo un bastone; non troppo grande da provocare ferite mortali, ma, per lo meno
da far loro male.
Mi portai alle spalle di quello che stava di
fronte alla donna e lo colpii sulla nuca.
Quello sentendosi colpire lasciò la donna e si voltò per affrontarmi.
Lo continuai a colpire fino a che cadde a terra.
L’altro lasciò la donna e trasse di tasca un
coltello e mi affrontò.
Con un colpo gli feci volare il coltello.
Quello che era a terra si stava rialzando quando
si sentì il suono di una sirena avvicinarsi.
Invece di pensare a me, presero a fuggire.
Mi accostai alla donna che era in terra e cercai
di aiutarla a rialzarsi quando un’auto si fermò vicino a me.
Dall’auto scesero due polizziotti e uno di loro mi
intimò di alzarmi con le mani alzate.
Feci quello che mi chiedevano e nel frattempo
cercai di spiegare che ero di passaggio quando avevo sentito gridare e ero
corso in soccorso della donna.
La donna
svenuta, si era ripresa e mi indicò come il suo aggressore.
Nulla valsero le mie proteste.
Un poliziotto mi fece girare e mi legò i polsi con
le manette, costringendomi poi a salire in macchina.
Anche la donna fu invitata a salire e tutti
andammo al commissariato di polizia.
Nel trattempo mi ero già liberato delle manette
che mi tenevano in posizione scomoda.
Arrivati al Commissariato un poliziotto tenendomi per un braccio mi obbligò
a seguirlo nell’interno.
Fui portato alla presenza di un superiore che mi
fece sedere chiedendomi i documenti.
I documenti non li avevo; noi angeli non abbiamo
bisogno di documenti.
Mi fecero vuotare le tasche ma, non avevo niente,
neanche un fazzoletto.
L’unica cosa che avevo in tasca erano le manette
che mi avevano messo ai polsi.
Poi il commissario capo prese a farmi delle domande: chi ero, come mi
chiamavo, dove abitavo.
Quando dissi che ero un angelo si misero a ridere.
Non mi credevano e continuavano a tormentarmi di
domande le cui risposte non facevano che arrabbiare il commissario e gli agenti
presenti.
Stavo tranquillamente seduto limitandomi a
rispondere alle loro domande.
Vedendo che non riuscivano a farmi confessare le
colpe che mi attribuivano, mi arrestarono con il reato di aggressione a scopo
di rapina e violenza.
Portarono un tampone e mi presero le impronte digitali ma quando furono a
controllarle videro che oltre a delle macchie nere non si vedeva altro.
Pensando che avevo mosso la mano, mi rifecero
ripetere l’operazione e anche questa volta, lo stesso risultato.
Mi tirarono delle fotografie e quando guardarono i
risultati, non videro nulla; era come se avessero fotografato una parete
bianca.
Diedero la colpa alla macchina fotografica che ri era guastata.
Fui codotto ad un carcere appena fuori di città e
in una cella insieme ad
altri detenuti i quali presero a farmi delle
domande. Chi ero, cosa avevo fatto?
Alle mie risposte, anche loro si misero a ridere,
poi dandomi del matto mi lasciarono in pace.
Venne l’ora del pasto, seguii gli altri che mi
dissero di andare con loro.
In uno stanzone con dei tavoli, trovando un posto
libero mi misi a sedere.
Mi ero appena seduto quando uno mi disse di
alzarmi che avevo occupato il suo posto.
Mi alzai e cercai un altro posto.
Quello mi seguì e come facevo l’atto di sedermi,
mi diceva che quello era il suo posto.
Ogni volta che mi sedevo, si ripeteva la stessa cosa.
Alla fine persi la pazienza.
Anche gli angeli, anche se di rado, perdono la pazienza.
Quardando in alto verso il fondo dello stanzone
vidi un ballatoio dove una guardia sorvegliava i detenuti.
Indicando il ballatoio dissi a quello che mi
tormentava se sapeva volare.
Lui che nei miei confronti era molto muscoloso si
mise a ridere volgendosi ai suoi compagni.
Lo presi per il collo della camicia e
dall’incrocio dei pantaloni e senza sforzo alcuno lo feci volare verso il
ballatoio.
Finì addosso alla guardia che ci sorvegliava.
Tutti mi guardavano attoniti.
Non credevano a quello che avevano visto.
Mi sedetti e mi fu servito da mangiare.
Non toccai nulla.
Gli angeli non hanno bisogno di mangiare per vivere.
Dissi di non aver fame.
Finito il pasto fummo ricondotti ugnuno nella propria cella.
A me mi misero da solo in una cella lontana dalle
altre.
Feci quello che mi dicevano di fare, poi mi
sedetti sulla branda.
Stavo lì da un pó, non sapendo che fare; rivolsi
il pensiero al Signore per chiedere aiuto.
Ero il quella posizione quando la porta della
cella si aprì e entrarono due uomini.
Uno di loro era quello che avevo fatto volare.
Non sapevo quello che volevano da me, quando
cominciarono a colpirsi tra loro con pugni e calci.
Ogni tanto mi finivano addosso e non c’era molto spazio nella cella, così decisi di
andare via di lì.
Uscii dalla cella e andai in un’altra dove stava
un ragazzo preso per furto.
La cella era per due persone e lui era solo.
Mi sedetti vicino a lui e presi a chiaccierare.
Poco dopo lui si sdraiò in una branda dicendo che
aveva sonno, dicendomi di fare lo stesso.
Mentre dormiva, aprii la porta della cella e uscii
incamminandomi per i vari corridoi, passando vicino alle guardie, non mi
prestarono attenzione.
Stavo passando vicino all’ufficio del Direttore
quando sentii che parlava al telefono con qualcuno.
Mi fermai ad ascoltare e sentii che chi parlava
con lui era la moglie che si lamentava per la mancanza di attenzioni che il
Direttore aveva con lei.
Neanche un fiore le regalava e mai che l’avesse
invitata a pranzo fuori di casa.
Ripresi a camminare e una porta dietro l’altra uscii
dal carcere.
Mi trovavo davanti ad una porta di un villino con
il dito premuto nel campanello della porta quando questa si aprì.
Apparve una donna di mezza età, con un sorriso le
porsi un gran mazzo fi rose rosse dicendole che erano da parte di suo marito.
Lei rimase meravigliata non sapendo che dire.
Vide che tra i fiori c’era un biglietto, lo prese
e lesse quello che c’era scritto.
Era un invito a cena ma che non potendo lasciare
il carcere, mandava un suo caro amico a farle compagnia.
Con la macchina ci recammo al migliore ristorante
della città dove eravamo attesi e fummo serviti da vari camerieri che fecero a
lei tanti complimenti.
Mentre mangiavamo la signora mi fece delle domande: chi ero come mi
chiamavo.
Dissi di chiamarmi Gabriel ed ero un angelo.
Non si mise a ridere come avevano fatto gli altri.
Dopo cena andammo a ballare e lei ballando,
danzava come un angelo.
Dopo averla riaccompagnata a casa me ne tornai al carcere.
Prima di rientrare passai dalla casa della donna
che mi aveva accusato e senza bisogno di bussare, entrai in casa.
La casa tutta al buio, da una scala salii al piano
di sopra.
Lì c’erano delle camere da letto.
In una dormivano due bambini, in un’altra la donna
accanto ad un uomo; suo marito.
La donna dormiva ma io senza svegliarla entrai
della sua mente e mentre dormiva, sognò quello che le era accaduto e del mio
intervento e dell’accusa fattami.
Le feci ripetere più vilte che l’indomani doveva
andare al Commissariato di
Polizia a ritirare la denuncia.
Poi la lasciai dormire e me ne andai da quella casa.
Il giorno seguente ci fu un gran baruglio; le
guardie correvano per i vari corridoi facendo tante domande tra loro.
Ad un dato punto fummo fatti uscire dalle nostre
celle e condotti in un cortile.
Inquadrati ci chiamarono per nome.
Quando mi chiamarono, risposi e subito delle guardie mi circondarono con i
fucili puntati e, sempre tenendomi sotto tiro venni condotto alla presenza del
Direttore.
Fui interrogato di dove ero stato durante la notte.
Raccontai dell’arrivo di quei due e non potendo
dormire avevo deciso di cambiare cella.
Come avevo fatto ad uscire?
Dissi che la porta era aperta.
Alla mia risposta fu chiamata la guardia di turno
che spiegò che la mia cella era chiusa.
Ed io: « Come avevano fatto quei due ad entrare se la porta era chiusa?»
Non potendo dire che era stata corrotta disse che
non era sicuro di averla chiusa.
Gli fu data una romanzina con i fiocchi.
Ma poi il Direttore volle sapere se anche la porta
del carcere era aperta.
Al che risposi di non saperlo, dato che ero a
dormire nella cella numero
118 e che il ragazzo poteva testimoniare per me.
Pur non credendomi, non poteva provare il contrario; così mi lasciò tornare
nella mia cella.
Prima dell’ora di pranzo, mi mandarono a chiamare e il Direttore mi comunicò
che ero libero.
La signora...aveva ritirato la denuncia.
Poi mi sono svegliato.
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