Mafioso non si nasce; lo si diventa. Ed è quello che è capitato a me.
Ero un giovane senza pensieri per la testa, ne pensieri con la Giustizia.
Un giorno me ne stavo a far non mi ricordo cosa,
quando fui avvicinato da un uomo che non conoscevo, il quale mi disse: « Ti
chiami Italo e sei figlio di Loreto hai 23 anni, hai fatto il militare e abiti
in Via Pinco, al numero 4. Se dovesti scegliere tra: uccidere e guadagnare un
milione o morire; quale sceglieresti? »
« Mbè! Tra la vita e la morte, sceglierei la vita, » dissi.
Allora mostrandomi una foto e una busta piena di
soldi disse: « Questa è la persona che dovrai uccidere; si chiama Frank e tutti
i lunedì va a farsi tagliare i capelli e la barba alla barberia di New York;
dietro la foto c’è l’indirizzo. Tra quindici giorni vai all’aereoporto e alla
bigletteria troverai un biglietto di andata e ritorno Roma-New York. »
« Un momento! Io non ho mai ucciso nessuno. »
« C’è sempre una prima volta, hai fatto il
militare perciò sai sparare. »
« Vabbè! Ma un conto è sparare al poligono ad una
sagoma, un altro ad una persona.»
« E tu fai finta che stai al poligono e stai
sparando ad un bersaglio. »
Cercai di tergivigostare dicendo: « Quando facevo
il militare ho solo sparato con il fucile e poche volte; tanto che non mi
ricordo più come si fa. »
« È facile. Con la pistola, per sparare basta
schiacciare il grilletto e la pistola spara da sola. Comunque se ci vuoi
ripensare e scegliere la morte, dillo
pure, » e mi premette la pistola al fianco destro.
Non avevo scelta. Sentire una pistola puntata al
fianco, pronta a sparare, ti fa ricordare quello che non sai: Sai sparare e hai
già ucciso.
Tutto cominciò così.
Quindici giorni dopo come d’accordo; mi recai
all’Aereoporto di Fiumicino con il Passaporto vistato, e alla biglietteria
dell’Alitalia dissi chi ero e mi fu consegnato il biglietto del volo 407 delle
ore 17 e 30.
Arrivato a New York trovai ad attendermi un uomo
che con la macchina mi portò a fare un giro per la città. Si fermò un attimo vicino
ad una barberia e indicandomela disse: « È lì che dovrai andare domani mattina
alle 10. dopo aver sparato a Frank, esci fuori. Starò ad aspettarti con la
macchina per ricondurti all’aereoporto; poi mi condusse in un Hotel di quarta
categoria.
Una volta in camera mi diede una pistola; era una
Kobra calibro 9 schiacciata; ideale per stare sotto la giacca senza esser visto
il gonfiore che avrebbe fatto se era a tamburo.
Mai vista né provata.
Chiesi all’uomo senza nome (non mi aveva detto
come si chiamava) se mi faceva vedere il funzionamento.
Dopo aver tirato fuori il caricatore, mi fece
vedere quello che dovevo fare per metterla in posizione di sparo.
Mi esercitai un pó; tenendola nella cintura dei
pantaloni, in tasca della giacca facendo
finta di sparare senza tirarla fuori e poi
tenendola nella tasca dove normalmente tenevo il portafoglio e quando vidi che
riuscivo a tirarla fuori senza problemi, mi sentii pronto per l’azione.
La mattina seguente fui accompagnato cento metri
circa della barberia, scesi dalla macchina e percorsi la distanza a piedi.
Arrivato sul posto, senza fermarmi entrai.
C’era un uomo seduto e il barbiere in camice
bianco, con il pennello gli stava insaponando la faccia.
Oltre all’uomo seduto sull’opposito sedile, ce ne
erano altri due seduti a leggere il
giornale.
Appena entrato, portai l’indice e il medio della
mano destra sulla testa, vicino alla tempia a mó di saluto.
Come d’accordo, dovevo tirare fuori la pistola e
sparare all’uomo con la faccia insaponata, ma gli altri due che stavano
leggendo il giornale e in quel momento mi guardavano, non mi convincevano
molto.
Con calma misi la mano nell’interno della giacca e
invece di tirare fuori la pistola, tirai fuori il portafoglio.
La mia mossa aveva fatto si, che anche gli altri
due mettessero la mano all’interno delle giacche, ma invece di tirare fuori il
portafoglio, tirarono fuori le pistole.
A quella vista, feci un salto. Non ero preparato a
quella reazione.
Invece di fuggire, con un sorriso un pó forzato,
guardai nell’interno come se mi accertarmi di avere soldi sufficienti per
pagare il barbiere.
Richiudendo il portafoglio lo rimisi in tasca e mi
andai a sedere nella sedia libera, in mezzo a loro e prendendo una rivista sul
tavolino, feci finta di leggerla.
Così chi mi aveva mandato a uccidere Frank
(probabilmente era quello a cui il barbiere stava facendo la barba), aveva
previsto che: una volta che avessi sparato a Frank, sarei stato ucciso a mia
volta dai guarda-costa.
Se fossi stato sensato, me ne sarei andato via da
quel locale.
Probabilmente la mia fuga sarebbe stata sospetta e
non potevo prevedere la reazione dei guarda-costa.
Invece rimasi tranquillo a leggere (per modo di
dire dato che era in inglese) la rivista.
Il barbiere ogni tanto mi guardava con uno sguardo
nervoso.
Che voleva; che aveva da gurdarmi?
Il tempo passava e il barbiere aveva cominciato a
radere.
Lo lasciai fare, volevo rinunciare.
D’improvviso per la strada si udì un grande
strombo.
Due macchine si erano certamente urtate.
Poi i strilli di chi voleva aver ragione.
L’accaduto aveva distratto i due guarda-costa che
invece di stare in guardia, erano andati sulla porta a guardare l’accaduto.
Pure io ero andato a vedere; ma invece di guardare
fuori, stavo alle loro spalle e tirata fuori la pistola, sparai alla loro nuca
poi volgendomi terminai di scaricare la pistola sull’uomo seduto che stava
immobilizzato dal barbiere che lo teneva bloccato con la tovaglia.
Finito di sparare, invece di gettare la pistola e
scappare, la rimisi in tasca ed uscii dalla barberia.
Fuori ad aspettarmi con la macchina, non c’era
l’uomo senza nome.
Dovevo allontanarmi da quel luogo prima
dell’arrivo della polizia.
Invece di correre in una direzione qualsiasi,
tornai nell’interno e dalla tasca di un guarda-costa tirai fuori la sua pistola
che misi in tasca della giacca, poi come se nulla fosse uscii dal locale e mi
allontanai sul lato destro.
Avevo fatto si e no dieci metri, quando sentii
strillare, mi voltai e vidi il barbiere che sull’uscio strillava non só cosa
(l’americano non lo capivo).
Portandomi in mezzo alle macchine feci un cenno ad
un taxi che si fermò vicino a me facendomi salire.
Ripartendo mi disse qualcosa; ed io: « Non
capisco, sono un turista italiano » e quello con un cattivo italiano disse: «
Anche mio nonno era italiano e a casa nostra parliamo italiano. Che è successo?
»
« Non lo sò! Ho sentito sparare e mi sono
allontanato. Non vado in cerca di guai, mi riporti al mio Albergo, » allungandogli
un pezzo di carta dove avevo segnato l’indirizzo.
Una mezz’ora dopo (dato il traffico) eravamo
arrivati.
Pagato il taxista (con i dollari che avevo
cambiato all’aereoporto, salii al secondo piano e senza bussare alla camera 36,
tirata fuori la pistola che avevo preso, l’aprii con un calcio (come avevo
visto fare al cinema).
L’uomo senza nome stava seduto sul bordo del letto
a bere non sò cosa.
Prima che potesse dire o fare qualcosa, gli misi
sotto il naso la canna della pistola.
Al vedermi e vedere la pistola, era sbiancato.
« Pensavi che ero morto; così invece di aspettarmi
fuori, te la sei squagliata, certo di quello che sarebbe successo. Di certo
avrai telefonato al tuo capo. Ora se non vuoi morire mi dai il nome e
l’indirizzo di chi mi ha contattato e cerca di non fregarmi perché, lo conosco
già, voglio solo sincerarmi che non sia falso. »
Mentre lui scriveva, presi un cuscino e mettendolo
attorno alla pistola (sempre come avevo visto al cinema), dopo che ebbe finito
di scrivere, gli sparai alla testa e per sincerarmi che era morto, tornai a sparargli
all’altezza del cuore.
Andai al bagno e lavai il calcio delle due
pistole, cancellando le mie impromte digitali. Asciugatele ben bene, le gettai
nel cesto dei rifiuti, poi uscii dalla stanza con la mia valigia.
Con un altro taxi mi feci portare all’aereoporto e
tre ore dopo ero in volo verso Roma.Tornai a casa.
I miei non mi fecero domande di dove ero stato e
perché non avevo telefonato.
Andai nella mia stanza e nell’armadio, dentro una
scatola di scarpe, sotto una serie di ricordi, tirai fuori la busta con i soldi
e dalla busta tirai fuori trecento mila lire che misi in tasca del giubotto di
pelle che aveva visto giorni migliori, per andare dove dovevo andare, non
potevo andarci ben vestito.
Uscii di nuovo e con l’autobus andai in un
quartiere malfamato del Quadraro detto “Il mandrione”.
Lì oltre a prostitute di basso costo c’era il
mercato di armi illecite dove si andavano a rifornire i delinquenti.
Facendo il nome di qualche ex amico di gioventù
che aveva preso la strada sbagliata e che era in carcere a Regina Celi, cercai
di comprare lo stesso tipo di pistola che avevo usato in America, ma non la
trovai; comprai una Beretta calibro 22 e dopo aver contrattato sul prezzo, la
pagai duecentoventi mila lire con un caricatore di riserva e una scatola di
cartucce.
La pistola Beretta la conoscevo, l’avevo usata una
volta al poligono di tiro di Tor de Quinto, quando ci andai con Roberto che
faceva la guardia ad una impresa Porta Valori.
Non domandai se scottava (che aveva già sparato),
tanto anche se lo aveva fatto, non me lo avrebbero detto.
Portare addosso una pistola senza il Porto-d’armi
e non denunciata, era pericoloso, si poteva andare in prigione per porto d’armi
abusivo e se poi risultava che aveva già ammazzato, potevi essere arrestato per
il presunto omicida.
Ma non potevo andare ad un negozio autorizzato.
Senza il Porto-d’armi (certificato che ti autorizzava), non mi avrebbero
venduto nessuna pistola, a meno che non fosse a salve.
Con la pistola in tasca e tanta paura, tornai a
casa.
Il giorno dopo aver fatto colazione, e ben
vestito, dissi che sarei andato a cercare un lavoro.
Andai all’indirizzo che aveva scritto l’uomo senza
nome.
Era un’impresa di Import-Esport.
Con un sorriso smagliante dissi alla ragazza del
bancone di voler parlare col signor Franco De Amicis; che ero il figlio di un
commerciante di vini che commerciava con varie imprese straniere.
Quando avevo visto l’impresa segnata sulla carta
che avevo con me, ero entrato in un Bar e chiesto l’elenco telefonico delle
pagine gialle e nella voce vino avevo cercato
il nome di un’impresa produttrice di vini.
Dopo aver parlato al telefono, mi fu indicata la
strada per l’ufficio del Presidente De Amicis.
Dopo aver bussato alla porta. Entrai.
Avevo un cappello Anni 30 grigio-ferro con la tesa
abbassata sugli occhiali scuri.
« Buongiorno Signor Martini cosa posso fare per
suo padre. » dicendolo, mi porgeva la mano.
Mentre gliela stringevo con forza (sempre visto al
cinema) gli dissi: « Se dovessi scegliere tra: Vivere o Morire, cosa
sceglieresti? »
« Cosa vuole dire, che scherzo è questo? », cercò
di liberare la mano che stringevo.
Sempre strigendola, con la mano sinistra mi tolsi
il cappello e gli occhiali e mi feci riconoscere.
« Ti porto i saluti di Frank è morto di
indigestione, come è morto l’uomo che mi è
andato a prendere all’aereoporto e i due scagnozzi
che dovevano proteggere Frank. Ora il conto non torna. Mi hai dato un milione
per uccidere un uomo, ne ho uccisi quattro, mi devi altri tre milioni. »
« Ma io non ho quei soldi. Mi dispiace per quello
che ti è successo, non sapevo niente della scorta. »
« Non ti credo. Se vuoi vivere e non mi puoi dare
i tre milioni, vorrà dire che mi prendi come socio all’impresa al 50%. »
« È impossibile! Non sono io che comando qui. »
« Allora ti uccido e prendo il tuo posto non al
50% ma al 100%. »
Dicendo questo avevo messo la mano sinistra in
tasca e tenendo le chiavi di casa in mano e puntandole come se invece ci fosse
una pistola dissi: « Come tu mi dicesti venti giorni fà: « Puoi scegliere:
Vivere o Morire, non ci pensare troppo che ho fretta.»
Sempre più bianco, disse: « Non sparare, non mi
uccidere, non voglio morire; farò quello che tu vuoi! »
Lasciandogli la mano (che avevo quasi stritolato),
tirai fuori la Beretta
e gli dissi:
« Telefona, riunisci gli azionisti e presentami
come nuovo socio. »
Con la mano tremando telefonò a Claudia (che era
la ragazza del bancone) e farfagliando disse qualcosa.
Mentre aspettavo gli altri, mi andai a sedere
nella sedia che prima occupava il Presidente De Amicis, aspettando l’arrivo
degli altri soci, tenendo la pistola puntata alla testa di Franco.
Come mi aspettavo, i soci, non erano come dovevano
essere, ma dei scagnozzi da tre soldi.
Entrarono senza bussare.
« Che succede capo? ».
« Non succede gnente se non state boni e mettete a
terra le vostre pistole. »
Quelli che stavano d’avanti, lasciarono cadere le
pistole, uno che stava dietro, si mise a sparare.
Portandomi alle spalle di Franco scaricai nel
mucchio la pistola e contando i colpi, appena sparati quelli che erano nel
caricatore, schiacciai il perno sul fianco sinistro della pistola facendo
cadere il caricatore vuoto e sostituendolo con uno pieno, tornai a sparare.
Smisi quando loro stavano tutti in terra; morti o
feriti.
« Cominciamo male, invece di comportarci come
amici, ci ammaziamo tra noi. No, no, così non và, bisogna cambiare le regole. »
Vedendo che il mio scudo era morto (il Signor
Franco de Amicis aveva assorbito le
pallottole destinate a me.
« Dato che il capo è morto ammazzato da voi, e voi
siete d’accordo, mi accettate come nuovo capo. »
Puntando la pistola su quelli ancora vivi, dissi:
« Potete scegliere: Vivere o Morire. »
Come era successo a me, la prima volta, mi
accettarono come loro capo, poi chiamai Claudia e le dissi di provvedere alla
pulizia del mio ufficio.
Come tutte le bande che si rispettino; anche
questa aveva il suo becchino e il suo medico.
Quando l’ufficio fu libero e pulito dal sangue,
feci accomodare Claudia accanto a me e le chiesi: « Da quanto tempo lavora con
l’Impresa? »
« Da quattro anni. »
« Allora sà come funziona, cerca di spiegarlo
anche a me. »
Ci volle un pó di tempo; ma poi capii il tutto.
L’Impresa era Import-Esport; solo che quello che
importava o esportava era tutto illegale, ma dava un buon guadagno.
Da Claudia seppi che il defunto Franco De Amicis
era sposato.
Mi feci dare l’indirizzo e con la macchina dell’ex
capo, andai a darle le mie condoglianze.
Il De Amicis abitava nei Parioli in una lussuosa
villetta.
Quando suonai alla porta, dopo aver detto chi ero,
fui fatto entrare da una cameriera di colore che mi annunciò alla Signora
Dolores.
Dopo essermi presentato, le trasmisi le mie
condoglianze.
Dolores volle sapere come era morto il marito.
« È stato un incidente sul lavoro; gli sono cadute
addosso delle barre di acciaio (per non dire pallottole), che lo hanno
traforato. Era vicino a me, quando è successo. »
« Il signore che rapporti aveva con mio marito? »
« Ero il suo socio. Ora tutto passa sotto il mio
carico. »
« Tutto? » « Tutto! »
Se voleva dire se anche lei era compresa, con il
mio Tutto, facevo capire che anche lei e l’abitazione, era compresa.
Quando tornai a casa, dissi che avevo trovato
lavoro come segretario presso una ditta di Import-Esport, la paga era buona;
solo, mi dovevo trasferire presso l’impresa per essere sempre a disposizione
ogni volta che avevano bisogno di me e diedi a mia madre 2 milioni che avevo
avuto di anticipo.
Mi trasferii nella casa che era stata del defunto
Franco De Amicis.
Gli affari sotto il mio comando andavano bene,
anche se dovevo combattere contro la concorrenza (a colpi di pistola o
mitragliatore).
Non ero io a fare il lavoro sporco, avevo a
disposizione tanta manovalanza a buon mercato.
Nel giro di 5 anni l’Impresa si era ingrandita,
inglobando in essa altre imprese di Import-Esport.
Purtroppo non tutto correva bene.
Ogni tanto subivo degli attentati.
In uno di questi, ci rimise la pelle la vedova del
signor De Amicis.
Di vedove ce ne erano tante a disposizione che:
morta una...mi trasferii con un’altra.
Con gli anni la mia esperienza era apprezzata da
tante Famiglie bene; tanto che: ero diventato un Padrino (di battesimo, cresima
e matrimonio).
Come a tutti; gli anni passarono anche a me.
C’era una gara per prendere il mio posto, tanto
che...con il consenso di altri Padrini,
decisi di andare in pensione.
Dopo aver fatto una plastica facciale e cambiato
nome, uscii dall’Italia e me ne andai all’Estero.
Invece di andare a vivere nel lusso che mi ero
abituato (circondato da bellissime e bone donne), scelsi un paese
dell’entroterra.
Comprai una casa di campo e con una donna del
posto mi misi a fare l’agricoltore del mio campicello.
Quando avevo comprato la casa, dopo averla fatta
restaurare, l’avevo munita di un impianto sofisticato di allarme (fornito dagli
Amici del posto).
La Famiglia mi aveva fornito una protezione
dal Boss della città da cui dipendeva il paese dove stavo.
Tutto corse bene, fino a quando...
Una banda di balordi stranieri venne a farmi una
visita.
Tra loro doveva esserci, l’esperto in sistema di
allarmi.
In pochi attimi ero rimasto senza protezione.
Quando avevo viste le luci-spie spegnersi, presi
il telefonino per chiamare qualcuno.
Il comando era disturbato, si era creata una
interferenza.
Non potevo chiamare nessuno.
Mi preparai a ricevere gli indesiderati ospiti.
Nell’interno di un armadio, celato da un pannello,
c’era il fucile che mi ero portato dall’Italia.
Indossai il giubetto anti-proiettoli e sotto gli
occhi stralunati della mia compagna, uscii dalla stanza dove stavamo vedendo la
televisione.
Armato di una lupara (carabina automatica con
cartucce a pallettoni, per lupi), affrontai gli intrusi.
Ci fu una battaglia, degna di una mini-guerra
senza esclusione di colpi.
Vedendo che non potevano prendere quello che
credevano, gettarono delle bombe incendiarie e diedero fuoco alla casa.
Erano in cinque e invece di arrendersi, morirono
come stupidi.
Oltre alla casa, ci rimisi anche la compagna.
Fuori dalla casa in fiamme, d’altro lato della
strada, aspettai l’arrivo degli Amici.
Arrivò prima la polizia che, nonostante le mie
giustificazioni, mi portarono al posto di polizia e nonostante le mie proteste,
fui arrestato (anche per il porto-d’armi abusivo: la carabina non era stata
denunciata).
Grazie agli Amici, nel carcere non venni
disturbato.
Al primo processo mi si voleva condannare; anche
per omicidio.
Mi opposi alla sentenza, dicendo: « Non mi potete
condannare per omicidio. Quelli che mi hanno fatto visita non erano stati
invitati e per di più non portavano ne fiori per la mia compagna ne champagne
per me; ma armi e con le armi hanno ucciso la mia compagna. Io mi sono difeso.
»
Non ci fu niente fa fare.
In quello Stato finiva al cimitero o in carcere
chi veniva assaltato; non chi faceva
l’assalto.
Non c’era giustizia; era meglio
che mi trovavo un altro
Stato per trasferirmi
dall’Italia.
Ci fu un nuovo processo. Si venne a sapere (grazie
alle mie impronte digitali), che, il mio nome non era Filippo ma Italo.
Alle domande del Procuratore d’accusa se; ero un
Mafioso, rispondevo: « Non capisco, non conosco quella parola. »
Tornò a formularmi la domanda: « Eri un capo della
Mafia? »
« Nò! Ho lavorato come ragioniere presso
un’Impresa di Import-Esport. Non conosco il significato della parola Mafia. »
« Ma come! Non conosci la parola Mafia; ma se lo
sanno tutti che voi italiani siete tutti mafiosi. »
« Un momento! Lei
non sta offendendo solo me, ma anche il popolo italiano, io la
dununcio per oltraggio. »
Il giudice mise a tacere il Procuratore
rivolgendomi lui stesso la domanda.
« Abbiamo saputo dalla Questura Italiana che lei era
ritenuto un Padrino. Mi sa dire perché era un Padrino e cosa fa un Padrino? »
« Si è vero, in Italia sono stato un Padrino, lo
sono diventato quando mi sono offerto di fare da Compare ai vari: Battesimi,
Cresime e Matrimoni dei figli di miei amici
e parenti. »
« Lei non la conta giusta. Lei sa cosa vuole dire,
ma non lo vuole dire. »
« Ma guardi, lei si sbaglia. All’inizio del
processo, ho giurato di dire la verità tutta la verità, nient’altro che, la
verità. Se poi lei non ci crede, non ci posso fare niente. »
Ogni volta che uscivo dal Tribunale per tornare in
carcere, oltre a sentirmi chiamare: Assassino...Mafioso, poi c’era sempre
qualcuno che cercava di uccidermi però grazie agli Amici, restava ucciso.
Gli Amici della Famiglia avevano il compito di proteggermi.
Anche in carcere ero protetto.
Da quando il Direttore e delle guardie avevano
ricevuto delle lettere (anonime) di minaccia di morte, ero trattato con i
guanti bianchi.
Dall’Italia; come cittadino italiano, venne
chiesta l’Estradizione e venni portato nel carcere di Poggio Reale.
Poggio Reale era una terra dove avevano vissuto
molti Re e il carcere dove mi avevano portato era classificata come: una
Residenza a cinque stelle.
Lì c’erano ospitati solo i capi, ognuno dei quali
aveva una Suitte con tanto di camerieri o cameriere (a loro piacere).
La Magistratura Italiana ci trattava bene, in
cambio; noi dovevamo collaborare.
Noi di comune accordo; collaborevamo, dando
notizie false e denunciando i nostri nemici.
Quello fu un bel sogno.
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