sábado, 24 de agosto de 2013

Sogno n.41 Fortunato: il portiere fortunato anno 2009

 
Quando nacqui, mio padre mi chiamò Fortunato, perché ero il decimo figlio ed ero nato vivo.
Gli altri nove erano nati morti.
Quando  uscìi dalla pancia di mia madre, tenevo la mano destra poggiata sui genitali; (a detta di mio padre).
Forse lo di doveva dal fatto che: prima di uscire, sentìi mio padre dire a mia madre: « Vuoi vedere che anche questo figlio nasce morto? » e io  sentendo quelle parole, mi toccai i genitali a mò di scaramanzia.
Come se fosse stato predetto; come giocattoli, preferìi la palla.
Ero fissato con le palle o palline di vetro e dato che mi chiamavo Fortunato, vincevo sempre.
Al mio paese ogni volta che giocavamo alla palla, stavo sempre in porta e se un avversario stava tirando la palla verso di me, mi toccavo i genitali e paravo la palla.
La passione per il calcio, mi portò ai vertici.
Fu durante una partitella che fui osservato da chi se ne intendeva e dopo aver parlato con mio padre, mi mandò in città a frequentare la Scuola Calcio come Portiere.
Ero nato per fare il Portiere.
Le mani che, sin da piccolo avevo tenuto sempre a contatto dei genitali, attiravano il pallone, neanche fossero calamitate.
Con le ragazze era un’altra cosa.
Non mi interessava: il viso o la parte intima; a me interessavano più i seni e i glutei.
Più erano rotondi, più mi attiravano.
Non me ne sfuggiva una.
Alle volte quando stavo con gli amici al Bar ed entrava una ragazza formosa, Dicevo: « A quella gli devo tastare il seno per vedere se è vero. » e se gli amici dicevano: « Con quella non c’è niente da fare; non si fa toccare da nessuno. »
Mi toccavo i genitali (da sopra i pantaloni), poi mi avvicinavo alla ragazza con le mani avanti e le andavo a poggiare sui seni, senza che quella reclamasse.
Se poi ci provava un mio amico, ci prendeva uno schiaffone.
Alla scuola calcio, non si studiava solo il calcio; era si una scuola calcio, ma era anche una scuola come le altre e si doveva studiare tutte le materie che era necessario conoscere.
D’estate tornavo al paese e facevo conoscere agli amici quello che avevo imparato a scuola.
La domenica era dedicata al calcio.
Al paese avevamo una squadra detta “ I lupi della Marsica ” e d’estate tornavano tutti  quelli  che  abitavano  in  città  e organizzavamo gli incontri con le squadre degli altri paesi.
Se i giocatori della mia squadra segnavano, vincevamo, se nò pareggevamo.
Durante le feste padronali oltre a invitare i cantanti o le bande musicali, si invitavano le squadre di calcio.
Un anno fu invitata una squadra di serie A.
Di solito quelle squadre quando incontravano squadre di paese, vincevano sempre a 10 o 20 a zero.
Quando vennero al mio paese persero 1 a 0.
Successe così:
Quando la squadra di serie A cominciò a giocare, giocò come di solito fa il gatto con il topo; ma quando mio cugino Franco segnò, le cose cambiarono.
Loro erano professionisti, noi dilettanti.
Cominciarono a giocare sul serio e oltre a non far tenere il pallone ai Lupi (i giocatori del paese) cominciarono a tirare verso la mia porta e non mi diedero un attimo di tregua.
Saltavo come un grillo; di qua, di là, di sù, di giù.
Con le mani, le gambe e la testa.
I palloni che non bloccavo, li rispingevo.
Passarono i primi 45 minuti e ci fu una pausa di 15 minuti per riprendere fiato.
I miei amici e parenti erano tutti acciaccati; dai calci ai stinchi, alle gomitate ai fianchi.
Mentre mi stavo riposando, venne il capitano della squadra avversaria a dirmi:
« Fino ad ora abbiamo scherzato, quando riprendemo, preparati a vedere il pallone dentro la rete 45 volte. »
Si ricominciò a giocare; passarono i 45 minuti, più 5 di compensazione, ma neanche una volta, il pallone entrò nella mia rete.
Alla fine della partita, fui portato in trionfo dai giocatori della mia squadra e fummo a festeggiare la vittoria al ristorante; a spese dei perdenti.
Quando finimmo di mangiare, mi venne vicino l’allenatore della squadra che avevamo battuto.
« Dove hai imparato a giocare? »
« Quando sono nato (a detta di mio padre), nascei con le palle (genitali) in mano e le palle o i palloni, li ho sempre avuti tra le mani. Poi mi sono perfezionato alla scuola calcio di città. »
« Perché non vieni a giocare con noi; qui sei sprecato, da noi puoi guadagnare molti soldi.»
« Non avrei nulla in contrario, dovete chiederlo a mio padre dato che sono minorenne. »
Mentre assistevo alla festa in piazza, lui andò a parlare con mio padre, che convinse (non sò se con una mazzetta di soldi) e poi insieme a lui mi vennero a cercare e come partì la squadra, partii con loro, con il loro pulman.
Metre viaggiavamo verso la loro città, fui complimentato da tutti i giocatori, per tutte le mie parate; compresi due rigori.
Fui inserito in una squadra della mia età come terzo portiere.
Tutti i giorni della settimana dopo essere andato a scuola Comunale, mi allenavo insieme agli altri giocatori e nonostante le mie parate, la domenica passavo tutto il tempo dell’incontro seduto in panchina insieme ai giocatori di riserva a vedere il portiere titolare prendere i gool.
Quello che non potevo sopportare era, fare gli allenamenti quando pioveva.
Alle mie rimostranze, l’allenatore faceva orecchie da mercante.
Per fortuna, la domenica, se pioveva; in panchina, non mi bagnavo.
Così tutte le altre domeniche.
Una domenica, invece di andare al campo, me ne andai al mare con nuovi amici.
Il giorno seguente mi fu fatta una girata con i fiocchi.
« Dove sei stato? Lo sai che è tuo dovere essere al campo come tutti gli altri giocatori? »
« Sono andato al mare e lì a giocare, non ho subito nessun gool »
« A me non mi interessa se hai o non preso gool. Te lo dico per l’ultima volta, se vuoi diventare un vero portiere, devi fare quello che dico io, se nò, te ne puoi tornare pure al tuo paese a pascolare le capre. »
« Avete proprio ragione; invece di stare al campo, seduto in panchina a vedere quelle schiappe dei vostri portieri, preferisco pascolare le capre. Almeno loro sono meno stupide di voi. »
Per quella parola (stupido) presi due schiaffoni.
Il giorno dopo con il treno me ne tornai al mio paese.
Arrivato a casa, mio padre mi strillò.
Quelli della squadra gli avevano telefonato.
« Senti papà, io con quella squadra non ci torno, mi fanno allenare tutta la settimana e non mi fanno giocare mai. Non mi pagano, piuttosto di tornare, preferisco andare a pascolare le capre, come ha detto l’allenatore. »
Non andai a pascolare le capre.
Ripresi i studi interrotti e la domenica a fare il portiere alle partite di paese.
Una domenica mentre giocavo, vidi quello che mi aveva ingaggiato.
Stava ad osservarmi e alla fine mi chiamò.
« Avevo ragione, tu sei nato per fare il portiere, non per stare in panchina. Se torni con me, parlerò con l’allenatore, vedrai le cose cambieranno. »
« Mi dispiace Mister, ma ho ricevuto una proposta dal presidente della squadra che ha offerto a mio padre 5 milioni. Non mi sono ancora deciso se, accettare o nò. »
« Non ci credo, un ragazzo come te, non vale tanto. »
« Non valgo tanto? Un giorno per avermi con loro, mi dovranno pagare a peso d’oro. Ora se mi volete scusare, ho la ragazza che mi aspetta. La vedete? Quella che ha due palloni al posto dei seni. »
Lo lasciai e corsi tra le braccia di Patrizia (la ragazza più focosa del paese).     
La sera dissi a mio padre quello che avevo detto al Mister.
« Ma che sei matto, chi ti offre 5 milioni? »
Una settimana dopo, vennero a parlare con mio padre, offrendo 5 milioni e mezzo per un ingaggio di due anni.
Mio padre non credeva ai suoi occhi.
« Ed è solo l’inizio. Finito il contratto, per rinnovarlo, dovranno offrimi ancora di più.»
Con quell’ingaggio, tornai a giocare e la domenica ero io il titolare e la squadra in cui giocavo, non perse più.
Però avevo posto una postilla nel contratto: Se pioveva, non mi allenavo, né entravo in campo a giocare.
Due anni dopo avevo 18 anni e il nuovo contratto era di 8 milioni per due anni.
Volevano che firmassi per 5 anni, rifiutai.
Ogni due anni avrei chiesto sempre di più.
Quando ebbi 22 anni, giocavo con la squadra di serie A.
La mia squadra stava sempre al primo o al secondo posto della classifica.
Dipendeva dai giocatori; se giocavano bene e segnavano, vincevamo, se nò, pareggiavamo.
Con me in porta, non perdevamo mai.
Se qualche volta abbiamo perso, è stato quando ero ammalato e non stavo in campo.
Una domenica, era l’ultima partita del campionato ed eravamo alla pari con la prima squadra.
Quella domenica pioveva.
Come da contratto, non dovevo giocare.
Ma se non giocavo, le probabilità di vincere erano poche (quasi nulla).
L’allenatore, il Presidente e tutti i giocatori mi pregarono di entrare in campo.
Mi feci pregare, poi entrai in campo dopo aver indossato sotto la maglia del portiere: Un paio di stivaloni-pantaloni di gomma (di quelli che usano i pescatori quando stanno dentro l’acqua, un maglione di lana, il giubetto con il cappuccio incerato e l’ombrello.
L’arbitro non mi voleva far giocare dicendo che; non era regolamentare.
« Non è regolamentare, dove stà scritto, che non è regolamentare? »
Dato che non stava scritto da nessuna parte, rimasi in guardia della porta in quella
tenuta.
Quando vedevo un giocatore avversario superare le difese, chiudevo l’ombrello e mi tuffavo verso il pallone, se poi mi bagnavo o sporcavo di fango, poco importava, lo erano i miei vestiti, non io.
Vincemmo 1 a 0 e grazie a me, vincemmo il campionato.
Di campionati ne abbiamo vinti molti.
Ero un campione.
Un campione un poco strambo; ma sempre un campione.
Una volta mio padre guadagnava molti soldi con me, poi da maggiorenne ero io che gestivo i miei soldi, non scordando i miei genitori però.
Prima della maggiore età, giocavo con la Nazionale Sub 21 (sotto i 21 anni), poi con la Nazionale Italiana.
Mi volevano le squadre straniere.
Quando mi facevano una proposta, rispondevo: « Se mi volete, mi dovete pagare a peso d’oro (a quell’epoca pesavo 90 kg) ».
Guadagnavo un sacco di soldi (anche con gli sponsor).
Il mio viso o il mio nome era su tutte le magliette e oggetti vari.
Quando entravo in campo con la squadra, portavo sempre una borsa con: il giornale, bevande o panini.
Secondo l’andamento della partita, ero osservato poggiato ad un palo a bere o leggere il giornale.
Quando vedevo un avversario avvicinarsi alla porta, mi toccavo i genitali e continuavo a leggere; tanto ero fortunato che, il tiro andava fuori.
Una volta giunsi a deviare un tiro di rigore, voltando le spalle all’avversario e controllando il tiro con uno specchietto.
Quando quello calciò il pallone, senza muovermi, allungai una mano e deviai il pallone.
Ero quotato in Borsa; c’era chi scommetteva se quella domenica avrei preso un gool o no.
Dopo avermi pagato a peso d’oro, una squadra inglese, per un nuovo contratto; il valore era a peso di diamanti (i diamanti valevano più dell’oro).
Fui comprato per un Principe di un Emirato Arabo.
Durante una partita, scivolai su dei granelli di sabbia e battei la testa in un palo e...mi svegliai.
















                                                                                                                  



















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