Dopo aver visto tanti video sulle antiche presenze aliene
sulla Terra.
Una notte ho sognato che...
Stavo lavorando il terreno dove era stato piantato un pesco che fino a
qualche anno aveva dato solo piccole pesche che non arrivavano alla maturazione
perché si guastavano.
Ho pensato che quello non era il posto giusto; lo avrei trapiantato dove
prima c’era una pianta di amarene che si era seccata.
Stavo scavando attorno al pesco per estrarre più radici possibili, quando
la zappa colpì una pietra.
Cercai di scalzarla ma mi accorsi che la pietra oltre che piatta era
grande.
Le radici della pianta si erano allungate in varie direzioni in orizontale,
mai in verticale come sarebbero state se il terreno sotto la pianta non avesse
un ostacolo che le radici non riuscivano a penetrare.
Dopo aver sradicato il pesco, lo andai a interrare nella fossa che avevo
scavato e che si trovava vicino ad un altro pesco.
Ricoprii la buca calcando bene la terra e poi mi dedicai a rimuovere la
terra che copriva la pietra che aveva impedito alle radici del pesco di
penetrare nella terra.
Con la zappa e la pala cominciai a rimuonere la terra attorno alla pietra.
Scoprii che la pietra era enorme sembrava di non avere una fine, si andava
allargando per tutto il terreno.
Ero arrivato dove c’era la pianta del papiro, non potevo andare oltre se
non volevo scalzare la pianta.
Cercai un altro lato.
Andava verso la recinzione che divideva la mia proprietario con quella del
vicino.
Levai la terra seguendo il muro di cinta.
La pietra sembrava di non aveva un punto per poterla scalzare.
Ci rinunciai e dopo aver mostrato la pietra a mia moglie, la ricoprii di
nuovo con la terra.
Quella scoperta mi aveva incomodato, oltre a farmi fare una fatica per
scoprirla, non mi aveva fatto vedere cosa c’era sotto.
La mente andava a ruota con tante cose: da una tomba a un deposito di
oggetti preziosi.
Finito il lavoro, andai a poggiare gli attrezzi accanto al secolare olivo.
Prima di arrivare all’olivo inciampai in qualcosa e andai a sbattere con
gli attrezzi al tronco.
Oltre a farmi male alla mano che reggeva gli attrezzi ebbi l’impressione di
sentire qualcosa.
Dopo essermi andato a medicare la mano tornai al tronco dell’olivo che
battei con la parte di dietro della zappa.
Sentii un suono cupo, segno che il tronco era cavo.
Sapevo che l’olivo continua a vivere anche quando il centro della pianta
marcisce.
Presi la scala e dopo averla appoggiata al tronco ci salii sopra e mi
portai sulla pianta.
Era vero; il centro mostrava segni di marciume.
Volevo sentire quanto era fonda la parte marcia e non volendo metterci la
mano; non mi andava di essere morso (magari) da una vipera, ci infilai il
manico della zappetta.
Il manico non entrò tutto, trovò un ostacolo (di certo una pietra) ci
battei sopra e sentii un suono cupo, non mi pareva il suono di una pietra.
Andai in casa e presi la lampadina tascabile e con quella veci luce dentro
la cavità. Non era una pietra era qualcosa di scuro.
Tornai a batterci sopra e ogni volta sentivo un rumore cupo, come se
l’ostacolo fosse
qualcosa di ferro.
Era incastrata nel legno della pianta.
Scesi dalla scala e la rimisi dove l’avevo presa.
Tornai all’olivo per prendere gli attrezzi da riporli nel capanno che
chiamavamo “la Casa di Barbi” quando lo sguardo mi corse al tronco.
Dove erano poggiati sia la zappa che la pala, vedevo una fessura.
Prima non l’avevo vista o non l’avevo notata.
Seguendo la fessura, mi sembrava che scendesse fino alla base del tronco.
Creandomi qualcosa nella fantasia, andai al capanno e presi il seghetto che
uso per tagliare i rami delle piante che ogni tanto poto.
Tornai vicino all’albero e inserii il seghetto nella fessura.
Entrò tutto senza difficoltà.
Lo feci scorrere lungo la fessura, scese fino ad arrivare alla base del
tronco.
Lo feci risalire e arrivò a metà albero.
Ero incuriosito così con l’aiuto della lampadina, ispezionai bene il
tronco.
Vidi un’altra linea posta in orizzontale, ci inserii il seghetto e vidi che
si andava ad incontrare con l’altra linea in verticale.
A quel punto la fantasia mi portò ad immaginare una porta nel tronco
dell’olivo.
Avendo trovato due linee, una orizzontale a un metro e mezzo dalla base e
una verticale alla fine della linea orizzontale, dovevo trovare quella
orizzontale alla base del tronco.
Alla base, al livello della terra non trovai niente.
Provai ad alzarmi un poco.
Poco a poco, con molta pazienza, la trovai.
Originariamente doveva stare alla base del tronco, ma poi con la crescita
si era spostata di mezzo metro.
Anche quella linea si andava a congiungersi con quella verticale nella mia
destra.
Dopo aver seguito la linea orizzontale superiore fino al lato sinistro,
cercai la linea verticale.
Avendola trovata, feci scorrere il seghetto verso il basso.
Il seghetto scese poco, trovando un’ostacolo.
Pensai al cardine della porta.
Lo superai e cercando di nuovo la linea, la trovai a circa venti centimetri
dal cardine.
La porta aveva tre cardini.
Quella porta non aveva una serratura perché quando avevo messo il seghetto
nella linea alla mia destra, il seghetto era entrato fino al manico e scendendo
non aveva trovato nessun ostacolo.
Misi la lama della zappa nella linea e feci forza, come se volessi
scardinare una porta vera.
La porta faceva sesistenza (non si voleva aprire) tanto che...rischiavo di
rompere il manico della zappa.
Non avendo spazio per mettere una barra di ferro dato la fessura stretta,
provai con le parole magiche come: Apriti Sesamo, Abracadabra, Amaramà ecc.
ecc.
Niente! La porta rimase chiusa; alla fine persi la pazienza e diedi un
calcio al tronco dicendo un un tono rabbioso: Ma va al quel paese a te e a chi
ti ha piantato.
Non só se è stato il calcio o quello che avevo detto, fatto sta che...la
porta si aprì.
Con la lampada illuminai l’interno.
Oltre ad una superficie rotonda a mia volta, non vedevo altro.
Puntai la luce verso il basso, vidi una scala di metallo (mi ero chinato a
sentire di cosa era fatta) purtroppo la luce non arrivava fino al fondo di
quello che sembrava un pozzo.
Andai a chiamare mia moglie e quando insieme a lei arrivammo vicino al
tronco, la porta si era richiusa.
« Allora dove sta la porta che secondo te si era aperta nel tronco, io non
vedo nulla »
disse mia moglie.
« Era lì, era lì! Ti giuro che era lì » indicando il punto dove si era
aperta la porta.
« Senti un pó tu di fantasia ne hai molta, non solo sogni di notte, ora
sogni anche di giorno » e così dicendo tornò in casa.
« Eih! A che gioco giochiamo. Prima ti apri poi ti chiudi, vogliamo
scherzare? » così dicendo diedi un calcio dove avevo visto aprirsi la porta.
Ma la porta non si aprì.
« Perché diavolo la porta non si riapre, » pensai.
Poi ripensando a quello che avevo detto prima di dargli un calcio,
cominciai a ripetere quello che avevo detto e contemporaneamente gli davo un
calcio.
La porta continuava a restare chiusa.
Forse le parole non erano quelle giuste.
Ricominciai cambiando sempre qualcosa.
Alla fine mi stancai e cominciai a prendere il tronco a calci, un pó dove
capitava.
Fino a quando...ci fu uno scatto e la porta si aprì.
Prima che si richiudesse di nuovo, misi la zappa contro la porta aperta,
fissandola bene dicendo: « Ora non ti muovere da lì che chiamo mia moglie. »
Andai in casa, mia moglie stava allo studio.
« Presto, presto, prima che la porta si richiude di nuovo. »
« Se è uno scherzo, questa volta mi arrabbio. »
« Non è uno scherzo, vieni, vieni. » e presala per una mano la tirai a
seguirmi.
Arrivati, mia moglie poté vedere che non avevo scherzato.
Si affacciò all’interno dicendo: «
Chissà dove arriva, non sarà pericoloso scendere? »
« È logico, senza provvedimenti non mi azzarderei calarmi li sotto, anche
perché deve essere ben fondo se la luce della torcia non trova la fine. »
« Se è un pozzo, ci deve essere l’acqua » disse mia moglie.
« Possiamo vederlo subito. »
Andai a prendere una pietra e la gettai dentro.
Non si sentì nessun rumore.
Andai al capanno a prendere tutta la corda che potei trovare poi con un’altra pietra la calai
nell’interno del tronco poi pezzo per pezzo legando sempre una altra corda a
quella che finiva, arrivò alla fine che la pietra toccò il fondo.
Feci un nodo alla corda e cominciai a ritirare su la pietra.
Una volta che la pietra uscì fuori potemmo vedere che in fondo non c’era
l’acqua che mia moglie pensava che ci fosse.
Misurata la corda, dalla pietra al nodo che avevo fatto, misurava dieci
metri.
Per scendere nell’interno senza pericolo di vita bisognava assicurarci (non
ad una compagnia assicuratrice), per fare questo andai a Santarém al Centro
Commerciale AKI dove comprai l’occorrente per fare ana scalata e una massiccia
corda di venti metri.
Tornato a casa legai un capo della corda ad un palo che faceva parte della
recinzione, fatti dei nodi ogni 50 cm legai l’altro capo ad un moschettone che
presi ad un anello che avevo alla particolare cintura e passata la lampada a
tracollo cominciai a scendere.
Con i piedi tastavo ogni sostegno per vedere se ancora reggevano il mio
peso facendo così arrivai fino in fondo.
Mi trovavo in un spazio quadrato.
Lo era perché vedevo tre pareti che si congiungevano tra loro formando un
angolo retto.
Mettendomi con le spalle alla scala, alla mia destra non c’era una parete
ma una galleria che si perdeva (chissà dove).
Prima di inoltrarmi, tornai indietro dopo aver guardato bene (con la
lampada) i sostegni (sembravano nuovi) e arrivato in cima, raccontai a mia
moglie quello che avevo visto invitandola a scendere insieme a me.
Sulle prime cercò delle scuse per non venire, ma poi; per non ammettere di
aver paura, mi seguì a quella che avevo chiamato “ Avventura nel sottosuolo “.
Una volta scesi giù, abbiamo fatto luce con le nostre torce e ci siamo
inoltrati per l’unico lato aperto.
Mi sembrò strano una cosa; il luogo era asciutto, non mostrava tracce di
umidità nonostante fosse sottoterra.
Le pareti, il soffitto e il pavimento era di un materiale simile al
cemento, ma non doveva esserlo perché se così fosse, l’acqua sarebbe penetrata.
Arrivati ad un incrocio, trovammo altre tre gallerie.
Per non perderci in un labirinto, tornammo indietro e una volta in casa
raccogliemmo tutto lo spago che ci fu possibile trovare.
Se non fosse stato sufficiente, ci saremmo fermati e riaggommitolando lo
spago saremmo tornati indietro.
Tornammo dove c’era l’incrocio e prendemmo la galleria che si trovava sulla
nostra destra.
La galleria non andava sempre allo stesso livello, una volta scendeva, una
volta saliva; di certo seguiva l’andamento del terreno di fuori.
Camminammo un pó, circa quindici minuti fino a quando arrivammo in una
stanza chiusa e spoglia.
Rifacemmo il percorso fatto e arrivati all’incrocio, seguimmo l’altra
galleria che si trovava sulla nostra destra e di fronte a quella iniziale.
Anche quella non portava in nessuna parte.
Mia moglie era stanca di camminare (non c’era neanche uno sgabello per
sederci).
Rifacendo il percorso percorso, arrivammo alla scala e dopo essere saliti
tornammo a casa.
Il giorno dopo e per una settimana cadde la pioggia e non volendo che
l’acqua entrasse dentro (la porta non era chiusa ma accostata) e la pioggia
poteva entrare dentro e rischiavamo di morire affogati.
Quando smise di piovere e tornato il sole, tornammo a scendere muniti anche
di accessori da campeggio e cioè: sgabelli, bottiglie di acqua e dei panini.
Avendo già fatto due gallerie, ne restava una che era sulla nostra
sinistra.
Dopo aver percorso chissà quanto? Trovammo un altro incrocio.
Come facemmo la prima volta, cominciammo con quello di sinistra, finendo
con quella di destra.
Fino allora non avevamo trovato nulla e avevamo camminato molto.
Dopo aver trovato un altro incrocio, desistimmo e tornammo a casa decisi di
lasciare perdere la perlustrazione.
La notte non riuscivo a dormire. Con la mente vedevo una stanza piena di
oggetti preziosi.
Dovevo tornare laggiù.
Fu una fatica convincere mia moglie a seguirmi.
Per paura che mi potevo smarrire andandoci da solo, venne con me dicendomi:
« Se non troviamo qualcosa ci rinunceremo e non scenderemo più giù.»
Dopo aver promesso, tornammo a scendere e percorrere le gallerie già fatte
fino a quando vedemmo una luce.
Non si capiva bene se era la luce del sole o una luce elettrica.
Andammo avanti fino a quando finì lo spago.
La luce si era fatta più intensa tanto che le lampade non servivano.
Lasciammo lo zaino sopra il terminale dello spago e andammo avanti.
Andammo sempre avanti seguendo la luce, anche quando la galleria si
incrociava, andavamo avanti seguendo la luce, fino a quando arrivammo.
Ci trovavamo in una grande stanza, piena di cose strane, oltre a cose a noi
sconosciute, c’era qualcosa che assomigiava ad un aereoplano, solo che non
aveva ne elica, ne ruote.
In una parete in quella che sembrava un armadio c’erano delle tute
argentate e accanto a ognuna di loro, un casco a palla che sembrava un vaso di
vetro dove si potevano mettere l’acqua e dei pesciolini colorati.
I caschi erano leggeri, sembravano di vetro ma non lo erano, nemmeno di
plastica.
Avevamo fatto una grande scoperta, di certo doveva essere una base aliena.
Dovevamo uscire e divulgare alle autorità competenti, la scoperta da noi
fatta.
Avevamo lasciata la stanza quando la luce si spense.
Tornammo ad accendere le nostre torce elettriche.
Niente da fare, le torce non si accendevano.
Nella stanza c’era ancora la luce, non forte come quando eravamo arrivati,
ma ci si vedeva.
Smontammo le torce, controllammo le batterie, niente le torce non si
accendevano.
Potevamo tornare indietro, ma al buio, chissà se avremmo ritrovato la
strada fino a dove avevamo lasciato lo zaino con la corda legata e se poi non
lo avremmo trovato e ci saremmo persi...
Provammo a chiamare aiuto con i telefonini, ma anche loro come le torce non
funzionavano.
La luce nella stanza si andava facendo sempre più debole, che potevamo
fare?
Chissà se l’aereo funzionava?
Non avevamo nulla da perdere, tanto valeva provarlo.
E se funzionava, e se ci avesse portato nello spazio, senza aria come
potevamo respirare?
Prendemmo due tute e aiutandoci a vicenda, le indossammo e una volta messo
il casco e fissato salimmo sull’aereo e ci sedemmo nei sedili di comando.
Come ci sedemmo, il tettino che era sopra di noi che era sollevato quando
eravamo saliti si abbassò fino a quando sentimmo uno scatto.
Facemmo forza per sollevarlo, era bloccato. Eravamo chiusi dentro l’aereo.
La stanza era al buio, non si vedeva più nulla salvo il pannello di fronte
a noi dove c’erano tanti bottoni illuminati.
Ne premetti uno, non successe nulla, ne provai un altro, niente. Uno dopo
l’altro, chissà quanti ne devo aver premuto.
D’improvviso si sentì un rumore e l’aereo cominciò ad ondeggiare.
Di certo stavamo volando.
Volando ma dove?
Eravamo dentro una stanza e per quanto grande che fosse, era sempre una
stanza.
Ad un dato momento mi sentii spingere da dietro in avanti e...caddi dal
letto e mi svegliai.
Era mia moglie che mi aveva spinto sentendomi agitare e dire cose strane.
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