terça-feira, 3 de setembro de 2013

Sogno n.84 Agente Segreto 00128 anno 2012


Tutto cominciò quando al lavoro, scoprii che qualcuno copiava i fax in arrivo e li portava, non sapevo a chi.
Non sembrandomi una cosa onesta, ne feci presente ad un mio superiore, il quale ne fu contento e fece arrestare l’impiegato, facendolo fermare all’uscita e nella perquisizione gli furono trovati documenti compromettenti.
Fui ringraziato e ricevetti un encomio (in denaro).
Sempre facendo il mio dovere, feci prendere diverse talpe (impiegati corrotti).
Un giorno fui mandato a recapitare una busta dove oltre l’indirizzo c’era scritto in neretto Top Secret.
Arrivato sul posto e consegnata la busta, mi invitarono a seguire chi aveva ricevuto la busta e una volta entrato in un ufficio, mi fu chiesto di sedermi e  mettermi comodo.
Il signore (di certo un Dottore), aprì la busta e cominciò a leggere il suo contenuto.
Non sapevo dove stavo, ne chi mi stava rivolgendo delle domande a cui rispondevo senza esitazione, non avendo nulla da nascondere.
Mi fu chiesto del perché conoscessi tante lingue straniere, risposi che, mi era sempre piaciuto conoscere la lingua straniera, per non dovermi trovare in difficoltà se desideravo andare all’estero e capire sopratutto quello che dicevano ai miei confronti.
Oltre alle lingue ufficiali, conoscevo vari dialetti.
Dopo tante domande e tante risposte, mi fu chiesto se volevo entrare a far parte del SSI.
Non sapevo il significato della parola SSI.
Mi rispose che...SSI voleva dire Servizio Secreto Italiano.
Dopo tante parole tra cui: Patriottismo, Onore, Rispetto, Ubbidienza, mi convinsero a far parte del SSI e mi fu dato il numero di identificazione 00128.
Tale numero non lo dovevo rivelare a nessuno, salvo ai miei superiori.
Quando chiesi del Dr. Falchi, mi fu risposto che anche lui faceva parte del SSI.
Mi fu data una busta che dovevo consegnare al Dr. Falchi.
Tornato in ufficio, andai alla stanza del Dr. Falchi e dopo aver bussato e chiesto il permesso, entrai e consegnai la busta nelle sue mani.
Il Dr. Falchi l’aprì e lesse quello che stava scritto.
Terminata la lettura, mi disse che avrei cambiato posto di lavoro.
Fui assegnato all’Ufficio Rapporti Finanziari con l’Estero.
La mia stanza confinava con un’altra che era, la stanza di attesa prima di essere ricevuti dal funzionario che trattava i finanziamenti (italiani) all’estero e (stranieri) che volevano investire i loro soldi in Italia.
Ero munito di cuffie e un registratore dove registravo tutto quello che sentivo (italiano o straniero).
In questo caso, a loro insaputa, sentivo quello che dicevano (se erano in coppia) e se era una cosa che poteva danneggiare il mio paese, chi riceveva le registrazioni, provvedeva in merito.
Un giorno pensai: « Essendo un Agente Segreto dovevo andare armato facendo sì di intervenire rapidamente, in casi di estrema necessità. »
Ne parlai con il Dr. Falchi chiedendo l’autorizzazione a portare un’arma.
L’autorizzazione mi fu negata, così feci di testa mia.
Cominciai ogni domenica a frequentare con il mio amico Roberto il poligono di tiro di Tor de Quinto e dicendo all’Istruttore di un mio probabile lavoro (non dissi quale), dovevo apprendere a sparare con la pistola Beretta.
Mi fu assegnata la Beretta CO2 Modello 92 FS calibro 4,5 m.m.     L’asercitazione fu lunga e faticosa, dovendo sostetenere la pistola con il braccio teso fino a quando il braccio si adattò alla pistola e fu come un prolungamento del braccio
destro.
L’Istruttore (non so se per mestiere o per guadagnarci sopra) mi disse che un bravo poliziotto doveva saper sparare sia con la mano destra, che con la sinistra. Apprendere a sparare con la sinistra fu ancora più difficile, ma con il tempo e con i soldi, riuscii a sparare con tutte e due le mani.
Agli esami fui promosso e mi venne rilasciato il brevetto di tiratore scelto.
Potevo partecipare alle olimpiadi o fare domanda come guardia privata.
Un’altra spesa fu comprare la pistola.
In Italia per comprarla accorreva il Porto d’Armi e non era facile ottenerlo.
L’istruttore del poligono mi suggerì di andare in Spagna.
In Spagna vendevano tutto, bastava solo avere i soldi.
Ci andai con la macchina e una volta comprata, la noscosi nel pannello dello sportello.
Al lavoro non la portai.
La tenevo in casa, nascosta dentro una scatola delle scarpe.
Continuai il mio lavoro di ascolto.
Una mattina mentre stavo parlando (nel corridoio) con un mio collega, vidi arrivare due uomini che anche se vestivano da europei, i loro volti non nascondevano la loro edentità.
Dovevano essere degli arabi.
Parlarono con il mio collega (in perfetto italiano) di un investimento che volevano fare.
Il mio collega li fece accomodare nel salottino di attesa dicendo loro; li avrebbe chiamati quando il Dottore addetto al ramo era libero di riceverli.
Salutato il mio collega, andai nella mia stanza ad ascoltare.
Quello che sentivo nelle cuffie erano solo dei rumori, come se nell’altra stanza qualcuno spostava qualcosa.
Sapevo cosa stavano cercando.
Telecamere o microfoni nascosti.
Non avrebbero trovato nulla.
Era tutto nascosto bene che, neanche una nostra spia riuscì a trovarli.
Quando non trovarono nulla di sospetto, si misero a parlare tra loro.
La loro lingua era l’Arabo, ma era di una regione del del Sudan, chiamata Darfur che si trova ai confini con il Ciad.
Per mia fortuna, quattro anni prima ero stato a passare un mese nel Sudan e conoscendo l’Arabo moderno e antico, riuscii a farmi comprendere e fare buoni aquisti senza farmi imbrogliare.
I due arabi dopo i consueti scambi di notizie familiari, cominciarono a parlare di un prossimo rapimento.
Si trattava della figlia di un Ambasciatore francese che era molto ricco.
Avrebbero chiesti al padre 10 milioni di dollari per sostenere la lotta dell’Islam contro gli Infedeli contrari al riconoscimento dell’Islam come vera religione.
La loro conversazione fu interrotta dall’arrivo del collega che li accompagnò dal Dottore con cui dovevano parlare.
Non essendoci altre persone nel salottino, telefonai al Dr. Falchi chiedendogli se poteva passare dove mi trovavo per una questione della massima importanza.
Quando il Dr. Falchi entrò nella mia stanza gli feci ascoltare la registrazione.
Lui non ci capì niente.
Quando gli spiegai della lingua in cui parlavano e traducendo quello che aveva detto, rimase impressionato.
Mi chiese la copia della registrazione, che feci e consegnai.
Con un giro di amici di varie ambasciate, venni a sapere che di l`a qualche giorno ci
sarebbe stata una festa nella residenza dell’Ambasciatore francese.
Sempre tramite amici, mi feci procurare un invito e travestito da un grasso industriale fui alla festa.
Mangiai poco (per mantenere la linea) e bevvi meno, ma ascoltai molto e feci conoscenza della simpatica Jaqueline (figlia dell’Ambasciatore).
Parlando del più e del meno (con lei), mi lamentai della ciccia che avevo addosso, Jaqueline mi consigliò di fare della ginnastica, risposi di non avere tempo.
Mi disse di fare delle lunghe passeggiate, lei le faceva tutti i sabati all’alba nel parco di Villa Borghese.
Le chiesi se non aveva paura, una bella ragazza come lei.
Mi disse di andare scortata da due muscolose guardie del corpo che erano degli ex legionari.
Le dissi che ci avrei pensato sopra e uno di quei sabati le avrebbe fatto compagnia.
Ma il grasso industriale non le fece mai compagnia.
Attraverso il mio ufficio mi tenevo al corrente delle passeggiate di Jaqueline.
Un elicottero sorvolava il parco ogni sabato mattina.
Tornarono gli arabi del Sudan e una volta entrati nel salottino e verificato di non essere ascoltati, si misero a parlare nel loro dialetto.
Era per sabato 30 settembre.
Quando se ne furono andati, telefonai al mio superione, dandogli la notizia.
Qualche giorno dopo, seppi che, nonostante le raccomandazioni di non fare la passeggiata quel sabato, Jaquiline testarda come un mulo corso (della Corsica), ci andò.
Tutte le entrate erano sorvegliate, fecero entrare il furgone degli addetti comunali per la pulizia del parco e la signorina Jaquiline scortata da quattro atletici sportivi.
Ero in apprensione per la sorte di Jaquiline, nonostante la scorta e la sorveglianza.
Il sabato non andava nessun investitore a parlare con i vari addetti.
Come un qualsiasi impiegato dello Stato ero al mio posto di lavoro e leggevo il giornale Il Messaggero di Roma.
Quel giorno c’era un articolo che riguardava lo sciopero dei netturbini.
Netturbini!!!
Anche quelli che erano entrati nel parco erano Netturbini.
Se non stavano in sciopero, allora chi erano?
Non persi tempo per telefonare al mio superiore.
Nel cassetto (chiuso a chiave) della mia scrivania presi la pistola (da quando avevo sentito i sudanesi parlare del rapimento la tenevo in ufficio).
Mettendomi in tasca del giubbotto, vari caricatori, uscii di corsa dall’ufficio e una volta entrato nel parcheggio montai sulla mia moto Ducati 500 e correndo come un pazzo (a rischio della mia vita e di quella degli altri), andai di volata al parco di Villa Borghese e forzando il blocco degli agenti ad una entrata, cominciai ad andare per i viali.
Furono gli spari ad attirarmi.
Mi diressi verso il luogo dello scontro a fuoco.
Un viale alberato era coperto di cadaveri.
Tre erano le guardie di scorta, due i falsi netturbini.
Si sentivano ancora degli spari, poi una raggiata di un fucile mitragliatore di certo un Kalashnikov mise a tacere il revolver dell’ultima guardia.
Feci rombare il motore della moto e arma alla mano (come se stessi su un cavallo, invece della moto, piombai sui pellirossa Apaches i (falsi netturbini).
Erano in quattro, due cercavano con la forza a far salire Jaquiline sul furgone e due fronteggiavano gli eventuali aiuti della ragazza.
Quando mi vedero, rivolsero i loro mitra verso di me, ma dando una sterzata brusca,
lasciai  scivolare la moto sull’erba e togliendomici da sopra, dopo una serie di capriole (volute), mi rialzai e stando con un ginocchio a terra, tenendo la Beretta con le due mani sparai contro di loro, un caricatore dopo l’altro.
Mentre sparavo, ogni tanto sentivo qualcosa che mi colpiva, ma era tanta la forza che c’era in me, che sebbene più volte colpito, continuai a sparare.
Nonostante avessero i giubetti anti proiettoli, li uccisi tutti, salvando Jaquiline.
Di certo dovevo aver perso i sensi perché quando mi ripresi vidi (quello che mi stava davanti) un telo bianco e delle voci: « Nonostante tutti i nostri sforzi non è riuscito a sopravvivere, dai documenti risulta essere un certo: Luigi Spinelli, è morto da eroe salvando la figlia dell’ambasciatore francese, forse era un poliziotto in borghese. Se ne occuperanno i carabinieri a saperne di più. »
Invece ero vivo e lo volevo dire, ma non ci riuscivo, la bocca era bloccata da qualcosa, sia pure la testa e le braccia.
Se non riuscivo a farmi sentire, mi avrebbero seppellito vivo.
Poi sentii le palpebre abbassarsi e poi più nulla.
Dovevo essere veramente morto.
Invece quando mi svegliai stavo in una stanza tutta bianca e vicino alle altre persone c’era anche il mio superiore il Dr. Falchi.
Quando videro che avevo aperto gli occhi, qualcuno disse: « Bentornato tra i vivi Agente 00128, nonostante la sua inqualificabile iniziativa, la dobbiamo ringraziare, dando la sua vita ha salvato la signorina Jaquiline. »
« Ma io sono vivo » dissi.
« L’Agente segreto è vivo, ma quello che lo impersonava è morto ed è stato cremato, quando sarà guarito avrà un altro nome e un’altra faccia, quella che aveva prima è apparsa su tutti i giornali del mondo e noi non possiamo permetterci che una volta morto torni tra i vivi. »
Tornai ad addormentarmi e quando mi svegliai, non stavo in ospedale, ma a casa mia.
Era stato solo un sogno.




Sem comentários:

Enviar um comentário