Non ci incontrammo, ma ci scontrammo a Roma in Via del Corso, nei pressi di
Piazza del Popolo.
La donna a cui mi scontrai, si chiamava Valentina Ventura ed era
accompagnata da un bambino dai capelli biondi.
Lei camminava guardando le vetrine sulla sua destra, io venendo dalla
Piazza, guardavo qualcosa sulla mia destra, quando ci urtammo.
Non sò quanto tempo restammo a guardarci.
« Mi scusi » dicemmo insieme e poi tornammo a guardarci.
Quello che vedevo era la mia defunta moglie e lei; il suo
defunto marito.
« Valentina! » dissi io.
« Valentino! » disse lei.
« Come sà come mi chiamo? » dicemmo insieme.
« Vede, lei è la copia esatta della mia defunta moglie. » dissi in
italiano, ma con l’accento francese.
« Anch’io vedo la copia esatta del mio defunto marito. »
« Mamma, mamma; dobbiamo andare dai nonni » disse il
bambino strattonandola.
« Valentino, un pó di pazienza, è ancora presto. »
« Se è ancora presto, mi permette, offrirvi un gelato? »
Non volendo rifiutare, mi seguì al Caffè Canosa.
Ci sedemmo ad un tavolino e quando venne il cameriere
chiesi: un gelato alla fragola e pistacchio, e due al cioccolato e limone.
« Come sà che il gelato Fragola e pistacchio è il mio
preferito e quello al cioccolato e limone, è quello di mio figlio? »
« Perché era quello che piaceva a mia moglie, e quello al
cioccolato e limone, piaceva a me. »
Mentre mangiavamo il gelato, noi parlavamo.
« Mamma, ho finito, quando andiamo dai nonni? »
« Subito Valentino, ci andiamo subito. Ora chiamo un
taxi. »
« Se permette, lo chiamo io. » alzandomi, lanciai un fischio agitando una
mano, poco dopo accanto al marciapiede era fermo il taxi.
Pagato i gelati aiutai Valentina e suo figlio a salire
sul taxi.
« Se non le dispiace l’accompagno. » e mi sedetti tra suo
figlio e lei.
Valentina disse di portarla in Via Po al numero 19 e poi
rivolgendosi a me, disse:
« Lo sà che anche mio marito usava fare lo stesso modo
quando doveva chiamare un taxi? »
« Deve essere una coincidenza. »
Poco dopo il taxi si fermò davanti al portone numero 19.
Scendemmo e ci dirigemmo verso il portone.
« I miei genitori abitano qui. »
« Se mi permette di rivederla, penso che avremo molte
cose da dirci. »
« Va bene, torni domani alle 18,30. »
Dandomi la mano, invece di stringerla, vi posai un bacio.
Risalendo sul taxi, le dissi: « Au revoir Valentina. » e mi feci portare a
Piazza Barberini, davanti al Caffe Barberini che era il mio ritrovo, ogni volta
che tornavo a Roma.
Il giorno dopo, alle 18 e 20 ero sotto il portone con un
mazzo di dalie pompon.
Alle 18 e 30 si aprì il portone e uscì Valentina e vedendo i fiori, disse:
« Sono i miei preferiti, come lo sà? Non me lo dica. »
Cominciammo a camminare e poco dopo eravamo seduti in una panchina a Villa
Borghese.
Raccontai la mia storia e lei raccontò la sua.
Mi chiamo Valentino Ventura, sono nato a Parigi il 25 febbraio 1940, i miei
genitori hanno otto figli, sei femmine e due maschi, sono il quarto figlio dopo
tre sorelle, sono alto un metro e settanta centimetri.
Sono medico pedriatra, mi piace il calcio, sono tifoso della Roma e tra i
vari hobby, mi piace suonare il piano, preferisco la musica classica, i miei
autori preferiti sono Vivaldi e Chopin.
La mia defunta moglie si chiamava Valentina Valentini, era nata a Parigi il
17 Marzo 1935 era alta, un metro e sessanta centimetri ed era figlia unica.
I suoi hobby erano la fotografia e suonare la tromba.
A lei piaceva il jazz.
Ci eravamo conosciuti nei Campi Elisee e ci eravamo
innamorati a prima vista.
Avevo venti anni e studiavo medicina, volevo diventare
medico pediatra.
Valentina aveva venticinque anni e lavorava al Ministero
degli Esteri.
Lei era tifosa del Paris San Germaine, ed io della Roma,
come lo sono tutt’ora.
Dopo cinque anni di corteggiamento, ci sposammo e andammo in viaggio di
nozze a Roma, alloggiandoci nell’Hotel Napolion IIIº.
Tornati dopo quindici giorni, Valentina seppe di dover tornare a Roma per
prendere servizio all’Ambasciata di Francia in Viale Liegi.
Prendemmo un appartamento in Viale Manzoni n.75
all’interno 7.
Quando arrivammo, mi ricordo che la Signora Del Gallo (portiera dello
stabile) ci disse: « Siete ritornati, non dovevate andare a Parigi? »
Non sapemmo cosa dire, anche perché parlavamo poco
italiano.
Un anno dopo, sulla Cassia avemmo un incidente con la macchina in cui
Valentina morì ed io tornai a Parigi.
Avendo gettato una moneta nella fontana di Trevi, ogni anno torno a Roma
per una settimana.
Mentre raccontavo la mia storia, a Valentina gli scorrevano le lacrime ed
io mettendole un braccio sulla spalla, le dissi: « Coraggio, almeno voi avete
un figlio, io non ho nessuno. »
Dopo essersi asciugato le lacrime, Valentina mi raccontò
la sua storia.
« Mi chiamo Valentina Ventura, sona nata a Roma il 25 Febbraio 1940, i miei
genitori hanno otto figli; sei maschi e due femmine, sono la quarta figlia dopo
tre fratelli, sono alta un metro e sessanta centimetri.
Sono medica pediatra, mi piace il calcio, sono tifosa della Roma, tra i
vari hobby, mi piace suonare il piano, preferisco la mucica classica e anche a
me piace Vivaldi e Chopin.
Il mio defunto marito si chiamava Valentini Valentini, era nato a Roma il
17 Marzo 1935, alto un metro e settanta centimetri, ed era figlio unico.
Gli piaceva la fotografia e suonare la tromba.
A lui piaceva il jazz.
Ci siamo conosciuti in Via Nazionale e ci eravamo
innamorati a prima vista.
Avevo venti anni, studiavo medicina, volevo diventare
medica petriatra.
Valentino aveva venticinque anni e lavorava al Ministero
degli Esteri.
Lui era tifoso del Paris San Germanine ed io della Roma,
come lo sono tutt’ora.
Dopo cinque anni di corteggiamento, ci sposammo e andammo in viaggio di
nazze a Parigi, prendendo alloggio nell’Hotel Giuseppe Garibaldi.
Tornati dopo quindici giorni a Roma, prendemmo in affitto un appartamento
in Viale Manzoni 75 interno 7.
Ci restammo sei mesi, poi Valentino venne mandato
all’Ambasciata d’ Italia a Parigi.
Un mese dopo abbiamo avuto un incidente e Valentino perse
la vita.
Me ne tornai a Roma e andai a vivere con i miei genitori.
« Dopo quello che abbiamo passato, spero per lo meno di
diventare un amico se le fa piacere? »
« Si! Mi piacerebbe, e tanto per cominciare, diamoci del
tu. »
Diventammo amici e come amici, ci vedevamo ogni volta che
tornavo a Roma e ogni volta che la riaccompagnavo a casa, le davo un bacio
sulla mano.
Un pomeriggio la portai al Caffe Barberini e mentre eravamo seduti a
gustare i nostri gelati, mi alzai dal tavolino e sedendomi al piano, cominciai
a suonare: Pleiser d’Amour.
Mentre stavo suonando, Valentina si sedette accanto e a
quattro mani continuammo a suonare, poi mentre io cantavo Pleisir d’Amour in
francese, lei lo cantava in italiano.
Alla fine fummo molto applauditi.
Una sera mi invitò a cena dai suoi genitori.
Non conoscendoli, mi feci dire da Valentina, che regali
portare.
Oltre il tabacco per la pipa del Signor Francesco Ventura, una scatola di
cioccolatini per la Signora Ada Marcelli e una bottiglia di Champagne per la
cena ( non scordando le dalie pompon per Valentina ).
Il Signor Francesco, quando mi vide, rimase impressionato per la
somiglianza con il suo defunto genero, così anche tutta la famiglia presente.
Dopo cena io e Valentina suonammo il piano e tutta la
famiglia si unì al nostro canto.
Ogni volta che tornavo a Roma, dovevo andare a cena a casa
loro ed ero trattato come se invece di un amico, ero il marito di Valentina.
Anche al già quattrordicenne Valentino ero simpatico.
In un mio ritorno a Roma, mentre eravamo seduti ad una panchina a Villa
Borghese, domandai a Valentina se era già stata in India.
Lei disse di nò.
Invitai Valentina a fare un viaggio con me a Jaipur in
India.
« Jaipur; anche se non sono mai stata in India, dai racconti che ho letto,
conosco New Delhi, Calcutta e Bombay, ma di Jaipur non ne ho mai sentito
parlare. »
« Se è per questo, neanch’io ne ha sentito parlare; me ne ha parlato un
collega indiano, dicendomi che vale la pena andarci. Jaipur è la capitale dello
Stato di Rajasthan che si trova vicino a New Delhi. »
Valentina disse di non saperlo, dato il suo lavoro nell’ospedale.
Vedendo una bella ragazza, dissi: « Proverò a dirlo a quella ragazza, se
vuole venire con me. »
« Perché quella ragazza, la conosci? »
« No, ma posso conoscerla » e feci l’atto di alzarmi.
« Stà giù, se proprio ci devi portare qualcuno, allora ci devi portare me,
non una qualsiasi. »
« Ho l’impressione che sei gelosa. E come fai per il
lavoro? »
« Chiederò una settimana di permesso, non cascherà mica
il mondo se non ci sarò. »
Rimanendo d’accordo, cercai una agenzia che si occupava anche dei visti per
i passaporti.
Quando tutto fu a posto, prendemmo l’aereo all’aereporto di Fiumicino e
senza fare scalo, atterrammo all’aereoporto di Delhi.
Da Delhi con il treno arrivammo a Jaipur e con un taxi ci
facemmo portare nell’Hotel che avevo prenotato.
Alla recezione, ricevemmo una amara sorpresa.
Delle due stanze che avevo prenotato, ce ne potevano dare solo una, data
l’affluenza di turisti.
Guardai Valentina e dissi: « Che vogliamo fare, cerchiamo
un altro Hotel? »
« Non vale la pena, basta che ti comporti come un
gentiluomo. »
Alzando due dita a V dissi: « Parola di boy-scout. »
Svolte le formalità di uso, venimmo accompagnati nella
nostra stanza.
Per fortuna, aveva due letti singoli.
Disfatte le valigie, ci cambiammo e scendemmo per la
cena.
Il ristorante era pieno, tutti i tavoli erano occupati.
Il cameriere ci fece cenno di seguirlo e poco dopo si
fermò vicino ad un tavolo.
Più che tavolo era un tavolino; tanto era piccolo e
basso.
Dovevamo sedere nei bassi sgabelli e tenere le gambe
incrociate.
Non sò che mangiammo, era molto buono e molto piccante, bevemmo, non
ricordo quante tazze di tè freddo.
Finita la cena, il cameriere che ci aveva accompagnato al
tavolo, mi porse una busta.
« Cosa è? » mi chiese Valentina.
« Un invito, » dissi io.
« Come sai che è un invito, non mi dirai che conosci
l’indiano? »
« No, ma lo immagino. », poi aiutai Valentina ad alzarsi e andammo con gli
altri ospiti ad assistere ad un concerto di suoni, canti e danze locali.
Ad un dato momento Valentina cominciò a sbadigliare, portando sempre la
mano davanti la bocca.
« Hai sonno, vuoi andare in camera? »
« Si! Grazie. »
Prendemmo l’ascensore e ne uscimmo al terzo piano,
dirigendoci alla stanza 312.
Una volta dentro,Valentina mi chiese di mostrargli la
busta.
Anche se in caratteri indiani, si riusciva a leggere il
mio nome.
Nell’interno c’era un cartoncino ed era scritto in caratteri dorati, ma non
si capiva quello che c’era scritto.
Prima io, poi Valentina, ci lavammo i denti, messo il pigiama e la camicia
da notte, ci dirigemmo ognuno nel proprio letto, dandoci la buona notte, ci
mettemmo a dormire.
La mattina dopo, fummo svegliati dal battere alla porta.
« Chi ci disturba a quest’ora? » gli occhi si posarono
sull’orologio: erano le 12,15.
Mettendomi una vestaglia sopra il pigiama, andai ad
aprire la porta.
Era uno stuolo di ragazze in costume, che entrarono
dentro senza essere invitare.
Parlando tutte insieme (non si capiva niente), presero a spogliarmi e nudo
come un verme, mi spinsero sotto la
doccia.
Sotto la doccia c’era già Valentina, che non si oppose la
lavaggio energico.
Una volta ben lavati, asciugati e profumati, ci obbligarono ad indossare i
vestiti che avevano portati con loro.
Una volta indossati, sembravamo: un principe e una
principessa indiana.
Così vestiti, ci spinsero fuori dalla stanza e
dall’Hotel.
Fuori c’era ad aspettarci un elefante, tutto agghindato.
L’elefante stava inginocchiato e con una scaletta poggiata nel suo lato,
potemmo salire e istallarci dentro ad un baldacchino che sembrava una Pagota.
Una volta dentro, sentimmo l’elefante sollevarsi e
cominciare a muoversi in mezzo al traffico delle macchine.
« Che ti avevo detto, di certo ci porterà al palazzo del
Maraja. »
« Mi sembra di sognare, grazie a te, sono in India e diretta al palazzo di un
Maraja; che sorprese mi riserverai in futuro? »
« Quello che Budda (il Dio indiano) ci riserverà. »
Non sò quanto andammo, poi l’elefante si fermò.
Eravamo arrivati ad un palazzo, degno del Taj Mahal.
Dopo essersi inginocchiato, fummo aiutati a scendere e condotti da un
signore in abito bianco, alla presenza del Maraja.
Il Maraja stava seduto in un trono di marmo bianco, tutto incastonato di
pietre preziose.
Sulla sua destra, su un trono più piccolo, ma non meno
incastonato, sedeva una donna (di una certa età, di certo, la moglie).
Sulla sua sinistra c’erano altri due troni, vuoti.
Uno uguale al suo, l’atro, uguale a quello di sua moglie.
Il Maraja fece un gesto e chi ci aveva accompagnato disse in perfetto
italiano: « Il Maraja, come ogni anno in occasione del compleanno della sposa,
invita una coppia straniera a partecipare alla festa in onore della sua amata
sposa. Quest’anno siete stati scelti voi. »
« Dite al Maraja che siamo onorati per averci invitati. »
Il Dignitario traducendo in indiano, lo riferì al Maraja; tornando poi a
parlare in italiano. « Oggi come tutti gli anni, ci sarà la caccia alla tigre.
»
A sentire quello, mi tornò in mente quello che il collega
indiano mi disse quando fui a lui presentato: « In base al giorno e mese
dell’anno, in India, tu sei nato sotto il segno della tigre. »
Pensando a quello che aveva detto il Dignitario a
proposito della caccia alla tigre, non potevo permettere che si uccidesse (il
mio segno) la tigre.
Come fare per impedirlo?
Dopo i vari preparativi, mi chiesto se sapevo usare il
fucile.
Avendo fatto il militare, risposi di si. Mi fu consegnato un fucile da
caccia grossa e mi unii al Maraja ed a altri uomini invitati.
I battitori avevano scovato una tigre e l’avevano spinta nel luogo dove
eravamo appostati.
Quando dai ruggiti capii che la tigre era prossima, pronai il cavallo e lo
diressi verso la tigre.
Quando il cavallo sentì la tigre, si impennò, facendomi
cadere.
Mi rialzai un poco acciaccato e mentre il cavallo fuggiva, mi diressi verso
i rumori che faceva la tigre.
D’improvviso la tigre uscì da un folto cespuglio e si
fermò a pochi metri da me.
Mostrando le mani nude, cominciai a parlare alla tigre: « Ma che
bel’animale, hai un aspetto magnifico, un portamento maestoso; lo sai che sei
il mio segno zodiacale? Questo vuol dire che noi due siamo amici. »
La tigre mi guardava, ogni tanto apriva la bocca ruggendo,
ma non si muoveva.
Ad un dato momento la tigre cominciò ad innervosirsi.
Mi voltai e vidi il Maraja e altri due uomini che avevano
i fucili puntati.
Mettendomi davanti alla tigre, dissi: « Non sparate, non
uccidete il mio segno. »
Loro mi guardarono, anche se non avevano capito quello che avevo detto,
abbassarono i fucili.
Rivolgendomi alla tigre dissi: « Vai via, fuggi prima che
ci ripensino. »
Vedendo che la tigre non si muoveva, presi a spingerla come se fosse un
animale domestico.
La tigre dopo l’ultimo ruggito, si voltò e sparì nella
veggetazione.
Poco dopo un servitore mi riportò il mio cavallo e tutti
insieme tornammo al palazzo.
Una volta giunti, dissi al Dignitario che avevo rovinato la festa impedendo
l’uccisione della tigre.
Lui, con un sorriso disse: « Era destino che oggi la
tigre non doveva essere uccisa. »
Valentina rivolgendosi a me, volle sapere cosa era
accaduto.
Gli raccontai l’accaduto e lei scuotendo la testa disse: « Devi essere
matto, rischiare la vita per una tigre. »
« Non è tanto aver rischiato la vita per salvare la tigre, è che la tigre
faceva parte del nostro segno zodiacale. »
Come se non fosse accaduto nulla, la festa continuò.
Dopo un lauto pasto, fummo nel parco ad assistere alle
danze e giochi acrobatici.
C’erano fachiri che camminavano su carboni accesi o si
sdraiavano su letti di chiodi.
C’era anche un incantatore di serpenti.
Attorno a lui c’era un circolo di persone.
C’eravamo anche noi.
A un dato momento vidi un serpente uscire da una cesta e senza che
l’incantatore se ne accorgesse, si stava dirigendo verso una bambina.
Mettendomi davanti al serpente, cominciai a fischiettare
una canzone.
Il serpente era un cobra si fermò, alzò la testa, poi
cominciò a muoversi, a dondolarsi come se danzasse.
Continuai a fischiettare fino a che l’incantatore con un gesto rapido, lo
afferrò e rimise nella cesta.
Fui applaudito e Valentina tornò a dirmi: « Sei proprio
matto. »
Era sera quando fummo riaccompagnati all’Hotel.
Il giorno dopo, come il giorno prima, tornarono le ragazze indiane che dopo
averci lavati, ci aiutarono ad indossare gli abiti indiani e accompagnarci
all’uscita dell’Hotel.
Fuori c’era l’elefante ad aspettarci.
Ci stavamo dirigendo verso di lui, quando d’improvviso,
l’elefante si rialzò.
Che era successo, perché si era rialzato?
Una vecchia signora aveva attraversato la strada passando
davanti all’elefante.
L’elefante si doveva essere spaventato e si era alzato
all’improvviso.
Per di più aveva alzato la zampa anteriore destra.
Vidi che la vecchia signora era caduta in terra e la zampa dell’elefante la
stava per schiacciare.
Feci una corsa e mi misi sotto la zampa con la schiena, spingendo la zampa
verso l’alto, mentre altre persone aiutavano la vecchia signora a rialzarsi e
mettersi in salvo.
Solo allora mi tolsi da quell’incomodo.
Fui ringraziato dalla vecchia signora e da tutti quelli
che avevano assistito.
Valentina tornò a dire: « Sei proprio matto. »
Dopo essere saliti sull’elefante, fummo condotti al
palazzo del Maraja.
Una volta giunti, il Maraja volle che sedessi accanto a
lui.
Cercai di rifiutare, offrendo il mio posto a Valentina.
Il Dignitario disse che quello era il mio posto e il suo
era quello vicino.
Dopo esserci seduti, potei vedere dove ci trovavamo.
Eravamo in un enorme salone, pieno di gente, tutta
vestita all’antica moda indiana.
Il Maraja betté le mani e entrò nel salone da una porta laterale un altro
indiano, vestito di bianco con un grande rotolo (di certo papiro), che consegnò
al Maraja.
Lui lo passò a chi ci aveva accompagnato, che lo cominciò
a srotolare.
« Questa è la tua storia. » rivolgendosi a me.
« La mia storia, è la prima volta che vengo in India. »
« Ci sei già stato, in una altra incarnazione. »
Cominciò a mostrare la prima immagine, nella quale si vede un bambino
europeo davanti ad una tigre, impedendo ad un cacciatore inglese di sparare dal
baldacchino posto sull’elefante.
« Qui si vede un tuo antenato, ancora bambino, impedire al cacciatore di
uccidere la tigre, sacra agli indù. »
Nella immagine seguente, si vede il bambino a cavalcione della tigre,
inoltrarsi nella foresta.
« Quel bambino dimostra di non aver paura. »
Nell’immagine successiva, si vede il bambino mettersi
davanti ad un cobra velenoso.
« Durante una festa dove erano invitati dal Maraja, ospiti indiani e
stranieri, ad un incantatore di serpenti,gli era sfuggita l’attenzione di uno
dei suoi serpenti. Se non fosse intervenuto il bambino, già grandicello, il
cobra avrebbe morso qualcuno, uccidendolo. Il bambino mettendosi davanti al
serpente, sfidò la morte, distraendo l’attenzione del serpente, dando il modo
all’incantatore di prenderlo e rimetterlo nella cesta. »
In un’altra immaggine, si vede il ragazzo che sta con la schiena sotto la
zampa dell’elefante, mentre aiuta una vecchia signora a non essere calpestata.
« Qui vediamo un ragazzo che interviene per salvare una vecchia signora che
era caduta e stava per essere calpestata dall’elefante; il quale poteva
schiacciare la schiena del ragazzo. »
Un’altra immagina mostra un giovane fissare una ragazza
indiana.
« Il ragazzo diventato grande, è un medico pedriatra, venuto in India a
curare i bambini indiani. Incontra un’altra medica pediatra e i due si
innamorano. »
L’immagine seguente, mostra la ragazza che lo presenta a
suo padre.
« La ragazza indiana, era la figlia del Maraja Srila Narayana. Presenta
Valentino Ventura al padre, che lo accetta come genero, dandogli la mano della
figlia. Dal loro matrimonio, nascono otto figli, che conservano il cognome del
Maraja e della sposa di lui, venendosi a chiamare: Srila Bhaktivedanta Narayana
Ventura. Il primo dei quali è: Valentino Srila Bhaktivedanta Narayana Ventura;
l’attuale Maraja di Jaipur capitale dello Stato di Rajastan. »
Il Maraja cominciò a parlare e il funzionario di corte, traduceva: « Il mio
signore e padrone, Maraja di Jaipur, non avendo figli, ti vorrebbe adottare
come suo figlio, dando al popolo di Jaipur, un erede che lo sostituirà al trono
dopo la sua morte. Accetti? »
Guardando Valentina, con la voce roca, dissi: « Sarei molto onorato di
diventare tuo figlio. »
Detto questo, il dignitario di corte aprì un libro, scritto in oro,
facendomi firmare dove lui mi indicò, poi lo porse al Maraja e lui alzandosi
dal trono, mi abbracciò, presentandomi al popolo lì riunito.
Mentre ero tra le braccia del Maraja, sentii la moglie dire qualcosa a
Valentina, quello che capii era: che avremmo avuto otto figli.
Poi...mi sono svegliato.
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