domingo, 1 de setembro de 2013

Sogno n.64 Il tempo torna indietro anno 2011


Non ci incontrammo, ma ci scontrammo a Roma in Via del Corso, nei pressi di Piazza del Popolo.
La donna a cui mi scontrai, si chiamava Valentina Ventura ed era accompagnata da un bambino dai capelli biondi.
Lei camminava guardando le vetrine sulla sua destra, io venendo dalla Piazza, guardavo qualcosa sulla mia destra, quando ci urtammo.
Non sò quanto tempo restammo a guardarci.
« Mi scusi » dicemmo insieme e poi tornammo a guardarci.
Quello che vedevo era la mia defunta moglie e lei; il suo defunto marito.
« Valentina! » dissi io.
« Valentino! » disse lei.
« Come sà come mi chiamo? » dicemmo insieme.
« Vede, lei è la copia esatta della mia defunta moglie. » dissi in italiano, ma con l’accento francese.
« Anch’io vedo la copia esatta del mio defunto marito. »
« Mamma, mamma; dobbiamo andare dai nonni » disse il bambino strattonandola.
« Valentino, un pó di pazienza, è ancora presto. »
« Se è ancora presto, mi permette, offrirvi un gelato? »
Non volendo rifiutare, mi seguì al Caffè Canosa.
Ci sedemmo ad un tavolino e quando venne il cameriere chiesi: un gelato alla fragola e pistacchio, e due al cioccolato e limone.
« Come sà che il gelato Fragola e pistacchio è il mio preferito e quello al cioccolato e limone, è quello di mio figlio? »
« Perché era quello che piaceva a mia moglie, e quello al cioccolato e limone, piaceva a me. »
Mentre mangiavamo il gelato, noi parlavamo.
« Mamma, ho finito, quando andiamo dai nonni? »
« Subito Valentino, ci andiamo subito. Ora chiamo un taxi. »
« Se permette, lo chiamo io. »  alzandomi, lanciai un fischio agitando una mano, poco dopo accanto al marciapiede era fermo il taxi.
Pagato i gelati aiutai Valentina e suo figlio a salire sul taxi.
« Se non le dispiace l’accompagno. » e mi sedetti tra suo figlio e lei.
Valentina disse di portarla in Via Po al numero 19 e poi rivolgendosi a me, disse:
« Lo sà che anche mio marito usava fare lo stesso modo quando doveva chiamare un taxi? »
« Deve essere una coincidenza. »
Poco dopo il taxi si fermò davanti al portone numero 19.
Scendemmo e ci dirigemmo verso il portone.
« I miei genitori abitano qui. »
« Se mi permette di rivederla, penso che avremo molte cose da dirci. »
« Va bene, torni domani alle 18,30. »
Dandomi la mano, invece di stringerla, vi posai un bacio.
Risalendo sul taxi, le dissi: « Au revoir Valentina. » e mi feci portare a Piazza Barberini, davanti al Caffe Barberini che era il mio ritrovo, ogni volta che tornavo a Roma.
Il giorno dopo, alle 18 e 20 ero sotto il portone con un mazzo di dalie pompon.
Alle 18 e 30 si aprì il portone e uscì Valentina e vedendo i fiori, disse: « Sono i miei preferiti, come lo sà? Non me lo dica. »
Cominciammo a camminare e poco dopo eravamo seduti in una panchina a Villa Borghese.
Raccontai la mia storia e lei raccontò la sua.
Mi chiamo Valentino Ventura, sono nato a Parigi il 25 febbraio 1940, i miei genitori hanno otto figli, sei femmine e due maschi, sono il quarto figlio dopo tre sorelle, sono alto un metro e settanta centimetri.
Sono medico pedriatra, mi piace il calcio, sono tifoso della Roma e tra i vari hobby, mi piace suonare il piano, preferisco la musica classica, i miei autori preferiti sono Vivaldi e Chopin.
La mia defunta moglie si chiamava Valentina Valentini, era nata a Parigi il 17 Marzo 1935 era alta, un metro e sessanta centimetri ed era figlia unica.
I suoi hobby erano la fotografia e suonare la tromba.
A lei piaceva il jazz.
Ci eravamo conosciuti nei Campi Elisee e ci eravamo innamorati a prima vista.
Avevo venti anni e studiavo medicina, volevo diventare medico pediatra.
Valentina aveva venticinque anni e lavorava al Ministero degli Esteri.
Lei era tifosa del Paris San Germaine, ed io della Roma, come lo sono tutt’ora.
Dopo cinque anni di corteggiamento, ci sposammo e andammo in viaggio di nozze a Roma, alloggiandoci nell’Hotel Napolion IIIº.
Tornati dopo quindici giorni, Valentina seppe di dover tornare a Roma per prendere servizio all’Ambasciata di Francia in Viale Liegi.
Prendemmo un appartamento in Viale Manzoni n.75 all’interno 7.
Quando arrivammo, mi ricordo che la Signora Del Gallo (portiera dello stabile) ci disse: « Siete ritornati, non dovevate andare a Parigi? »
Non sapemmo cosa dire, anche perché parlavamo poco italiano.
Un anno dopo, sulla Cassia avemmo un incidente con la macchina in cui Valentina morì ed io tornai a Parigi.
Avendo gettato una moneta nella fontana di Trevi, ogni anno torno a Roma per una settimana.
Mentre raccontavo la mia storia, a Valentina gli scorrevano le lacrime ed io mettendole un braccio sulla spalla, le dissi: « Coraggio, almeno voi avete un figlio, io non ho nessuno. »
Dopo essersi asciugato le lacrime, Valentina mi raccontò la sua storia.
« Mi chiamo Valentina Ventura, sona nata a Roma il 25 Febbraio 1940, i miei genitori hanno otto figli; sei maschi e due femmine, sono la quarta figlia dopo tre fratelli, sono alta un metro e sessanta centimetri.
Sono medica pediatra, mi piace il calcio, sono tifosa della Roma, tra i vari hobby, mi piace suonare il piano, preferisco la mucica classica e anche a me piace Vivaldi e Chopin.
Il mio defunto marito si chiamava Valentini Valentini, era nato a Roma il 17 Marzo 1935, alto un metro e settanta centimetri, ed era figlio unico.
Gli piaceva la fotografia e suonare la tromba.
A lui piaceva il jazz.
Ci siamo conosciuti in Via Nazionale e ci eravamo innamorati a prima vista.
Avevo venti anni, studiavo medicina, volevo diventare medica petriatra.
Valentino aveva venticinque anni e lavorava al Ministero degli Esteri.
Lui era tifoso del Paris San Germanine ed io della Roma, come lo sono tutt’ora.
Dopo cinque anni di corteggiamento, ci sposammo e andammo in viaggio di nazze a Parigi, prendendo alloggio nell’Hotel Giuseppe Garibaldi.
Tornati dopo quindici giorni a Roma, prendemmo in affitto un appartamento in Viale Manzoni 75 interno 7.
Ci restammo sei mesi, poi Valentino venne mandato all’Ambasciata d’ Italia a Parigi.
Un mese dopo abbiamo avuto un incidente e Valentino perse la vita.
Me ne tornai a Roma e andai a vivere con i miei genitori.
« Dopo quello che abbiamo passato, spero per lo meno di diventare  un amico se le fa piacere? »
« Si! Mi piacerebbe, e tanto per cominciare, diamoci del tu. »
Diventammo amici e come amici, ci vedevamo ogni volta che tornavo a Roma e ogni volta che la riaccompagnavo a casa, le davo un bacio sulla mano.
Un pomeriggio la portai al Caffe Barberini e mentre eravamo seduti a gustare i nostri gelati, mi alzai dal tavolino e sedendomi al piano, cominciai a suonare: Pleiser d’Amour.
Mentre stavo suonando, Valentina si sedette accanto e a quattro mani continuammo a suonare, poi mentre io cantavo Pleisir d’Amour in francese, lei lo cantava in italiano.
Alla fine fummo molto applauditi.
Una sera mi invitò a cena dai suoi genitori.
Non conoscendoli, mi feci dire da Valentina, che regali portare.
Oltre il tabacco per la pipa del Signor Francesco Ventura, una scatola di cioccolatini per la Signora Ada Marcelli e una bottiglia di Champagne per la cena ( non scordando le dalie pompon per Valentina ).
Il Signor Francesco, quando mi vide, rimase impressionato per la somiglianza con il suo defunto genero, così anche tutta la famiglia presente.
Dopo cena io e Valentina suonammo il piano e tutta la famiglia si unì al nostro canto.
Ogni volta che tornavo a Roma, dovevo andare a cena a casa loro ed ero trattato come se invece di un amico, ero il marito di Valentina.
Anche al già quattrordicenne Valentino ero simpatico.
In un mio ritorno a Roma, mentre eravamo seduti ad una panchina a Villa Borghese, domandai a Valentina se era già stata in India.
Lei disse di nò.
Invitai Valentina a fare un viaggio con me a Jaipur in India.
« Jaipur; anche se non sono mai stata in India, dai racconti che ho letto, conosco New Delhi, Calcutta e Bombay, ma di Jaipur non ne ho mai sentito parlare. »
« Se è per questo, neanch’io ne ha sentito parlare; me ne ha parlato un collega indiano, dicendomi che vale la pena andarci. Jaipur è la capitale dello Stato di Rajasthan che si trova vicino a New Delhi. »
Valentina disse di non saperlo, dato il suo lavoro nell’ospedale.
Vedendo una bella ragazza, dissi: « Proverò a dirlo a quella ragazza, se vuole venire con me. »
« Perché quella ragazza, la conosci? »
« No, ma posso conoscerla » e feci l’atto di alzarmi.
« Stà giù, se proprio ci devi portare qualcuno, allora ci devi portare me, non una qualsiasi. »
« Ho l’impressione che sei gelosa. E come fai per il lavoro? »
« Chiederò una settimana di permesso, non cascherà mica il mondo se non ci sarò. »
Rimanendo d’accordo, cercai una agenzia che si occupava anche dei visti per i passaporti.
Quando tutto fu a posto, prendemmo l’aereo all’aereporto di Fiumicino e senza fare scalo, atterrammo all’aereoporto di Delhi.
Da Delhi con il treno arrivammo a Jaipur e con un taxi ci facemmo portare nell’Hotel che avevo prenotato.
Alla recezione, ricevemmo una amara sorpresa.
Delle due stanze che avevo prenotato, ce ne potevano dare solo una, data l’affluenza di turisti.
Guardai Valentina e dissi: « Che vogliamo fare, cerchiamo un altro Hotel? »
« Non vale la pena, basta che ti comporti come un gentiluomo. »
Alzando due dita a V dissi: « Parola di boy-scout. »
Svolte le formalità di uso, venimmo accompagnati nella nostra stanza.
Per fortuna, aveva due letti singoli.
Disfatte le valigie, ci cambiammo e scendemmo per la cena.
Il ristorante era pieno, tutti i tavoli erano occupati.
Il cameriere ci fece cenno di seguirlo e poco dopo si fermò vicino ad un tavolo.
Più che tavolo era un tavolino; tanto era piccolo e basso.
Dovevamo sedere nei bassi sgabelli e tenere le gambe incrociate.
Non sò che mangiammo, era molto buono e molto piccante, bevemmo, non ricordo quante tazze di tè freddo.
Finita la cena, il cameriere che ci aveva accompagnato al tavolo, mi porse una busta.
« Cosa è? » mi chiese Valentina.
« Un invito, » dissi io.
« Come sai che è un invito, non mi dirai che conosci l’indiano? »
« No, ma lo immagino. », poi aiutai Valentina ad alzarsi e andammo con gli altri ospiti ad assistere ad un concerto di suoni, canti e danze locali.
Ad un dato momento Valentina cominciò a sbadigliare, portando sempre la mano davanti la bocca.
« Hai sonno, vuoi andare in camera? »
« Si! Grazie. »
Prendemmo l’ascensore e ne uscimmo al terzo piano, dirigendoci alla stanza 312.
Una volta dentro,Valentina mi chiese di mostrargli la busta.
Anche se in caratteri indiani, si riusciva a leggere il mio nome.
Nell’interno c’era un cartoncino ed era scritto in caratteri dorati, ma non si capiva quello che c’era scritto.
Prima io, poi Valentina, ci lavammo i denti, messo il pigiama e la camicia da notte, ci dirigemmo ognuno nel proprio letto, dandoci la buona notte, ci mettemmo a dormire.
La mattina dopo, fummo svegliati dal battere alla porta.
« Chi ci disturba a quest’ora? » gli occhi si posarono sull’orologio: erano le 12,15.
Mettendomi una vestaglia sopra il pigiama, andai ad aprire la porta.
Era uno stuolo di ragazze in costume, che entrarono dentro senza essere invitare.
Parlando tutte insieme (non si capiva niente), presero a spogliarmi e nudo come un verme,  mi spinsero sotto la doccia.
Sotto la doccia c’era già Valentina, che non si oppose la lavaggio energico.
Una volta ben lavati, asciugati e profumati, ci obbligarono ad indossare i vestiti che avevano portati con loro.
Una volta indossati, sembravamo: un principe e una principessa indiana.
Così vestiti, ci spinsero fuori dalla stanza e dall’Hotel.
Fuori c’era ad aspettarci un elefante, tutto agghindato.
L’elefante stava inginocchiato e con una scaletta poggiata nel suo lato, potemmo salire e istallarci dentro ad un baldacchino che sembrava una Pagota.
Una volta dentro, sentimmo l’elefante sollevarsi e cominciare a muoversi in mezzo al traffico delle macchine.
« Che ti avevo detto, di certo ci porterà al palazzo del Maraja. »
« Mi sembra di sognare, grazie a te, sono in India e diretta al palazzo di un Maraja; che sorprese mi riserverai in futuro? »
« Quello che Budda (il Dio indiano) ci riserverà. »
Non sò quanto andammo, poi l’elefante si fermò.
Eravamo arrivati ad un palazzo, degno del Taj Mahal.
Dopo essersi inginocchiato, fummo aiutati a scendere e condotti da un signore in abito bianco, alla presenza del Maraja.
Il Maraja stava seduto in un trono di marmo bianco, tutto incastonato di pietre preziose.
Sulla sua destra, su un trono più piccolo, ma non meno incastonato, sedeva una donna (di una certa età, di certo, la moglie).
Sulla sua sinistra c’erano altri due troni, vuoti.
Uno uguale al suo, l’atro, uguale a quello di sua moglie.
Il Maraja fece un gesto e chi ci aveva accompagnato disse in perfetto italiano: « Il Maraja, come ogni anno in occasione del compleanno della sposa, invita una coppia straniera a partecipare alla festa in onore della sua amata sposa. Quest’anno siete stati scelti voi. »
« Dite al Maraja che siamo onorati per averci invitati. »
Il Dignitario traducendo in indiano, lo riferì al Maraja; tornando poi a parlare in italiano. « Oggi come tutti gli anni, ci sarà la caccia alla tigre. »
A sentire quello, mi tornò in mente quello che il collega indiano mi disse quando fui a lui presentato: « In base al giorno e mese dell’anno, in India, tu sei nato sotto il segno della tigre. »
Pensando a quello che aveva detto il Dignitario a proposito della caccia alla tigre, non potevo permettere che si uccidesse (il mio segno) la tigre.
Come fare per impedirlo?
Dopo i vari preparativi, mi chiesto se sapevo usare il fucile.
Avendo fatto il militare, risposi di si. Mi fu consegnato un fucile da caccia grossa e mi unii al Maraja ed a altri uomini invitati.
I battitori avevano scovato una tigre e l’avevano spinta nel luogo dove eravamo appostati.
Quando dai ruggiti capii che la tigre era prossima, pronai il cavallo e lo diressi verso la tigre.
Quando il cavallo sentì la tigre, si impennò, facendomi cadere.
Mi rialzai un poco acciaccato e mentre il cavallo fuggiva, mi diressi verso i rumori che faceva la tigre.
D’improvviso la tigre uscì da un folto cespuglio e si fermò a pochi metri da me.
Mostrando le mani nude, cominciai a parlare alla tigre: « Ma che bel’animale, hai un aspetto magnifico, un portamento maestoso; lo sai che sei il mio segno zodiacale? Questo vuol dire che noi due siamo amici. »
La tigre mi guardava, ogni tanto apriva la bocca ruggendo, ma non si muoveva.
Ad un dato momento la tigre cominciò ad innervosirsi.
Mi voltai e vidi il Maraja e altri due uomini che avevano i fucili puntati.
Mettendomi davanti alla tigre, dissi: « Non sparate, non uccidete il mio segno. »
Loro mi guardarono, anche se non avevano capito quello che avevo detto, abbassarono i fucili.
Rivolgendomi alla tigre dissi: « Vai via, fuggi prima che ci ripensino. »
Vedendo che la tigre non si muoveva, presi a spingerla come se fosse un animale domestico.
La tigre dopo l’ultimo ruggito, si voltò e sparì nella veggetazione.
Poco dopo un servitore mi riportò il mio cavallo e tutti insieme tornammo al palazzo.
Una volta giunti, dissi al Dignitario che avevo rovinato la festa impedendo l’uccisione della tigre.
Lui, con un sorriso disse: « Era destino che oggi la tigre non doveva essere uccisa. »
Valentina rivolgendosi a me, volle sapere cosa era accaduto.
Gli raccontai l’accaduto e lei scuotendo la testa disse: « Devi essere matto, rischiare la vita per una tigre. »
« Non è tanto aver rischiato la vita per salvare la tigre, è che la tigre faceva parte del nostro segno zodiacale. »
Come se non fosse accaduto nulla, la festa continuò.
Dopo un lauto pasto, fummo nel parco ad assistere alle danze e giochi acrobatici.
C’erano fachiri che camminavano su carboni accesi o si sdraiavano su letti di chiodi.
C’era anche un incantatore di serpenti.
Attorno a lui c’era un circolo di persone.
C’eravamo anche noi.
A un dato momento vidi un serpente uscire da una cesta e senza che l’incantatore se ne accorgesse, si stava dirigendo verso una bambina.
Mettendomi davanti al serpente, cominciai a fischiettare una canzone.
Il serpente era un cobra si fermò, alzò la testa, poi cominciò a muoversi, a dondolarsi come se danzasse.
Continuai a fischiettare fino a che l’incantatore con un gesto rapido, lo afferrò e rimise nella cesta.
Fui applaudito e Valentina tornò a dirmi: « Sei proprio matto. »
Era sera quando fummo riaccompagnati all’Hotel.
Il giorno dopo, come il giorno prima, tornarono le ragazze indiane che dopo averci lavati, ci aiutarono ad indossare gli abiti indiani e accompagnarci all’uscita dell’Hotel.
Fuori c’era l’elefante ad aspettarci.
Ci stavamo dirigendo verso di lui, quando d’improvviso, l’elefante si rialzò.
Che era successo, perché si era rialzato?
Una vecchia signora aveva attraversato la strada passando davanti all’elefante.
L’elefante si doveva essere spaventato e si era alzato all’improvviso.
Per di più aveva alzato la zampa anteriore destra.
Vidi che la vecchia signora era caduta in terra e la zampa dell’elefante la stava per schiacciare.
Feci una corsa e mi misi sotto la zampa con la schiena, spingendo la zampa verso l’alto, mentre altre persone aiutavano la vecchia signora a rialzarsi e mettersi in salvo.
Solo allora mi tolsi da quell’incomodo.
Fui ringraziato dalla vecchia signora e da tutti quelli che avevano assistito.
Valentina tornò a dire: « Sei proprio matto. »
Dopo essere saliti sull’elefante, fummo condotti al palazzo del Maraja.
Una volta giunti, il Maraja volle che sedessi accanto a lui.
Cercai di rifiutare, offrendo il mio posto a Valentina.
Il Dignitario disse che quello era il mio posto e il suo era quello vicino.
Dopo esserci seduti, potei vedere dove ci trovavamo.
Eravamo in un enorme salone, pieno di gente, tutta vestita all’antica moda indiana.
Il Maraja betté le mani e entrò nel salone da una porta laterale un altro indiano, vestito di bianco con un grande rotolo (di certo papiro), che consegnò al Maraja.
Lui lo passò a chi ci aveva accompagnato, che lo cominciò a srotolare.
« Questa è la tua storia. » rivolgendosi a me.
« La mia storia, è la prima volta che vengo in India. »
« Ci sei già stato, in una altra incarnazione. »
Cominciò a mostrare la prima immagine, nella quale si vede un bambino europeo davanti ad una tigre, impedendo ad un cacciatore inglese di sparare dal baldacchino posto sull’elefante.
« Qui si vede un tuo antenato, ancora bambino, impedire al cacciatore di uccidere la tigre, sacra agli indù. »
Nella immagine seguente, si vede il bambino a cavalcione della tigre, inoltrarsi nella foresta.
« Quel bambino dimostra di non aver paura. »
Nell’immagine successiva, si vede il bambino mettersi davanti ad un cobra velenoso.
« Durante una festa dove erano invitati dal Maraja, ospiti indiani e stranieri, ad un incantatore di serpenti,gli era sfuggita l’attenzione di uno dei suoi serpenti. Se non fosse intervenuto il bambino, già grandicello, il cobra avrebbe morso qualcuno, uccidendolo. Il bambino mettendosi davanti al serpente, sfidò la morte, distraendo l’attenzione del serpente, dando il modo all’incantatore di prenderlo e rimetterlo nella cesta. »
In un’altra immaggine, si vede il ragazzo che sta con la schiena sotto la zampa dell’elefante, mentre aiuta una vecchia signora a non essere calpestata.
« Qui vediamo un ragazzo che interviene per salvare una vecchia signora che era caduta e stava per essere calpestata dall’elefante; il quale poteva schiacciare la schiena del ragazzo. »
Un’altra immagina mostra un giovane fissare una ragazza indiana.
« Il ragazzo diventato grande, è un medico pedriatra, venuto in India a curare i bambini indiani. Incontra un’altra medica pediatra e i due si innamorano. »
L’immagine seguente, mostra la ragazza che lo presenta a suo padre.
« La ragazza indiana, era la figlia del Maraja Srila Narayana. Presenta Valentino Ventura al padre, che lo accetta come genero, dandogli la mano della figlia. Dal loro matrimonio, nascono otto figli, che conservano il cognome del Maraja e della sposa di lui, venendosi a chiamare: Srila Bhaktivedanta Narayana Ventura. Il primo dei quali è: Valentino Srila Bhaktivedanta Narayana Ventura; l’attuale Maraja di Jaipur capitale dello Stato di Rajastan. »
Il Maraja cominciò a parlare e il funzionario di corte, traduceva: « Il mio signore e padrone, Maraja di Jaipur, non avendo figli, ti vorrebbe adottare come suo figlio, dando al popolo di Jaipur, un erede che lo sostituirà al trono dopo la sua morte. Accetti? »
Guardando Valentina, con la voce roca, dissi: « Sarei molto onorato di diventare tuo figlio. »
Detto questo, il dignitario di corte aprì un libro, scritto in oro, facendomi firmare dove lui mi indicò, poi lo porse al Maraja e lui alzandosi dal trono, mi abbracciò, presentandomi al popolo lì riunito.
Mentre ero tra le braccia del Maraja, sentii la moglie dire qualcosa a Valentina, quello che capii era: che avremmo avuto otto figli.

Poi...mi sono svegliato.

  








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