quarta-feira, 17 de novembro de 2010

Sogno n.5 Il volo sull'aquila

Stavammo tornando da Roma con l’aereo quando, un passeggero ponendosi in mezzo al corridoio dell’aereo disse; quello era un dirottamento e con una scatola in mano disse che in quella scatola c’era del esplosivo e se non si eseguivano i suoi ordini, l’avrebbe fatta esplodere e saremmo morti tutti.
Come già era accaduto in America l’undici settembre del 2001, pensai, poteva accadere di nuovo; ci avrebbero fatti andare a sbattere in chissà quale edificio.
Dissi tra me e me: « Non mi è mai piaciuto morire come una pecora. Morto per morto, avrei lottato ».
In un attimo di disattenzione del dirottatore, lasciai il mio posto accanto a mia moglie e saltai addosso a quell’uomo cercando di togliergli la scatola dalle mani.
Lottando, lottando, non sò come; finimmo fuori dall’aereo.
Probabilmente, o noi, o il pilota, avremmo aperto lo sportello.
Precipitammo nel vuoto.
Separatamente per fortuna.
Lui più veloce di me, perché doveva essere più pesante.
Anche se con meno velocità, lo seguivo.
Ad un dato punto, caddi su qualcosa.
Mi sembrava strano, essere già arrivato sulla terra o nel mare.
Non si vedeva niente.
C’era molto vento, così mi aggrappai a qualcosa.
Quella cosa era morbida, sembrava fatta di piume.
Cos’era?
Mi strinsi più forte che potevo per non farmi portare via dal vento.
Dopo non sò quanto tempo, quella che credevo nebbia, si dissolse e vidi............ non stavo in terra, bensì sopra una grande aquila.
Che ci facevo sopra l’aquila?
Probabilmente, mentre precipitavo dall’aereo, passava quell’aquila e c’ero finito sopra.
E mò! Come sarei finito?
L’aquila mi avrebbe portato nel suo nido e divorato in compagnia dei suoi aquilotti.
Invece, l’aquila arrivata a breve distanza dalla terra, fece un’impennata e mi scaricò
dalle sue spalle.
Non potei neanche ringraziarla del passaggio perché era volata via per... e fatti suoi.
Mi trovavo su un terreno erboso, dall’aria fredda che sentivo, doveva essere, di montagna.
Mi guardai intorno per fare un punto di riferimento di dove mi trovavo.          
Non ne vedevo nessuno.
Facendo il calcolo del tempo trascorso; da quando eravamo partiti a quello che era successo, mi dovevo trovare in Spagna.
In che parte della Spagna?
L’unica cosa era, cominciare a camminare, fino ad incontrare: una strada, delle case
o qualcuno a cui domandare.
Cammina, che te cammina, non mi ricordo quanto camminai.
Dovevo essere caduto in una Sierra.
Quale Sierra?
In Spagna, mi ricordo di due Sierre. Sierra Nevada e Sierra Morena, ma poi, se ce n’erano altre? Vallo a sapere; in ogni caso, mi trovavo in montagna.
Seguivo un sentiero boscoso, scendevo e salivo; salivo e scendevo........pareva non finire mai.
Invece finì.
Mi trovavo ancora in montagna, in una certa altura, sotto di me, vedevo una di certo, una città.
Vedevo molte case.
Continuai a camminare, scendendo dal luogo dove mi trovavo.
Trovai la strada.
Dal movimento delle macchine, doveva essere, una strada importante.
Per andare in Portogallo, dovevo andare verso destra o verso sinistra?
In ogni caso, mi conveniva, prima arrivare alla città che avevo visto dall’alto.
Arrivato, avrei visto, di quale città si trattava (magari, fosse Madrid), poi cercare un aiuto per tornare a casa, mi sarebbe bastato, un telefono per chiamare Maria e dirle
che, ero vivo, dove mi trovavo e che presto ci saremmo rivisti.
Arrivato nei pressi, vidi un cartello con un nome a grandi lettere, di certo era il nome della città; solo che, non conoscevo quel nome.
Pensavo a Madrid, Toledo, Granada, Siviglia, Burgos eccetera eccetera, a tutti i nomi che conoscevo e che mi avrebbero fatto capire dove mi trovavo; invece...niente, quel nome non mi diceva nulla.
Bbbo!
Entrai nell’abitato, fino a vedere un negozio.
Era un bar, entrai, mi avvicinai al bancone, chiesi all’impiegato in quale parte della Spagna mi trovavo?
Mi guardò strano, poi disse qualcosa che non capii.
Ma che razza di lingua spagnola stava parlando?
Bbbo!
Era meglio cercare una guardia.
Il più delle volte, sono ignoranti, ma, puoi sempre trovare uno più intelligente.
Quando cerchi una guardia, cascasse il mondo, non la trovi.
Che dovevo fare?
Tra l’altro cominciavo ad avere fame.
Come vidi un ristorante (non stava scritto Ristorante) ma, dai tavoli apparecchiati, doveva essere un ristorante.
Entrai, mi sedetti, poi come venne il cameriere con la lista, indicai: questo e quello.
Mangiai e bevei.
Alla fine chiesi il conto.
Anche se non mi capirono, mi presentarono un foglio con una cifra.
Feci l’atto di mettere la mano nella tasca della giacca, ma...non avevo la giacca.
La giacca, dove era finita?
Guardai sulla sedia, niente, la giacca non c’era.
Dove era finita?
Ad un certo punto, mi ricordai dell’aereo.
Sicuramente me l’ero levata quando stavo seduto accanto a mia moglie.
E mò!
Come facevo per pagare?
Finiva: o mi davano un sacco di botte, o mi mettevano a lavare i piatti, oppure, chiamavano una guardia.
Per fortuna, chiamarono una guardia.
La guardia non era intelligente.
Parlava, parlava una lingua che non comprendevo; lui non capiva, quando dicevo
di essere italiano.
Alla fine, mi prese per un braccio e mi portò (in malo modo) al posto di polizia.
Se speravo di trovare un’Agente, magari un Superiore che parlava più di una lingua
oltre la sua, mi sbagliai.
Di certo mi facevano domande, ma con la loro lingua che non capivo, potevamo an-dare avanti, in eterno; non capivo quello che dicevano, loro non capivano quello che dicevo, dove saremmo arrivati?
Domandai: « Parlez-vous français? Sprechen Sie deutsch? Speak english? Portugue-ses? ». Niente, ma che razza di lingua stavano parlando.
Non riuscendo a capirci, per quella notte rimasi loro ospite: in una cella.
Almeno non la dividevo con nessuno, e poi senza soldi, dove potevo dormire?
La mattina seguente, mi offrirono la colazione (anche i detenuti mangiano), poi ripre-sero l’interrogatorio.
Loro parlavano, non capivo una parola; parlavo io e loro non capivano.
Chiedevo una mappa: era come parlare al vento.
Ad un dato punto, presi una penna e scrissi: « Io (e col dito mi indicai) italiano,
casa (feci il disegno di una casa) Portogallo.
La guardia che stava dietro la scrivania (di certo un Superiore), prese il foglio e mostrandolo agli altri, cominciò a parlare tanto in fretta, che a stento riuscivo a capire
la parola Portogallo.
Quello che comandava mi accompagnò alla porta e, indicando un punto sulla mia de-stra disse: «Portogallo (di certo lo disse in un modo strano), comunque, mi stava ad indicare dove stava il Portogallo.
Stringendomi la mano (a momenti, me la stritolava) e sbatachiandola, sù e giù, mi fece l’atto di andare.
A me sembrò che, mi mandò a quel paese; al che risposi con un gesto: « Ma và a....»,
e mi incamminai nella direzione indicatami.
Ripresi il viaggio (a piedi).
Mi ero stancato di sollevare il braccio per chiedere un passaggio; con la faccia che mi ritrovavo (non avevo fatto la barba), mi prendevano per un delinquente.
Non avevo più l’orologio; me l’avevano preso le guardie (forse per pagare la cena al ristorante o forse per ricordo), così non sapevo neppure che ora era.
Il mio stomaco, diceva che era mezzogiorno o l’una.
Dovevo trovare, chi mi offrisse da mangiare e, lì per strada, non potevo chiedere l’ele-mosina agli automobilisti  (perché, tra l’altro, non si fermavano).
Così abbandonai la strada e me ne andai per la campagna.
Era un pó che camminavo (guarda la iella, neanche un albero da frutta); quando vidi
una casa.
Dissi tra me: «Se c’è una casa, ci sarà qualcuno e di certo non si rifiuterà di darmi
un piatto di minestra».
Però c’era il problema della lingua; se parlavano in modo strano, non avrei capito le loro parole, e loro non avrebbero capito, quello che avrei detto.
Mi venne un’idea; avrei fatto il Sordo-muto.
Battei alla porta e, dato che non sentivo, continuai a battere fino a che, la porta non si aprì.
Sull’uscio c’era un uomo, non posso dire vecchio, ma abbastanza vicino.
Cominciò a strillare; ma dato che non capivo quello che diceva, e poi ero sordo, lo lasciai sfogare senza reagire.
Quando vide che non rispondevo alla sue domande, smise di parlare.
Facendo i movimenti che spesso avevo visto fare dai Sordo-muti, feci capire di avere fame e di non avere soldi; accennando ad un assalto subito.
L’uomo mi fece entrare in casa e accomodare alla sua tavola, mi mise d’avanti un piat-to che riempii con quello che c’era nel mezzo della tavola.
In quella casa c’era anche una donna (di certo, la moglie), anche lei più o meno della stessa età.
Finito di mangiare, volli aiutare a lavare quello che era sporco; me lo impedirono, così rimasi seduto a guardare loro.
Ad un dato punto, mi devo essere addormentato perché quando mi svegliai stavo in
un letto ed era buio.
Continuai a dormire fino al mattino.
Quando mi alzai, loro erano già in piedi; sicuramente mi diedero il buon giorno al che, con un cenno, retribuii.
Mi diedero del latte e caffè con del pane scuro.
Finita la colazione, mostrai la mia faccia; avevo una barba di almeno tre giorni.
L’uomo mi fece un segno di seguirlo al bagno, poi mi accennò alla spuma da barba,
ma quando cercai il rasoio abituale, non lo trovai, al suo posto, c’era il vecchio rasoio di una volta.
Con quello, mi potevo tagliare la gola, non la barba.
Con la faccia insaponata, tornai in cucina e mostrando il rasoio, feci capire di non saperlo usare.
L’uomo mi fece accomodare sulla sedia e postomi un asciugamani sul d’avanti, in un batter d’occhi e con una maestria di un vero barbiere, mi rasò ben bene..
Dovevo ringraziarlo in qualche modo.
Dietro la casa, oltre al campo c’era un orto che aveva bisogno di una zappata, andai a procura di quello che mi serviva, e ripulii le piante da tutte le erbaccie.
Lavorai tutta la mattinata, smisi quando mi chiamarono per il pranzo.
Durante il pranzo, mi dissero qualcosa; che non capii e (non sentii).
A cenni, chiesi una carta e qualcosa per scrivere; poi come avevo fatto al posto di polizia, mi accennai scrivendo: ITALIANO, poi disegnando una casa, scrissi PORTOGALLO.
Si misero a discutere tra loro, poi l’uomo andò a prendere una giacca (non era nuova, ma di sera faceva freddo dato che avevo solo la camicia); mi la mise sopra le spalle facendomi capire che me la dava.
Ero commosso, non sapevo che dire (anche perché facevo il muto), lo ringraziai prendendogli la mano e squotendola sù e giù.
Non volevo andare via, prima di aver finito con l’orto, così lasciai la giacca e con la zappa, ritornai al lavoro.
Ancora una volta dormii da loro e al mattino dopo aver fatto colazione, l’uomo mi accompagnò verso la strada, lì vicino c’era la fermata dell’autobus.
Aspettammo un pò, ma poi giunse un pulman, come si fermò, l’uomo salì, disse qualcosa all’autista, gli diede qualcosa (di certo dei soldi), poi mi fece cenno di salire, gli presi la mano e stringendola, la scossi: in sù e giù come un saluto.
Lo salutai ancora mentre l’autobus si allontanava.
Avevo indosso una camicia pulita e una giacca (che potevo volere di più).
L’autobus andava, guardavo dal finestrino, ma non sapevo dove stavo, non conosce-vo il posto, mi limitavo a guardare.
Qualcuno accennò a parlarmi, ma facendo cenno che: non parlavo e non sentivo, mi lasciarono in pace.
Ad una sosta, scendemmo, ma, mentre gli altri si diressero verso il caffè, rimasi vicino all’autobus fino a quando venne l’autista a prendermi.
Mi accompagnò nel caffè, mi indicò il cibo che era esposto ma, facendo segno che
non avevo soldi, lui mi mise la mano nell’interno della giacca e tirò fuori un portafo-
glio.
Lo guardai, non era mio, scossi la testa e lo allontanai da me.
L’autista lo aprì e mi mostrò la foto dell’uomo e della donna che mi avevano ospitato, c’era scritto pure qualcosa (di certo il loro indirizzo), che però  non capivo, oltre alla foto c’erano quaranta euro.
Dissi tra me, un giorno avrei riportato: la giacca, la camicia e il portafoglio con dieci volte quello che c’era.
Con le lacrime agli occhi, scelsi qualcosa da mangiare che, però non riuscii a mandare giù; avevo un groppo nella gola, mi dovevo aiutare con la birra.
Con l’aiuto dell’autista cambiai due autobus.
Una notte la passai sopra un autobus e dopo il terzo trasbordo, vidi un cartello rotondo azzurro e nel mezzo la scritta: PORTOGALLO.
Al terzo cambio, già capivo dov’ero; ero nella Galizia, vidi Lugo, l’indicazione per San-tiago de Compostella, poi Ourense, Verin.
Entrai in portogallo dal lato di Chaves.
Con il fatto che c’erano le frontiere aperte, non ci fermammo alla frontiera, così nessu-no mi chiesi i documenti (che tra l’altro non avevo).
Da Chaves, con un’altro autobus, scesi a Santarém e avendo finito i soldi, passo dopo passo,  arrivai a Valle de Figueira.
Chi mi vide, mi guardava meravigliato (probabilmente mi credevano morto).
Non volendo far prendere un colpo a mia moglie, feci sosta dalla nostra vicina, pregandola di preannunciarmi a mia moglie con la cautela possibile.
Non potete immagginare quando, dopo tante peripezie, potei riabbracciare mia moglie, la quale non stentava a credere ai suoi occhi; ero in carne e ossa, anche dopo il volo dall’aereo.
Poi mi sono svegliato.

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