terça-feira, 16 de novembro de 2010

Sogno n.2 L'ombra dell'Emiro anno 2006

Non sò come, ne perché andai in Marocco.
Comunque stavo in Marocco e precisamente a Marrakech.
Da Marrakech con un gruppo di turisti, ci dirigemmo verso Quarzazate per poi imbarcarci per una crocera sul fiume Oum er Draa chiamato anche il Nilo del Sud.
Mentre risalivamo il fiume e i turisti scattavano foto ai battelli che incrociavamo e ai coc-codrilli, fui attratto da qualcosa che avveniva nel fiume.
In un battello, non ho capito bene, cosa stava succedendo, ad un dato punto, qualcuno cadde in acqua.
Come quella persona cadde in acqua, un coccodrillo, si diresse verso di lui o lei.
In quello stesso momento, un cameriere passava con un vasoio di formaggi su cui era posato un coltello.
Senza pensarci due volte, come se fossi un “ Indiana Jones ”, afferrai il coltello, me lo misi tra i denti e mi tuffai fuori bordo.
Come caddi in acqua, nuotai disperatamente verso il coccodrillo che si stava dirigendo verso la preda, come gli fui d’avanti, il coccodillo aprì la bocca per mangiarmi.
Aveva sbagliato i conti; gli infilai il coltello in bocca con la punta in sù e come la richiuse, ci rimase conficcato.
Potete immagginare il dolore che provò.
Aveva altro da pensare; e poi gli altri coccodrilli approfittando dell’occasione, gli furono addosso e se lo mangiarono.
Lasciato il coccodrillo al suo triste destino, mi diressi verso il malcapitato/a e raggiungendolo, mi accorsi che era un vecchio uomo.
Lo aiutai a tenersi a galla fino a che un’altra barca lo prese a bordo.
Anche il battello da crocera s’era fermato e aiutato con una scala di corda, risalii a bordo.
I partecipanti alla crocera mi applaudirono per il gesto fatto, mentre la coppia italiana Salvatore e Romina, mi fecero delle domande come:
« Perché l’hai fatto? Potevi morire.»
« Non sò il perché, probabilmente, era scritto», dissi.
Il comandante mi fece scendere sottocoperta facendomi cambiare i vestiti bagnati con uno probabilmente suo, alla moda araba.
Mi successe una cosa strana, riuscivo a capire tutto quello che diveva il capitano e l’equipaggio.
Quello che sentii fu: « Questo è davvero l’avverarsi di una parte della profezia, che Allah sia lodato.»
Lo feci presente a Salvatore, domandando, se per caso parlavo arabo.       
Dissi qualcosa al cameriere, lui non capì, seppi di aver parlato italiano.
Proseguimmo la crocera, fino alle cascate di Setti Fatma che sono famose.
Dopodiché, tornammo a Marrakech.
All’Hotel, ci attendeva un arabo; alla guida disse, di avere un invito per me, da parte della persona che avevo salvato.
Ero invitato a partecipare ad una cena speciale in una casa particolare.
Non mi andava di andarci da solo, domandai, alla guida, se potevo portare due amici, la guida riferì, ci fu uno scambio di parole, la guida disse di nò. Rifiutai l’invito, la guida domandò il perché, dissi: « O porto i compagni, o non se ne fa niente, si trattasse pure del Re ».
La guida riferì, altre parole, parole, parole.
Alla fine, portai Salvatore e Romina.
Per l’occasione, indossai l’abito migliore che avevo portato.
Strada facendo dissi a Salvatore: « Sicuramente, mi verranno offerti dei soldi, rifiuterò, quanti che fossero.
Giungemmo a uno dei più bei palazzi finora visti.
Seppi, di trattarsi del Palazzo El Badi, costruito tra il 1578 e il 1593, che era la più bella costruzione del mondo arabo, seconda al Palazzo Reale.
Il salone era immenso, c’era tanta gente, per lo più arabi, belle donne.
La cena fu suntuosa, mangiavamo, seduti sù cuscini, con le gambe incrociate, con bassi tavolini.
Una cosa curiosa; quando arrivarono i servitori, prima passavano da un lato del salone, poi si dirigevano verso di me.
Lo feci presente alla guida, lui disse che, ero l’ospite di riguardo.
Quando ci servirono del vino, a differenza dei miei compagni, rifiutai di berne, limitandomi solo a bevande analcoliche e thè alla menta.
C’erano gruppi musicali, danzerini e danzerine che si esibiscono nella danza del ventre in un’atmosfera delle “ mille e una notte “.
Alla fine, mi sentivo pieno come un otre, tanto che rifiutai tutti altri manicaretti sicuramente deliziosi.
Vedendo che rifiutavo, quello che mi servivano, un servitore mi porse una voluminosa busta.
La presi, l’aprii, mostrai il contenuto a Salvatore e la restituii al servitore, facendo dire dalla guida: « Quello che ho fatto, non l’ho fatto per ricevere una ricompensa, lo avrei fatto per chiunque ».
Anche se non tradusse quello che avevo detto, per lo meno non parlò male.
Poco dopo, si avvicinò un gruppo di persone.
Sembravano dei Principi, da come erano vestiti.
Arrivati presso di noi, riconobbi tra loro, il vecchio che avevo salvato.
Inchinandosi d’avanti a me, prese a ringraziarmi di averlo salvato.
Disse, tutto quello che avevo fatto finora, era scritto.
Ero l’uomo che aspettavano da secoli.
Mi invitò per il giorno dopo ad assistere alla Fantasia; accettai volentieri.  
Ne avevo sentito parlare, e ne avevo letto in varie riviste; si trattava di una cerimonia di guerra, che consiste in vari gruppi opposti, rappresentati per i migliori cavalieri, che sparavano i fucili tutti allo stesso tempo.
È uno dei spettacoli più rappresentativi del Marocco e durante la Fantasia, si può appreziare piatti tipici come il Harira, il Mechoui o il Couscous.
Tornati in albergo, Salvatore e Romina ne parlarono con gli altri compagni di viaggio.
Tutti mi davano, del fortunato, al che spiegai.
La Fantasia era in mio onore, e nell’occasione, mi avrebbero fatto la festa.
« Non sei contento? Ti festeggeranno ».
Al che chiamai un signore siciliano di nome Gaetano.
Chiesi di spiegare, a cosa consisteva, farmi la “ festa “.
Lui spiegò: «In Sicilia, quando si vuole fare “ la festa “ a qualcuno, voleva dire; avrebbero cercato di ammazzarlo ».
« Perché ti vorebbero sparare? ».
« Per vedere se sono quello della profezia; se lo sono, le pallottole non mi avrebbero preso, se nò, lascio a voi la conclusione ».
« Allora, non andarci ».
« Sarebbe una sgarberia, dato che ho accettato, se volete farmi  compagnia, siete invita-ti ».
Come era da aspettarsi, rifiutarono tutti, meno Salvatore.
La sera dopo, dato che la Fantasia si svolge sempre di sera, mi recai all’appuntamento, accompagnato da Salvatore e Romina.
Non si vedeva bene il luogo, sembrava un’arena tipo Circo Massimo di Roma.
Gli spalti erano illuminati da torce, c’erano tante tende e ad ognuna era piena di gente, per lo più arabi.
C’erano anche stranieri, sicuramente turisti, ad assistere alla Fantasia.
Nella curva Sud (quella dei Romanisti) c’era una grande tenda.
Era isolata dalle altre, sui due lati c’era uno spazio aperto.
Molto illuminata, sembrava la tenda del Re.
C’era l’Emiro Abd Muhammad Al-Malik, (il vecchio che avevo salvato dai coccodrilli) e tanti altri dignitari dell’Emiro.
Mi fecero sedere al centro della tavolata, se così si potevano chiamare i tanti tavolini accostati l’uno agli altri.
Si cominciò a mangiare e bere (per il bere, mi limitavo al tè).
Mentre mangiavamo, a loro insaputa, sentivo tutto quello che dicevano, specie su di me.
Poi arrivarono i cavalieri.
Sfilarono d’avanti alla nostra tenda e a me, sembrava, mi guardassero come si guarda un bersaglio.
Ognuno, chissà se pensava, di essere quello che avrebbe fatto centro.                
Cominciarono la Fantasia, e poco dopo, senza darlo a vedere, gli arabi che stavano con me, si allontanarono, a questo punto, dissi a Salvatore e Romina   di fare altrettanto.
Romina aveva le lacrime, prevedeva il peggio.
Calmo, senza mostrare  il nervosismo e la paura, continuai a mangiare.
Vidi i cavalieri venire verso la Curva Sud e mi preparai per il passaggio per l’altro mondo.
Cominciarono a fischiare le pallottole, tutto quello che veniva colpito, volava in mille pezzi, era peggio di una grandine.
Anche i miei vestiti venivano colpiti.
Le pallottole mi passavano vicino alle orecchie, di sotto le ascelle, sopra la testa, le spalle ecc. ecc.
Durò un attimo che pareva un eternità, poi i cavalieri che, non avevano rallentato la corsa, voltarono per un altro lato per poi scomparire.
Quello che, inizialmente era una bella tenda, era una rovina.
Tutto era a pezzi; i tavolini intarziati, i vasoi di rame, le lampade, le coppe, i cuscini.
Solo io ero illeso; a brandelli, ma illeso, non avevo un graffio.
Gli arabi e i miei compagni si avvicinarono e mi guardarono increduli.
Gli arabi si prostrarono ai miei piedi, Salvatore e Romina in piedi, non credevano ai loro occhi.
Con il mio  “savoir faire “, chiesi del tè.
L’ Emiro disse: « Era come stava scritto, è lui l’uomo che ci libererà dal tiranno. »
Facendo tradurre le sue parole, disse che, dovevo andare con lui alla città di Akaba.
Per me, ora tutto poteva andare; non ero morto alla Fantasia, non sarei morto ovunque andassi.
Ci riaccompagnarono al Riad Caravan Serai e potete immaginare lo scalpore che suscitò il resoconto che fecero Salvatore e Romina.
Tutti si avvicinavano, mi toccavano, mi domandavano, da parte mia, mi limitavo a dire: “ Era scritto ”.
La parola Akaba metteva paura, a chi si chiedeva informazioni, prima sbiancava e poi diceva di non sapere nulla.
Che mistero celava, la città di Akaba?
Tutti i compagni di tour volevano venire ad Akaba, chiedevano ad Alí Salem la nostra guida, di portarci a Akaba; lui sulle prime tentennò, poi accettò di condurci ad Akaba.
In una conversazione tra Alí e Mohamed Ahmed, capii  perché, dell’accettazione; ci avrebbero venduti come schiavi all’Emiro di Akaba.
Riferii a Salvatore quello che avevo sentito, anche se non mi credettero davvero, rinunciarono per sicurezza.
Qualche giorno dopo, si presentarono al Riad cinque grosse auto, con l’Emiro e altra gente; mi erano venuti a prendere.
Salvatore e Romina volevano venire ma, li dissuasi, dicendo loro di una visione avuta durante la notte.
Rimasero impressionati da quello che dissi e, rinunciarono anche loro.
Partimmo da Marrakech per Quarzazate, ci fermammo per il pranzo alla residenza del Pascià Glaoli. Proseguimmo per Zagora dove pernottammo in un Riad di lusso.
La mattina dopo una lauta colazione (sembrava un pranzo), prendemmo la strada per Foum-Zguid e Tata dove sostammo per il pranzo. Proseguimmo per Foum-el-Hassan e ci fermammo per la notte a Guelmima in un Hotel - Casa-fortezza.
Arrivati a Yartaya, entrammo nel Sahara Occidentale.
A Hawza ci aspettava una carovana di cammelli e dromedari.
Da quando avevamo lasciato Marrakech, mi consigliarono di vestire alla moda araba, per stare più a mio agio con gli altri, o  per confondermi.
Avevo una tunica di lana a strisce, di colore rosso e giallo, mi arrivava al polpaccio, era aperta dai due lati per comodità.
I calzoni erano chiari (sempre di lana), come le calze.
Ai piedi, invece delle mie scarpe, avevo dei sandali; di giorno avevano la suola di foglia di palma, la sera erano di cuoio. Erano fermati da lacci di pelle ed erano avvolti attorno alla caviglia.
La sera essendo più freddo, indossavo una sopravveste di lana spessa e quando si stava fuori; un mantello dello stesso tessuto.
Spesso il mantello, veniva usato come coperta, sedile o per coprire la sella.
Durante le preghiere (gli arabi pregano cinque volte al giorno), lo usavano come tappeto.
Il copricapo per proteggersi la testa, gli occhi e il collo dal sole era fatto, con un pezzo di stoffa di lana bianca quadrata, sistemata con una piega sulla fronte e un cerchio di lana intrecciata, lo teneva fermo sulla testa, mentre le estremità proteggevano il collo.
Il copricapo, lo usavo solo quando uscivo dalla macchina; dentro c’era l’aria condizionata.
Entrati nel Sahara Occidentale, proseguimmo fino a Hawza dove finì la strada (per lo più asfaltata) e cominciò la sabbia.
Ad Hawza, ci aspettava una carovana.
La carovana sembrava non avesse fine, c’erano: cavalli e cammelli.
I cavalli, sono per la scorta armata.
Siamo scortati da una cinquantina di Tuareg.
I Tuareg sono chiamati anche “uomini blu”, non dal colore della loro pelle, ma dai loro vestiti; ed erano in blu, per confondersi di notte.
Mi consigliarono di salire su di un cammello.
Di solito i cammelli hanno due gobbe, quelli africani ne hanno una.        
La gobba non era rigida, si muoveva con l’andamento del cammello e del terreno; pareva di stare su una barca che si dondolava a seconda delle onde.
Per fortuna, non ho mai sofferto il mal di mare, sennó stavo fresco.
Il deserto non era di sola sabbia, era anche di sassi.
Si procede fra dune e rocce che celano siti rupestri con incisioni di bovini, fauna selvaggia e personaggi, testimoni di una vita possibile fino a duemilla anni fa.
A tratti si incontrano i letti di antichi fiumi, nei quali spunta una rada vegetazione.
A quel punto i cammelli si fermano a brucare; non c’è niente da fare, bisogna solo aspettare la comodità del cammello.
Ogni cammello era fornito di una ghirba di acqua, così chi aveva sete, si serviva a piacere.
Bevevo pochissimo, anche perché oltre ad essere calda, aveva uno strano sapore.
Incontrammo rarissimi pozzi.
I pozzi sono il punto d’incontro privileggiato dai nomadi e costituiscono quasi l’unica possibilità di soppravvivenza per pochi animali.
Facemmo il campo fra le dune dell’erg Jdiriya.
Fu montato il campo tendato.
Per me e l’Emiro e altri due dignitari, fu montata una grande tenda bianca con strisce rosse e verdi all’interno, veniva usata, sia per mangiare che per dormire.
Di dimensioni enorme, ci si poteva stare benissimo in piedi.
C’erano: tappeti, cuscini, lenzuola e coperte, tavolino e sgabellí.
Accanto c’era una tenda doccia e la toiletta.
Il cibo era quasi sempre a base di couscous, carne di montone e dolciumi; per bere, l’immancabile tè alla menta.
Fuori si sentiva suonare, cantare e alle volte anche ballare.
In qualche oasi oltre agli abitanti, c’erano delle ragazze che ci rallegravano con le loro danze.
Ad ogni fermata, sembrava che la notizia del mio arrivo, ci aveva preceduti dato che all’arrivo, mi offrivano dei doni e alle volte pure delle ragazze per passare la notte.
I doni li accettavo, le ragazze no. Alle volte sembravano delle bambine.
Chissà che pensavano di me.
Ero tanto stanco, che a stento riuscivo a mangiare o assistere a qualche cerimonia, non vedevo l’ora di stendermi e farmi un lungo sonno.
Altro che donne.
I giorni passavano sempre uguali.
Prima di partire, gli arabi, stendevano i loro mantelli o tappeti, in piedi e in ginocchi, pregavano.
Le loro preghiere, non finivano mai, alle volte duravano più di mezz’ora, sembrava,
non avessero fretta ad arrivare.Poi durante la giornata, e la sera prima di dormire.
Restavo in disparte ad osservare.
Dopo l’erg Jdiriya, ci fermammo allo Ksar di Boukra, poi all’oasi di Guelta Zemmur.
Ormai ci avevo fatto il callo, non mi interessava più il paesaggio, non vedevo l’ora di arrivare ad Akaba.
Le piste (quando c’erano), si perdevano a perdita d’occhio in mezzo ad una sterminata pietraia con a fianco dei monti a volte color bruno e a volte rosa o giallo uovo.
Faceva caldo di giorno e freddo di notte.
Come sudavo di giorno, tremavo di notte.
Dopo non sò quanti giorni (avevo perso il conto), arrivammo.
È tutto verdeggiante, Alte palme, campi d’erba di colore verde smerallo, qualche casa di fango di colore rosso fuoco e tanti bambini che si rincorrevano giocando.
La gente adulta lavorava nei campi.
Mi fece una certa impressione vedere, dei cavalieri passare tra loro e colpirli a volte con la frusta.
Avevo imparato qualche parola d’arabo, chiesi all’Emiro; chi fossero, rispose, degli schiavi.
Rimasi stupefatto. Come era possibile al giorno d’oggi. Erano di vari colori: neri, gialli e bianchi.
All’arrivo della carovana si fermarono.
Come al solito, il mio arrivo era stato preceduto, tutti mi guardavano.
Ero inconfondibile.
Per l’occasione, mi avevano fatto indossare un ricco vestito tutto ricamato in oro, con un turbante di vari colori.
Insomma ero inconfondibile.
Al mio passaggio, venivano stese foglie di palma o tappeti.
Se si era sparsa la notizia del mio arrivo, dovevano sapere che, ero lì per mettere fine alla tirannia dell’Emiro Abdullahi.
Chi lavorava mi salutava sorridendo.
Sempre cavalcando, arrivammo in vista della città di Akaba.
Arrivati a una distanza di almeno 500 metri, l’Emiro alzò la mano fecendo cenno di fermarsi.
Come la carovana si fermò, l’Emiro mi disse di andare avanti per fare aprire le porte.
Avevo visto sulla muraglia, numerosi soldati armati di lunghe carabine.
Come era successo a Marrakech in occasione della Fantasia, sapevo che quei soldati mi avrebbero dato un caldo benvenuto.
A 200 metri, feci inginocchiare il cammello e scesi dalla cavalcatura.
Non volevo sacrificare il cammello.
Mi incamminai verso le porte della città.
A 100 metri cominciarono a sparare.
Fino a 50 metri, le pallottole mi passavano vicino.
Dopo, incontrai una vera muraglia.
Più cercavo di andare avanti, più la muraglia mi spingeva indietro.
Non sò quanto durò il fuoco.
Ad un tratto, tutto finì.
Ero a brandelli, non avevo il turbante, ma, ero illeso.
Era scritto.
Feci un gesto, come se stessi lanciando qualcosa.
Rimasi con il braccio teso verso la porta.
Come se fosse un segnale, la porta si aprì.
L’Emiro Abd Muhammad Al-Malik mi si avvicinò con il mio cammello.
Facendolo inginocchiare, vi salii in groppa e accompagnato dall’Emiro, feci ingresso alla città di Akaba.
Come era successo all’arrivo, venivano stesi i tappeti su cui ci potessi camminare sopra e tutto il popolo era inginocchiato con la fronte al suolo. Ci diriggemmo verso il palazzo reale.
Anche lì, la stessa scena.
Entrammo e come se l’Emiro conoscesse la strada, mi condusse in una grande camera.
Mi aspettavano uno stuolo di servi.
Mi denudarono dei brandelli che mi coprivano e delle bellissime ragazze mi condussero in una vasca piena d’acqua profumata a lavanda.
Mi lavarono il corpo, neanche fossi un neonato.
Poi mi profumarono come una donna e mi vestirono con abiti di seta, molto suntuosi.
Nella fascia avevo una scimitarra il cui fodero era ricoperto di pietre preziose; neanche fossi, un Re o un Califfo.
Dopo fui accompagnato in una sala dove era allestito un banchetto in mio onore.
Mi accomodai nel lato destro dove stava l’Emiro Abd Muhammad  Al-Malik e i suoi dignitari.
Nel lato opposto c’era l’Emiro Abdullahi e i suoi sgherri.
Ci servirono il cibo, ogni tanto Abdullahi faceva un cenno, come se non lo vedessi e, mi si avvicinava un servo con una coppa di sidro.
Anche se ne avessi una d’avanti a me, accettavo e dopo aver fatto un saluto ne bevevo un sorso.
« Buono, migliore di quello che ho bevuto sin’ora » dicevo in italiano.
Loro non mi capivano, come spesso, non capivo loro.
Chiesi ad Al-Melik se mi potevano fornire di un interprete italiano.
Ci fu un gran parlare, alla fine, mandarono a chiamare qualcuno.
Entrò nella sala un uomo di carnagione chiara, avvicinandosi a me, si presentò come il Dottor Mario Serra.
Dissi: « Piacere di conoscerla ».
Gli chiesi se mi poteva dire qualcosa dell’Emiro Abdullahi.
Mi disse: « È l’uomo più crudele e più malvaggio che ho mai conosciuto, gli piace abusare sulle bambine, e quando non ne trova di straniere, abusa di quelle del popolo; è odiato e temuto da tutti. Un solo pensiero, fa impalare chiunque gli capita a tiro ».
Già avevo notato due belle bambine sedute sul suo grembo.
Parlammo un pò; gli dissi di non sapere di quello che mi stava succedendo.
Gli raccontai della crocera sul fiume Oum er Draa, del salvataggio dell’Emiro Al-Malik e di tutto quello che mi era successo sino allora, gli mostrai la coppa di sidro, dicendogli che, di certo era avvelenata.
Lui non seppe se crederci o nò; al che, chiamai un servo e, porgendogli la coppa, gli dissi, tramite l’interprete, di bere.
Il servo indietreggiò pieno di paura, sorridendo dissi, di non aver paura, era solo una tazza di sidro.
Lui ancora si rifiutò di bere.
Ad un mio cenno, due dei tuareg che ci avevano scortati, afferrarono il malcapitato servo e lo costrinsero a bere il contenuto della coppa.
Come era da immaginarsi, il servo cadde a terra e torcendosi di dolore, pochi attimi dopo, morì.
« Che t’avevo detto! » dissi al dottore.
Vedendo che col veleno aveva fallito, l’Emiro Abdullahi mi fece portare un vaso di terracotta dicendo, di contenere delle pietre preziose che, me ne faceva dono.
Il vaso era coperto da un telo.
Rivolgendomi al dottore, dissi: « Di certo, è pieno di serpenti velenosi, ci vuoi mettere tu la mano? »
Il dottore avendo visto, l’effetto della sidra, si rifiutò.
Allora come se non sapessi cosa contenesse, tolsi il telo e introdussi la mano destra.
Sentivo delle pietre, ma sentivo anche delle serpi.
Volendo fare un pò di scena, lanciai un urlo e mi accasciai sui cuscini.
Come immagginavo, l’Emiro Abdullahi si avvicinò con fare trionfale, mentre l’Emiro Al-Malik sbiancava.
Avevo ancora la mano nel vaso e, come l’Emiro mi si avvicinò per costatare la mia morte, gli lanciai sul viso un bel serpentone.
Fù fortunato che non lo presi, il serpente colpì un suo dighitario che fu morso e morì al suo posto.
« Mi dispiace di non averlo preso, sarebbe finita la dittatura, » dissi.
Poco dopo, tutto tornò alla normalità.
Riprendemmo a mangiare e a bere.
Mentre mangiavamo e bevevamo, dei musici e delle ballerine ci dilettavano con la loro partecipazione.
Ad un certo punto entrò nella sala una decina di bambine, una più bella dell’altra, di vari colori.
Muovendosi al suono degli strumenti, si misero a danzare.
Di certo non avevano la classe delle più grandi di prima, ma i loro movimenti, facevano tenerezza.
Come finì la danza, Abdullahi mi mandò a dire di scegliere con chi mi volevo trastullare.
Ma, che, mi aveva preso per un pedofilo?
Mi alzai dallo sgabello in cui ero seduto, accompagnato dal mio interprete, mi avvicinai ad Abdullahi e facendogli dire che accettavo l’offerta, gli dissi di volere sotto la mia protezione tutte le bambine del regno.
Al che, l’Emiro fece per alzarsi infuriato.
Ma svelto come un fulmine, estrassi la scimitarra e tirai un gran fendente.
Non lo presi, il vasoio di rame che aveva d’avanti e il tavolino, si tagliarono in due, come se fossero di burro.
Allungai le mani e le bambine che aveva sul grembo vennero a me.
Tornai al mio posto circondato da tanti piccoli angioletti.
Da quel giorno le cose a Akaba cominciarono a cambiare.
Ovunque andavo, quando incrociavo in un arabo, questi si inchinava chiamandomi al-Allama che vuol dire (il salvatore).
Già dalla prima notte che dormii ad Akaba, al risveglio o se mi svegliavo di notte trova-vo sul mio letto un cobra velenoso.
A me non faceva nulla.
Il giorno dopo la prima notte, quando entrarono i servi per (vedere se ero morto), vestirmi, rimasero stupefatti vedendomi giocare con un bel cobra.
Anzi fuggirono a gambe levate quando il cobra si diresse verso di loro.
Facemmo amicizia anzi fu un amore a prima vista quando scoprii che era femmina, la chiamai Sara.
Sara mi seguiva ovunque andavo, come se invece di una cobra, fosse una cagna.
All’inizio, tutti mi stavano alla larga ma poi, se dicevo a Sara di stare buona, non cercava di mordere .Con Sara parlavo in italiano e quando le dicevo delle paroline dolci, mi si strusciava contro il viso per ricevere dei baci.
Dal Dottor Serra ero venuto a conoscenza della presenza dei schiavi.
Per lo più erano turisti che si erano avventurati nel deserto, altri, specie le ragazze o le bambine, erano state rapite in varie parti del mondo.
Domandai da quanto tempo si trovava ad Akaba come schiavo; mi disse che erano passati cinque anni da quando era stato catturato nel Sahara Occidentale.
Era con la moglie e un gruppo di amici.
Si erano recati nel Sahara Occidentale dopo essere stati convinti dalla guida dell’Hotel di Rabat.
Aveva detto loro, che avrebbero incontrato delle meraviglie, una città in cui gli abitanti vivevano come 2000 anni indietro.
Loro avevano seguito la guida e una notte erano stati catturati, bendati e condotti ad Akaba.
Altro che città antica, avevano trovato solo catene e frustate.
Della moglie e delle altre donne, non aveva saputo più nulla; chissà che fine avevano fatto.
Dato che era come se fossi il Califfo, ubbidivano a tutto quello che chiedevo: come sospendere le impalature, di chi fossero fossero.
È logico che la cosa non poteva durare a lungo.
Avevo sventato molti attentati alla mia vita.
L’Emiro Abdullahi non sapeva più che inventare per uccidermi.
Finì male (per lui).
Un giorno, svegliandomi, non trovai accanto a me, la mia cobra; non ci feci caso, pensai: «Starà facendo la smorfiosa con un cobra », non me la presi a male.
Ma quando chiesi che, mi sellassero Milady la mia puledra, non trovai la scorta ad attendermi come al solito.
Non c’era neppure il Dottor Serra.
Così montai a cavallo e me ne andai in giro per la città.
Mi sono scordato di dire: ad Akaba non c’era niente di moderno.
Ne elettricità, ne gas, ne auto, moto o biciclette.
Per quello, era come vivere al passato.
Le carovane portavano i prodotti che non si trovavano lì, inoltre portavano sempre nuovi schiavi; ed erano pagati con l’oro e col sale.
Così o si andava a piedi, o a cavallo.
Mentre me ne andavo solo, soletto, mi imbattei nell’Emiro Abdullahi.
Era solo, così sembrava, mi salutò alla maniera araba.
Misi la mano sull’elsa della scimitarra, ma lui mostrò, di non portare armi.
Mi rilasciai, chiese di volermi parlare; accettai.
Scese di sella, feci altrettanto.
Mi disse di lasciare la scimitarra legata alla sella.
Non vedendo trabocchetti, così feci.
Dalla sua cavalcatura, estrasse l’occorrente per preparare il tè.
Sedendosi a terra, su un fornellino a spirito, mise a scaldare l’acqua.
Ero così assorto nell’operazione, che, non mi accorsi della scomparsa del cavallo.
Me ne accorsi, solo quando vidi le guardie dell’Emiro.
Mi girai attorno, ero circondato e disarmato, Abdullahi mi guardava con un sorriso malevole.
Una guardia si avvicinò e gli diede la mia scimitarra.
Lui l’afferrò e me la puntò contro.
«Preparati a morire, cane di un infedele.»
Sollevò la scimitarra e come per un incantesimo, arrivò una tromba di sabbia, non ci si vedeva a un palmo di naso.
Sentii delle urla, sibili, lamenti.
Non sò quanto durò, e come era cominciato, finì.
Tutte le guardie erano a terra, in varie posizioni, ma, erano tutte morte.
Così come lo era l’Emiro Abdullahi, trapassato dalla mia scimitarra.
Chi l’aveva ucciso?
Milady mi stava accanto.
Estrassi la scimitarra dal corpo di Abdullahi e con quella, lo decapitai.
Raccolsi una lancia e ci infissi la testa dell’Emiro e montato in sella, mi diressi verso
il palazzo reale.
Come passavo e la gente vedeva cosa portavo, faceva salti di gioia, perché capiva
che, la tirannia era finita.
Con la tirannia finì la schiavitù, e tutti poterono tornare nelle proprie case, liberi e felici.
Ed io mi svegliai con un bel sorriso.

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