sábado, 31 de agosto de 2013

Sogno n.61 L'Isola che non c'è anno 2011


Mi trovavo a partecipare ad una regata che era partita dal porto di New York con 27 barche a vela, dopo aver fatto vari scali, ci dirigemmo nelle isole Bermude e attraccammo al porto di Hamilton capitale della Grande Bermuda.
Dopo esserci fermati quattro giorni, anche per riparare danni ad alcune barche, lasciammo il porto e facemmo rotta verso Miami in Florida, tappa finale della regata.
Avevamo appena lesciati la Grande Bermuda, quando si cominciò ad alzare la nebbia.
Tutte le barche oltre ad essere moderne, erano dotate di apparecchi sofisticati che ci permettevano di evitare eventuali scogli e di urtarci gli uni agli altri, evitando di speronarci a vicenda.
Anche se non vedevo nulla seguivo la rotta prefissata prima della partenza da Hamilton.
Non c’era vento, così ero costretto ad usare il motore.
Non sò quanto navigai alla cieca; per di più avevo perso il contatto con i miei compagni date le interferenze che si erano verificate da un pò di tempo.
D’improvviso la nebbia scomparve e mi trovai in vista di un isola.
L’isola era abitata, vedevo delle capanne lungo la spiaggia.
Ad un dato punto due piròghe di staccarono dalla spiaggia e vennero verso di me.
In un primo momento pensai a dei pirati e avevo preso il fucile da caccia che mi ero portato appresso .
Ma poi quando si avvicinarono, vidi che non erano armati e lasciai il fucile nel ripostiglio.
Una volta accostati alla barca, dalla scaletta che pendeva fuoribordo, salì un ragazzo e una ragazza.
Erano a dorso nudo, il ragazzo portava un gonnellino di tessuto colorato, la ragazza portava un gonnellino fatto di foglie di non capii bene di che pianta.
Avevano al collo delle collane di fiori e quando la ragazza fu vicino a me, si tolse la sua collana e me la mise al collo.
Pensai di essermi fermato in un isola delle Havaii.
Non erano di carnagione scura, ma neanche chiara, forse erano mulatti.
Parlavano una lingua da me incomprensibile.
Cercai di domandare se conoscevano: tutte le lingue europee che conoscevo, ma loro scuotevano la testa.
Indicando una piroga, mi invitarono a seguirli.
Forte della mia fortuna di non trovarmi mai nei guai, scesi dalla barca e salii sulla piroga.
Il ragazzo e la ragazza si misero ai remi e poco dopo, le piroghe avevano attraccato nella spiaggia e tirate in secca da altri indigeni.
Mentre lasciavamo la barca e ci dirigevamo verso la riva, fui colpito da una cosa strana; dei bambini nuotavano in acqua e sembrava, giocassero con degli squali.
Una volta sbarcati mi fecero cenno di seguirli.
Dopo essere entrati in una selva di palme e altre piante, arrivammo dove c’erano raggruppati vari cavalli, che dalle righe che avevano sul dorso, sembravano più delle zebre.
Non erano munite di selle, ne di briglie.
Loro salirono in groppa e io li imitai reggendomi alla criniera di quella che cavalcavo sperando di non cadere.
Il ragazzo disse qualcosa e loro partirono, prima al trotto, poi al galoppo.
Entrammo in una savana, costeggiammo, leoni e tigri che ci guardarono e poi tornarono a mangiare quello che avevano tra le zampe.
Dopo un certo tempo avvistai delle costruzioni.
Erano case, non molto alte.
Erano di pietra, la copertura era di un materiale che brillava alla luce del sole.
Come entrammo in una strada, notai che era ricoperta da pietre livellata; e anche queste, brillavano con i raggi solari.
L’architettura delle costruzioni era lavorata, non posso dire quale era lo stile, comunque era piacevole da vedere.
La gente che camminava lungo il bordo delle case, al nostro passaggio si fermavano a guardarci, poi proseguivano per il loro cammino.
In una sopraelevazione c’era una grande costruzione.
I miei accompagnanti si fermarono vicino ad una scalinata dove s’era riunita della gente.
Mi fecero scendere dalla cavalcatura e dopo aver parlato con un uomo, si voltarono e andarono via.
Tutti mi guardavano, toccavano i miei vestiti, che erano solo un paio di pantaloni bianchi, una maglietta dello stesso colore, solo che aveva stampato al centro una barca a vela e il nome:Sallyb 36 - Royal Navy Club – Atlantic Meeting 2011, e un paio di scarpe bianche, da tennis.
Loro, gli uomini; predominavano quelli di carnaggione chiara, avevano i capelli biondi, intrecciati da formare due trecce. Indossavano delle strane scarpe a forma di stivaletti di pelle, pantaloni attillati e una casacca che arrivava al ginocchio, di vari colori.
Le donne oltre alle scarpe più piccole, avevano un vestito (sembrava fatto di pelle), alcune lo portavano lungo fino alle scarpe, altre (più giovani) fino al ginocchio.
Tutti avevano collane e bracciali.
Le giovani donne erano sbracciate e portavano, oltre a varie collane multicolori, vari bracciali, alcuni arrivavano fino al gomito e orecchini di vetro: rossi, verdi e trasparenti.
Fui accompagnato da varie persone, alla presenza di un uomo anziano (non vecchio) anche se aveva la barba bianca.
Prima di arrivarci, percorremmo varie sale e corridoi.
Ero ammirato dagli affresci alle pareti, dalle statue su piedistalli, da pelli di animali come: leoni, tigri e zanne enormi di elefanti, alcune ricurve da farmi pensare ai mammut.
I capelli oltre che chiari, erano lunghi e annodati da formare due lunghe trecce.
Mi invitò ad avvicinarmi, chiedendomi qualcosa che, non capii.
Vedendo che non avevo capito quello che aveva detto, tornò a ripeterlo in vaie lingue, fino ad arrivare all’italiano.
Mi chiese come ero capitato nella sua isola (mi disse un nome che però non fissai bene nella mente).
Dissi della regata oceanica e quello che era successo dopo aver lasciato la Grande Bermuda.
Non sapeva niente di quello che c’era al di là della barriera corallina.
Dicendo Barriera Corallina, capii di essere capitato in un Atòllo.
Mi invitò a mangiare con lui e altri invitati e mentre mangiavamo volle che gli parlassi del mondo da cui venivo.
Gli parlai della mia terra l’Italia, di essere un appassionato di barche a vela e di ogni anno partecipare alle varie Regate.
Volle sapere cosa erano le Regate.
Gli dissi, di un insieme di barchi grandi e piccole che si riunivano in varie parti del mondo e poi si sfidavano in corsa sul mare.
Quella di quell’anno si svolgeva tra New York e Miami.
Volle che gli parlassi di queste due città.
Dissi che New York era una metropoli molto grande, mentre Miami era più piccola, località più per i ricchi, che di quelli come me.
Gli dissi di quello che avevo visto prima di arrivare al suo palazzo.
Lui non sapeva bene come era la situazione attuale, da che si ricordava, era stata sempre così da quando era nato.
Gli parlai del Paradiso Terrestre (L’Eden), lui non ne aveva sentito parlare.
Gli domandai se aveva mai lasciato l’isola, lui mi disse di no.
Mi disse di giovani che ogni anno lasciavano l’isola, ma poi non tornavano più indietro per raccontare quello che avevano visto.
Gli parlai del Triangolo delle Bermude o Triangolo maledetto, di navi ed aerei scomparsi.
Rimasi qualche giorno nell’isola ospite del re Goring (il nome, mi sembrava vichingo), documentandolo di tutto quello che avevo visto e fatto, prima di arrivare all’isola e girando l’isola, in lungo e in largo.
Ad ogni occasione, ero invitato a dei banchetti ed a assistere e partecipare alle danze locali, che mi facevano ricordare le danze avaiane.
Il re Goring mi disse del minerale che si estraeva dalle montagne, era tanto, da poterlo utilizzare per coprire le case e pavimentare le strade.
Conoscevo quel minerale; era Oro e se lo usavano in quel modo, si vede che ne avevano tanto.
Gli occhi delle statue erano di Rubini o Smeraldi.
Quelli che adornavano i colli o le braccia delle donne, oltre ad altre pietre prezione, erano diamanti.
Domandai, come mai c’erano tante ricchezze in quell’isola, non mi seppe rispondere; non conosceva il significato della parola Ricchezza.
Mi chiese se lo potevo aiutare a cercare i giovani che avevano lasciato l’isola in vari anni.
Gli promisi di aiutarlo, se riuscivo a lasciare il Triangolo.
Lui mi parlò delle perturbazioni atmosferiche, non sempre frequenti durante l’anno.
Poi mi fece sentire un canto locale (un pò come l’inno nazionale), provai a cantarlo, ma mi riuscì male, allora il re mi chiese di fischiarlo.
Fischiandolo, mi riuscì più facile.
Mi disse di fischiettarlo dovunque andassi, se incontravo qualcuno dell’isola, avrebbe riconosciuto l’inno e si sarebbe messo in contatto con me.
Quando mi disse che potevo ripartire, ci salutammo abbracciandoci alla presenza di tutti.
Carico di regali, lasciai l’isola e dopo essere entrato nella nebbia, ne uscii in vista della costa della Florida e un’ora dopo entravo nel porto di: Miami Beach.
Quando chiesi di attraccare facendo presente che facevo parte della Regata Atlantic Meeting, mi  indicarono il posto di attracco, vicino alle altre barche della competizione.
Appena sbarcato, fui circondato dai vari componenti la regata, che volevano sapere (tutti insieme, nelle loro lingue), dove ero stato.
Mi avevano dato per disperso, come altre quattro barche.
Quando dissi dell’isola (non parlando, ne dell’oro, ne delle pietre preziose) volevano sapere dove si trovava.
Purtroppo non lo sapevo, dissi; pressappoco nel triangolo delle Bermude, in qualsiasi latitudine.
Diedi a chi avevo più confidenza, i regali che mi avevano dato prima di partire, meno il sacchetto di diamanti che avevo appeso al collo e sotto l’ascella sinistra.
All’entrare in Hotel, cominciai a fischiettare, vidi un inserviente fermarsi da quello
che stava facendo, rimanendo in ascolto.
Dopo aver dato il passaporto, ritirai la scheda e presi l’ascensore per il quarto piano.
Sempre fischiettando raggiunsi la stanza 424, aprii la porta e dopo aver posato la borsa, cominciai a sistemare gli indumenti nei vari posti, quando sentii bussare alla porta.
Andai ad aprire e vidi l’inserviente che stava facendo le pulizie.
« Mi scusi signore, vorrei sapere dove ha imparato quel motivo che stava fischiettando? »
Lo feci entrare e dopo aver chiuso la porta, gli dissi: « Dallo stesso posto dove stavi tu. »
« Allora hai visto il re Goring; come l’hai conosciuto, mi puoi parlare di lui? »
Gli raccontai come ero arrivato all’isola e di quello che mi aveva chiesto il re.
Lui rimase un pó triste: « Dopo aver lasciato l’isola, siamo stati presi a bordo da una grande nave, dopo averci tolto tutto quello che avevamo ci hanno chiusi in una stanza. Le donne le hanno violentate. Una volta a terra, ci hanno venduti come schiavi ad altra gente. Ho sempre pensato di fuggire, come tanti altri lo hanno pensato. Ma qui non ci danno i soldi, non abbiamo documenti, dobbiamo solo lavorare per poter mangiare. »
« Ora sono qui con i mezzi (facendogli vedere il sacchetto con i diamanti), devo raccogliere più gente possibile, prima di noleggiare una barca per riportarvi all’isola. Ti puoi mettere in comunicazione con gli altri? »
Lui disse che lo avrebbe fatto.
Gli diedi il numero del mio telefonino.
Quando scesi al ristorante per mangiare, sempre fischiettando, vidi altra gente dell’isola, Hanuk si sarebbe messo in contatto con loro.
Andai a Miami città a fare il turista.
Sempre fischiettando, attirai l’attenzione di altre persone, che una volta fermate, dicevo di mettersi in contatto con Hanuk.
Da Miami andai dove mi dicevano di andare.
Mi spostavo per varie città della Florida e sempre che incontravo gente dell’isola dicevo loro: Se volevano andare via da lì, si dovevano mettere in contatto con Hanuk all’Hotel Royal di Miami Beach.
Alcune persone si erano sposate e non vollero lasciare la Florida.
Nel giro di una settimana, avevo raccolto più di cinquecento persone. Alcune donne avevano figli avuti lì, ma erano decise a portarli con loro.
Girando per vari porti, cercai una barca che avesse la capacità di trasportare cinquecento o più persone.
Ad alcune domande indiscrete, non davo spiegazioni.
Alla fine trovai un traghetto.
Il capitano e l’equipaggio non erano di confidenza; sembrava più una giurma di pirati.
Dopo aver contattato il prezzo (molto alto), feci valutare (da un orefice) il valore dei diamanti.
Una volta saputolo, era ancora bassa per la somma richiestami dal capitano.
Tornato al porto dissi al capitano quello che mi volevano dare per i diamanti; se lui accettava, all’arrivo, ne avrebbe avuti altrettanto.
Il capitano accettò i diamanti e dopo aver combinati, il giorno e l’ora della partenza, tornai in albergo.
Due giorni dopo, tramite un ragazzo, venni a sapere che quella sera, alle ore 21, una volta completato il carico saremmo salpati.
Dopo averlo detto ad Anuk, preparai le mie cose e all’ora stabilita andai al porto.
Le persone che avevamo convinti a tornare all’isola, cominciavano a salire a bordo.
Ci vollero piì di due ore per salire tutti.
Alle 21 e 30 il traghetto lasciò il molo e piano piano si diresse verso l’uscita del  porto.
Prima di scendere sottocoperta, vidi una ventina di barche lasciare gli ormeggi e seguirci.
Lo feci presente al capitano; lui mi rassicurò dicendo che erano pescatori.
Eravamo entrati in un banco di nebbia.
Il traghetto rallentò.
Ogni tanto si sentiva il fischio della sirena a cui rispondevano altri fischi.
Ero un pó preoccupato.
Ci stavo pensando sopra, quando sentii le palpebre farsi sempre più pesanti fino a quando mi addormentai.
Mi svegliò la luce del sole.
Stavo nel letto di una gabina.
Quando dopo essermi alzato, uscii dalla scaletta, vidi che stavo sulla mia barca.
Vedevo le altre barche della regata prepararsi ad uscire dal porto per fare ritorno a New York.
Mi preparai a seguirle.
Mentre facevo le manovre d’occorrenza, sentii qualcosa sul mio petto.
Guardai cosa era.
Era un sacchetto come quello che mi aveva dato il re Goring e che avevo dato al capitano del traghetto.
Come lo aprii, vidi, oltre ai diamanti, un biglietto.
Lo tirai fuori e lo lessi: « Ne avrai altrettanto ad ogni viaggio che farai verso la nostra isola. »
Capii che l’impegno preso con il re, non era finito.
Avrei dovuto cercare altra gente dell’isola.
Poi mi sono svegliato: era stato solo un sogno.

Sogno n.60 Angelo Gabriele anno 2010


Il lavoro dell’angelo non è facile, è pieno di imprevisti; come l’ultimo, quando fui preso e messo in prigione con l’accusa di aver aggredito una donna, per fortuna il Signore mi aiutò facendo cadere l’accusa e potei aiutare altre persone in difficoltà come quel pomeriggio:
Una giovane donna stava seduta in una panchina in un piccolo parco, con in braccio un neonato che strillava e la donna non faceva nulla per calmarlo.
Mi sedetti nella stessa panchina, vicino alla donna chiedendole se le potevo essere di aiuto.
Lei dopo avermi guardato, cercò di dirmi qualcosa, ma dalle sue labbra non uscì nessun suono.
Capii che sia la donna che il neonato dovevano aver fame.
Le dissi che, se mi avesse seguito; in un Bar, le avrei offerto qualcosa da mangiare.
Le diedi il braccio per alzarsi, ma lei, dopo aver tentato di alzarsi, ricadde a sedere.
In quel momento passava un taxi, feci un cenno e il taxi si fermò vicino al marciapiede.
Dopo aver parlato con l’autista, aiutato da lui, aiutammo la donna ad alzarsi e sedersi nel taxi.
Dissi all’autista di accompagnarci ad un Bar lì vicino.
Era a cinquanta metri.
Sempre aiutato dall’autista facemmo scendere la donna e sedersi ad un tavolino nel Bar.
Volli pagare la breve corsa, ma lui non volle niente.
Lo ringraziai e sedetti in un’altra sedia vicino al tavolino.
Come venne una impiegata, chiesi un bicchiere di latte caldo, ben zuccherato e delle brioche.
Mentre la donna mangiava, presi in braccio il neonato che non smetteva di strillare.
Dopo aver cercato in tutti i modi di farlo zittire (compreso mettendogli un dito in bocca); gli scostai i panni che lo avvolgevano, sentii la causa del suo trillare.
Era sporco.
Chiesi all’impiegata se voleva prendere il mio posto che, sarei andato ad una farmacia a comprare quello che mi serviva.
Per fortuna, la farmacia rta lì vicino.
Stava chiudendo, ma sentendo la mia necessità, mi fece entrare, così potei prendere dei pannoloni e tutto quello che serviva per il neonato.
Tornato al Bar, vidi che la donna aveva ripreso in braccio il suo neonato.
Insieme, al bagno, sull’opposita tavola, sfasciammo il neonato, che poi era una neonata; lavata, asciugata e ricoperta, tornammo al tavolino.
« Se mi dice dove abita, l’accompagno a casa. »
Con le lacrime che cominciavano a scenderle, disse di non sapere dove andare.
« Se si fida di me, cercherò di aiutarla. Per questa notte dovremo andare in un Hotel, domani si vedrà. »
Non avendo altra scelta, accettò.
Uscimmo dal Bar, dopo aver chiesto dove potevamo trovare un Hotel, lì vicino.
Proprio accanto al Bar c’era un negozio di borse e valigie.
Entrammo e comprai una borsetta per Olga e una buona valigia per me, ci mesi gli oggetti comprati in farmacia, dopo aver pagato, uscimmo e porgendogli il braccio, ci dirigemmo verso l’Hotel indicatoci.
Dopo aver consegnato il mio documento, ritirammo la chiave e saliti al secondo piano, entrammo nella stanza 212.
Come entrammo in camera vidi dall’espressione di Olga che avrebbe preferito due
letti separati.
La tranquillizzai dicendole che, avrei dormito nella poltrona.
Quando Evelina (la neonata) cominciò a strillare (segno che aveva fame) e Olga si vergognava a mistrarmi un seno, dissi che avrei fatto due passi.
Scesi al piano terra dove, avevo visto che c’era un ristorante.
Dicendo ad un cameriere che mia moglie non stava bene, se poteva mandarci la cena in camera.
Scelsi un menù leggero, poi tornai in camera.
Bessai alla porta e dopo aver detto chi ero, Olga aprì la porta e mi fece entrare.
« Ho ordinato la cena, ce la dovrebbero portare tra non molto. »
« Me lei poi cosa vuole in cambio? »
« Niente! Non ci crede? Vede, io sono un angelo e gli angeli sono fatti per aiutare il prossimo senza chiedere nulla in cambio. Non crede, sia un angelo? Va bene, vorrà dire che sono una buona persona che si chiama Angelo Gabtilele. Così va meglio? »
Dopo che ci fu servita la cena, mangiato e fatto portare via i piatti vuoti, chiesi ad Olga se mi voleva raccontare la sua storia.
Olga era bulgara, aveva fatto parte dell’ochestra sinfonica di Sofia come flautista.
Il lavoro le piaceva, solo che era mal pagata; oltre a suonare nei vari concerti, doveva lavorare in una fabbrica tessile.
Durante una tourné in Italia a Milano, era fuggita dalla casa dove erano ospitate.
Cercò di farsi assumere nell’orchestra sinfonica della Scala.
Non avendo i documenti (le autorità bulgare per evitare fughe, toglievano loro i passaporti ogni volta che l’orchestra andava all’estero.
Senza documenti, la volevano far prendere dai carabinieri.
Per paura di venir poi ricondotta dove c’erano gli altri e venir punita, fuggì di nuovo e dopo aver girato senza meta per la città, si incontrò con altri due musicisti che stavano suonando in una piazzetta.
Uno era russo, si chiamava Dimitri e suonava la chitarra russa (Balalaika), l’altro era rumeno, si chiamava Boris e suonava la fisarmonica.
Finito di suonare e raccolti i soldi che venivano gettati in una scatola, Olga si presentò.
Quando era fuggita aveva portato con sé il suo flauto.
Fu accolta a far parte del duetto.
Dimitri e Boris abitavano in una soffitta che avevano in affitto.
Avevano solo un letto e Olga dovette dividerlo con loro.
Sulle prime, la lasciarono in pace, ma poi: prima Dimitri dicendo che era innamorato di lei, la prese, poi fu la volta di Boris, alla fine, dovette subire da tutti e due, fino a quando non rimase incinta.
Erano a Mantova, quando non riuscì più a suonare e a stare in piedi, fu accompagnata in ospedale.
Lasciata in una sala d’attesa, dicendo che andavano a sistemare il suo ricovero, l’abbandonarono lì fino a quando fu presa dalle doglie e portata nella sala parto.
Quando fu dimessa, non volle tornare nella soffitta dove stavano Dimitri e Boris. Cominciò a camminare senza meta, senza mangiare nulla, fino a quando sfinita si era seduta nella panchina.
Se non fossi passato di lì, sarebbero morte durante la notte.
Fu il Signore a guidare i miei passi.
Quando vidi Olga sbadigliare, andai al bagno, dando a lei la possibilità di spogliarsi e mettersi a letto, poi presa una coperta, mi sistemai nella poltrona e dopo aver pregato il Signore, mi addormentai.
La mattina, dopo aver fatto colazione, uscimmo e trovato un Centro Commerciale e il reparto, comprai tutto quello che serviva a Evelina, a Olga e per me.
Con tante buste tornammo in Hotel.
Due notti dopo, Olga mi permise di dormire con lei.
Non facemmo l’amore, perché gli angeli non hanno sesso: ne maschile ne femminile.
Il terzo giorno cercai un’Agenzia Immobiliare e lì con Olga dissi che cercavamo un appartamento nuovo da comprare, in una zona tranquilla.
Ne avevano, ma non a Mantova, ma a Brescia, se per noi andava bene, ci avrebbe accompagnato.
Per noi, un posto valeva un altro.
Ne visitammo diversi, fino a trovare quello che piaceva ad Olga, lo prendemmo.
Il contratto di acquisto e gli altri contratti, furono fatti a nome di Olga Scultz.
Sculz era un cognome tedesco, si vede che Olga era figlia di un tedesco e di una bulgara.
Grazie ad un amico angelo, ottenni i documenti di Olga e il permesso di soggiorno.
Essendo proprietaria di un appartamento, sarebbe stato più difficile che non gli avessero nel futuro, rinnovato il Permesso di Soggiorno.
Continuammo a stare nell’Hotel Paradiso di Brescia, fino a quando l’appartamento non fu completamento arredato, poi ci trasferimmo lì.
Un giorno mentre stavo uscendo dalla doccia (anche gli angeli fanno il bagno), Olga entrò nel bagno e mi vide; restò bloccata per quello che vide.
Una volta terminato di asciugarmi, tornai in camera.
« Te lo avevo detto che gli angeli non hanno sesso, ora mi hai visto e avrai capito, quando ti dissi che ero un angelo. »
Un giorno, tornando a casa, dal mio giro di buone azioni, presi la mano sinistra di Olga e le infilai al dito anulare una fede d’oro, dicendole: « Ora quando uscirai a portare a spasso Evelina, non ti dovrai vergognare, potrai sempre dire di essere sposata, anche se non è vero, purtroppo gli angeli non si sposano. »
Un altro giorno tornando da Milano le portai un regalo.
Aprendolo, vide il suo flauto.
Era il suo flauto, perché nella custodia c’erano le sue iniziali.
« Il mio flauto, come l’hai trovato, l’avevo lasciato a casa di Dimitri. »
« Mi trovavo a Milano e l’ho visto in un negozio di strumenti musicali. »
« Non sò come ringraziarti? Il mio flauto...il mio flauto. »
Mi abbracciò e mi diede un bacio.
« Quando Evelina sarà più grande e tu vorrai tornare a lavorare in una orchestra sinfonica, ti farò assumere, noi angeli abbiamo molte conoscenze. »
Una mattina svegliandomi, sentii che quel giorno stava succedendo qualcosa.
Mi vestii e salutando Olga con un bacio, uscii di casa e andai, dove il Signore guidava i miei passi.
Accanto al parapetto di un ponte, vidi un uomo che stava scavalcandolo.
Feci una corsa e lo bloccai.
Aveva una corda al collo e una grossa pietra legata.
« Ma che fà, è matto? »
« Lasciami, lasciami, voglio morire, voglio morire. »
« Perché vuoi morire? La vita è tanto bella, non la puoi buttare via. »
« Perché sono un disgraziato. »
« Senti perché non andiamo a prenderci un caffè, ne parliamo un pó e poi se non ti posso aiutare, non mi opporrò al tuo suicidio. »
Convinto, mi seguì.
Poco dopo seduti in un tavolino un pó appartato, iniziamo le presentazioni.
« Mi chiamo Angelo, sono un imprenditore, e tu? »
« Mi chiamo Augusto e sono un ingegnere fallito. »
« Fallito, perché? »
« Perche sono un viziato al gioco. Gioco e perdo e più perdo e più continuo a giocare. Per il mio vizio mi sono coperto di debiti e ho coperto di debiti la mia famiglia. Non ho più amici, nessuno vuole essere amico di uno che chiede soldi in prestito e non li restituisce. Ecco perché mi voglio uccidere. La mia vita, ormai non vale più nulla. »
« Non è vero, ci si può sempre fermare e ricominciare una nuova vita. »
« Non è vero, mi dispiace per il tuo tentativo di convincermi. Ora se non ti dispiace, torno al ponte e la faccio finita. »
« Va bene, come promesso non interferò nella tua decisione. »
Mentre Augusto mi parlava di lui, mi ero portato alle sue spalle e massaggiandogli le tempie, con il pensiero e con l’aiuto del Signore, gli facevo odiare il gioco.
Usciti dal Bar e diretti verso il ponte, passammo vicino ad una casa da gioco.
« Senti Augusto, mi è venuta voglia di giocare un pó di soldi, tu che sei un esperto mi devi dire come devo fare. »
« Vuoi giocare? Non lo fare, finirai per prendere il vizio e ti rovinerai come me.»
« Va bene, vorrà dire che darò i soldi a te e tu giocherai per me. »
« No! No, non voglio più giocare, per me il gioco è finito, se potessi ritornare indietro, non mi farò più invischiare dal vizio del gioco e sconsiglierò tutti di non giocare. »
« Allora se non vuoi giocare, ti darò un lavoro per la tua specialità. Vedi, faccio parte di una società di costruzioni e da un pó che andiamo alla ricerca di un buon Ingegnere, se vuoi lavorare, ti farò una lettera di presentazione. Dato che non vuoi più giocare e vuoi ricominciare una nuova vita, tanto per cominciare, torna a casa, torna dalla tua famiglia. »
« Dalla mia famiglia, con che coraggio mi ripresenterò, dopo tutto quello che ho fatto per loro. »
« Se hai paura di ripresentarti, ti accompagnerò. A proposito hai fratelli? »
« Ne ho sette, perché? »
« Tua moglie li conosce tutti? »
« Non tutti. »
« Benissimo, allora sarò tuo fratello Angelo. »
« Ma tu non sei mio fratello. »
« È vero, ma come dice il Signore Dio; siamo tutti fratelli. Sarò tuo fratello per finta, solo tu lo saprai. Allora che ne dici fratello Augusto? »
Restando d’accordo, chiamai un taxi e ci facemmo portare dove abitava Augusto.
Arrivati davanti la porta dell’appartamento dove abitava, Augusto non voleva suonare il campanello, lo feci per lui.
Aprì la porta una donna che, anche se non era tanto giovane, non per questo fosse di mezza età, a occhio e croce, non doveva avere più di quarant’anni.
« È questa l’ora di tornare, dove sei stato tutto il giorno? Di certo a giocare. »
« No! Non stava a giocare, era in cerca di lavoro, ci siamo incontrati per caso. »
« E lei chi è, un creditore se è venuto a chiedere soldi, ha sbagliato porta. »
« No! Non sono venuto a chiedere soldi, semmai sono venuto a portarli. Mi chiamo Angelo e sono il fratello di Augusto. »
« Tuo fratello, non mi hai mai parlato di lui? »
« In famiglia siamo tanti e non tutti andiamo d’accordo. »
« Se è il fratello di mio marito, allora è anche mio cognato. Si accomodi, purtroppo non le posso offrire un caffè, per colpa sua non abbiamo neanche un tozzo di pane. »
« Allora vorrà dire che vi inviterò a cena in un buon ristorante e mentre mangeremo, mi direte dei vostri guai, vedrò come posso rimediare. »
Poco dopo, Augusto, Anna (la moglie), Maria (la figlia) e Mario (il figlio), seduti a tavola a mangiare: Fettuccine all’uovo con il ragù alla bolognese e un bicchiere di Chianti (Coca Cola per i ragazzi), parlavamo del più e del meno.
« Come ho detto ad Augusto, faccio farte di una società edilizia e cercavamo un buon Ingegnere, ho chesto ad Augusto se vuole lavorare per noi. Non mi ha dato ancora la risposta, allora accetti o non accetti. Ti verranno dati tremila Euro al mese più i premi di trasferta. Che mi rispondi? L’unica cosa che però devi promettere, non giocare più e pensare solo alla famiglia. »
Rispose Anna per lui: « Accetta, se non accetta, chiederò il divorzio. »
« Va bene, accetto e prometto di non giocare più. »
« Allora siamo intesi, domanimattina ti presenterai all’ufficio assunzioni con questa lettera, comincerai subito a lavorare. Per i tuoi debiti, li salderò io, poi me li ridarai con comodo. Ora però vi devo lasciare, mia moglie starà in pensiero, ci rivedremo domani mattina. »
Pagai il conto e chiamato un taxi mi feci riportare a casa.
Olga stava già a letto, cercai di non svegliarla.
Fu Evelina a svegliarla.
Mentre l’attaccava al seno volle sapere come era andata la giornata.
Le raccontai tutto e anche di quello che avrei fatto il giorno dopo.
« Solo un angelo poteva fare quello che hai fatto tu. Ora sì che credo che esistono gli angeli. »
« Ti ringrazio, ma non devi dimenticare di ringraziare sempre il Signore di averci fatto incontrare e di tutto quello che hai e di quello che avrai in futuro, lo devi più a lui che a me. »
« Te lo prometto, pregherò sempre il Signore, come mi hai insegnato tu. »
Il giorno dopo ero di nuovo a casa di Augusto e dopo aver saldato tutti i debiti con la mia Carta di Credito, portai Anna, Mario e Maria ad un Centro Commerciale dicendo loro di comprare tutto quello che volevano, avrebbe offerto lo zio Angelo.
Anna e Maria si comprarono dei vestiti, Mario volle un compiuter dicendo che quello che aveva glielo aveva preso il padre.
Tornati a casa diedi ad Anna la mia Carta di Credito dicendole: « Questa Carta non dà soldi, paga solo, ma non paga tutto, paga solo le cose necessarie. Non vi preoccupate, quando Augusto tornerà a guadagnare, me la ridarete. Un’altra cosa, tra due mesi devo battezzare mia figlia Evelina, vorrei che tu e mio fratello foste i suoi padrini, accettate? »
Anna dandomi un bacio (sulla guancia) disse: « Accetto, sarà un onore. »
Salutandola, me ne tornai a casa.
Poi mi sono svegliato; era stato solo un sogno, un bellissimo sogno.